L’inesistenza soggettiva rappresenta la terza tipologia di operazioni fittizie disciplinata dalle disposizioni definitorie del sistema penaltributario e consiste nell’indicazione, in fattura, di nominativi riferiti a soggetti diversi rispetto a quelli tra i quali l’operazione commerciale è realmente intercorsa.
La novella del 2000 non richiede che l’indicazione dei falsi nominativi debba essere tale da impedire l’identificazione dei soggetti a cui l’operazione commerciale realmente si riferisce, ponendo così fine alla diatriba dottrinale e giurisprudenziale sorta in vigenza della disciplina precedente, circa il momento (ex ante o ex post) in cui il giudice avrebbe dovuto valutare la concreta idoneità ingannatoria della falsità commessa.
La falsità in argomento, rilevante ai fini del delitto di dichiarazione fraudolenta mediante l’uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti
[1], riguarda esclusivamente l’indicazione del nominativo di un cessionario-committente diverso da quello reale, e, conseguentemente anche l’ipotesi in cui entrambi i nominativi, del cedente e dell’acquirente, siano diversi da quelli effettivi, mentre nessuna rilevanza deve attribuirsi all’indicazione di un nominativo falso riferito al cedente, situazione questa che verrà ad integrare il diverso delitto di emissione di fatture per operazioni inesistenti sanzionato dall’articolo 8 del decreto di riforma del sistema penaltributario
[2].
A tale conclusione si giunge sulla base della disciplina della fattispecie di cui all’art. 2, che, ai fini dell’integrazione del delitto ivi previsto, riferisce la falsità rilevante al soggetto utilizzatore, il quale agisce al fine di poter abbattere l’imponibile o l’iva mediante lo strumento fraudolento della fattura.
Alla luce delle precedenti osservazioni, occorre rilevare che l’inesistenza soggettiva richiesta dal combinato disposto degli articoli 1, c. 1, lett.a), e 2 del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, non dovrebbe realizzarsi allorchè il soggetto che rappresenta il destinatario degli effetti di un determinato negozio giuridico, secondo le disposizioni fiscali, risulti essere diverso da quello che ha invece preso parte al predetto negozio e ne ha sopportato le spese.
E’ il caso, ad esempio, di una società che concluda un contratto di locazione di immobili ad uso commerciale e corrisponda regolarmente il canone di locazione mensile, allorchè tale immobile venga, invece, utilizzato dall’amministratore della stessa come abitazione per sé ed i suoi familiari.
In questa ipotesi, infatti, l’operazione è realmente intercorsa tra le parti indicate nel contratto, benchè dal punto di vista fiscale i costi che la società sopporta non abbiano alcuna inerenza con l’attività esercitata e, pertanto, non possano in alcun modo essere considerati deducibili dal reddito della stessa secondo le disposizioni previste dall’art. 109, c. 5, testo unico delle imposte sui redditi.
Tale conclusione si riverbera anche in ordine alla vexata quaestio riguardante l’assimilazione dei costi non fiscalmente deducibili agli elementi passivi fittizi richiesti ai fini dell’integrazione dei reati in materia di dichiarazione, di cui agli articoli n. 2, 3 e 4 del decreto di riforma del sistema penaltributario.
In ispecie, prendendo spunto dalla lettera dell’articolo 4 del decreto citato, alcuni autori hanno ritenuto che l’espressione “indica […] elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo” costituisca un elemento oggettivo del reato di dichiarazione infedele per il solo fatto che vi sia una divergenza quantitativa, non necessariamente conseguente a falsità e simulazioni, tra gli elementi attivi dichiarati e quelli effettivi; simmetricamente, per “elementi passivi fittizi” dovrebbero intendersi tutti quegli elementi indicati in dichiarazione che, secondo le disposizioni fiscali, divergano per eccesso (indeducibili) rispetto a quelli effettivi
[3].
