La democrazia esigente o dello stato sociale liberale: Riflessioni a margine di un recente volume di Paola Chiarella

Il problema principale del liberalismo politico, ancor prima che la tragica “crisi di risultati” in cui si è infilato tra l’11 Settembre del 2001 e lo scoppio della bolla speculativa tra il 2007 e il 2008, è stato essenzialmente una crisi di idee, nella quale è stato avvinto dopo il 1989 e la caduta del Muro di Berlino. Da un lato, la dottrina liberale ha cercato di presentarsi come un sereno “quieta non movere”, fondandosi sul principio della fine della Storia, nella realizzazione ottimale dei fini dell’ordinamento giuridico rebus sic stantibus. Dall’altro, è evidente, né la politica legislativa né la sedes contenziosa entro cui essa può essere posta sotto stress sono rimaste immobili: perciò, il liberalismo costituzionale ha sempre più concesso spazi al liberismo economico e al potere di vigilanza e intervento di auctoritates non legittimate. Sulla base di un argomento presto svelatosi fasullo: lasciare intervenire nella speranza della residualità dell’intervento a-normativo (che è divenuta presto consapevolezza dell’allargamento spasmodico dell’intervento a-normativo).

Per queste ragioni è particolarmente utile il recente lavoro di Paola Chiarella, “Giustizia sociale e politica costituzionale nel pensiero di Bruce Ackerman” (Giuffré, Milano, 2015), dove la studiosa si cimenta con un giurista sin qui negletto dal dibattito giuridico italiano. Con più di qualche torto: non solo per i contenuti dell’analisi di Ackerman, ma anche perché, e a ben vedere Chiarella ci riesce benissimo, nelle spigolature al pensiero dell’A. c’è spazio per un’indagine a campo aperto sul ragionamento morale e sulle istituzioni giuridiche della democrazia costituzionale.

Paola Chiarella prende giustamente le mosse dalla pesante ipoteca lasciata dal pensiero di John Rawls nel quadro della più parte delle teorie di orientamento liberale (p. 5); senonché il neocontrattualismo rawlsiano non è preso come un dogma indefettibile, ma ben calato nel contesto delle concezioni di giustizia procedurale. I rilievi, talvolta penetranti, talvolta inappaganti, di Gauthier sono debitamente riportati dalla Chiarella, che pur dimostra di non aderire pienamente ad essi, almeno nel momento in cui apprezza in Rawls l’ipotesi di un riconoscimento del giusto che si realizzi a prescindere dalla realizzazione di un bene oggettivo (ibidem).

È ritenuta più convincente (pp. 16-17) la critica dello stesso Ackerman, che è riferita con una compenetrazione argomentativa persino più attenta di quella delle law schools radicali americane. Ackerman critica l’approccio intrinsecamente ideologico di Rawls, ma non lo fa con i tratti caratteristici delle critiche proponibili rispetto ad ogni proposta teorica purchessia. Si sofferma, invece, sulle lacune epistemologiche che pure Rawls non risolve (ivi compresa, p. 17, la mancata definizione della classe sociale meno avvantaggiata, che certo non si soddisfa con le mere indicazioni proposte da Rawls).

Paola Chiarella tenta di recuperare, per tal via, la componente marcatamente antiautoritaria che dovrebbe connotare la teoria politica liberale, fondandosi essenzialmente su una visione dinamica del rapporto sociale, all’interno del quale la stabilità del potere occulto gioca contro, e non a favore, del funzionamento democratico (p. 21). Argomenti consimili sono riccamente ripresi dall’A. anche nell’approccio alla giurisprudenza americana (pp. 146 e ss.) e qui piace notare i meriti dell’approccio veicolato. In una recente tendenza comparatistica che, a volte, asserisce di fondarsi sulla giurisprudenza (non riferendone però i precedenti determinanti) e che, alle altre, preferisce la ricostruzione ideologico-politica (o sposando o attaccando il sostrato liberal-democratico a carattere egemonico dell’ordinamento statunitense), l’Autrice usa con sapienza tanto il metodo casistico quanto la ricostruzione di fondo degli istituti tratteggiati. La visione di pluralismo che è da ricercare non avviene per monadi affastellate, come paradossalmente rischia di fare il multiculturalismo più sorprendentemente vicino a tesi noncognitivistiche, ma rigettando lo schema di inclusione velatamente paternalistico cui pure la Corte Suprema per decenni ha guardato (secondo l’adagio “separate but equal”, pericolosamente vicino al “ciascuno padrone a casa propria”).

La coerenza della proposta ricostruttiva dell’Autrice è corroborata dal riferimento al contenzioso giurisdizionale in materia di libertà religiosa, nelle mosse finali della trattazione, ove, in sostanza, ci sembra che il raccordo operativo tra le clausole del no establishment e del free exercise sia avvenuto più in base alla mutevole composizione del collegio giudicante, che non in forza di una seria e inflessibile revisione metodologica. Ma ancor più spicca nel lavoro dell’Autrice la critica ben circostanziata alla legislazione “emergenziale” in materia di lotta al terrorismo. Quest’ultima ha preferito la “delega larga” dei Costituenti (la sicurezza pubblica), piuttosto che una previa indagine sui contenuti reali di quella sicurezza o, almeno sul piano teorico, sull’utilizzazione di strategie di prevenzione non coercitive.

In questo senso, non si possono non validare le articolate osservazioni secondo cui (pp. 113-120, ma anche 120 e ss.) alla fine è in gioco il “buon uso” dell’interpretazione costituzionale. Non già per delineare, sebbene in forme procedurali più organiche, l’utopia di Madison della “costituzione per ogni generazione”, quanto, e meglio, per comprendere che la Costituzione (le costituzioni) non possono essere panni da tirare ora in un senso, ora in un altro. Semmai, leggi fondamentali che nella loro dinamica evolutiva e, soprattutto, applicativa necessitano del contributo fattuale della cittadinanza.

V’è certo molto altro nell’analisi dell’Autrice: la già ricordata attenzione alle implicazioni di filosofia morale che ritornano più frequentemente nella prima sezione del volume, come l’analisi teorica di questioni a evidente ricaduta effettuale (si pensi alle problematiche sollevate dal diritto delle successioni e all’abusata immagine del “patto tra generazioni”, dietro la quale in Italia va avanti un avvilente andazzo di legislazione pensionistica).

Quivi, preme, però, segnalare i meriti fondamentali dell’opera: restituire organicità alla rilettura di un giurista che non ha ancora debita attenzione, ma che nell’impostazione svela non occasionali contenuti di vero interesse; utilizzare il prisma offerto dall’opera di Ackerman per interrogarsi lucidamente sullo status del dibattito giuridico liberale democratico. I tre aggettivi, appare suggerire l’Autrice, o si affrontano nel medesimo contesto (e, perciò: legittimazione, protezione e partecipazione) o rischiano di sfuggire allo scrittoio dello studioso, come dell’operatore pratico, in tanti frammenti irriducibili a sistema. 

Dott. Bilotti Domenico

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