Da ciò, si dovrebbe concludere per l’insussistenza di fondate ragioni che possano escludere dal novero degli elementi passivi fittizi anche i costi indeducibili, in quanto divergenti per eccesso rispetto a quelli realmente deducibili.
La nozione allargata di fittizietà viene accolta anche dagli organi preposti all’accertamento; la Circolare n. 114000 del 14 aprile 2000 del Comando Generale della Guardia di Finanzia
[4], infatti, si esprime nel senso di ricomprendere tra gli elementi passivi fittizi tutte quelle componenti negative di reddito non vere, non inerenti, non spettanti, o insussistenti nella realtà, che risultino dichiarate in misura superiore a quella effettivamente sostenuta o a quella ammissibile in detrazione.
Tutte le ragioni a sostegno dell’ampliamento del concetto di fittizietà anche alle componenti di costo “indeducibili” troverebbero conferma nella ratio ispiratrice della novella penaltributaria che intende colpire con il maglio della sanzione penale tutte le condotte che siano causa di un concreto danno per l’erario.
Tuttavia, una parte autorevole della dottrina ha sostenuto che il significato da attribuire al concetto di fittizietà ai fini che qui interessano deve essere ricercato non già nelle pieghe del diritto tributario, bensì nell’ambito dell’ordinamento penale, poiché, diversamente, si rischierebbe di applicare la sanzione penale anche laddove non si dovrebbe, determinando in tal modo la violazione del principio di tassatività previsto dall’articolo 25 della Costituzione.
In ispecie, si è ritenuto che la semplice inosservanza delle disposizioni di carattere tributario che limitano la deducibilità di taluni costi, non sarebbe
ex se idonea ad attribuire rilevanza penale alla condotta
[5], dovendo, quest’ultima, essere connotata dalla falsità e dalla fraudolenza richieste dalle fattispecie incriminatrici
[6]. In particolare, la “fittizietà” di una spesa o di un costo dovrebbe essere desunta sulla base di una valutazione prettamente penalistica effettuata sulla scorta della tipica connotazione modale della condotta prevista dalla fattispecie astratta e concretamente realizzata dal contribuente.
In altre parole, in ossequio alla formulazione letterale della disposizione incriminatrice contenuta nell’art. 2 e di quella definitoria di cui all’art. 1, i costi indicati dal contribuente nella dichiarazione e/o in contabilità sono fittizi in quanto derivanti da operazioni inesistenti, perché non realmente effettuate in tutto o in parte o riferite a soggetti diversi da quelli effettivi.
Conseguentemente, in relazione al delitto di dichiarazione fraudolenta mediante l’uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, il termine “fittizio” assumerà il connotato dell’inesistenza materiale (oggettiva o soggettiva).
Alla luce di quanto osservato, è da condividere il recente orientamento della Corte di Cassazione
[7], secondo cui “[…]; le fatture emesse da parte dei fornitori o prestatori di opera nei confronti del committente o cessionario che ha effettuato il pagamento non possono qualificarsi come fatture per operazioni soggettivamente inesistenti, essendo essi in conformità della legislazione tributaria gli effettivi soggetti del rapporto”, essendo irrilevante il fatto che il fruitore finale (destinatario) della prestazione sia un soggetto diverso.
E ancora “[…] con il termine «fittizi» indicato dalla norma devono intendersi esclusivamente i costi materialmente inesistenti e, cioè, i costi che non sono mai stati sostenuti dal contribuente e non quelli non deducibili, in quanto costi non inerenti all’esercizio dell’azienda.”
Ragioniere commercialista
Revisore Contabile
[1] Per un approccio generale al reato “de quo”, si veda Sperduti M., “
La dichiarazione fraudolenta mediante l’uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti. La posizione degli amministratori di società di persone”, in
Overlex, 17 aprile 2008, p. http://www.overlex.com/leggiarticolo.asp?id=1647.
[2] Si vedano Mangione A.,
“La dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti”, in AA.VV.,
“Diritto penale tributario” a cura di Musco E., Milano, 2002, p. 35; Di Amato A., Pisano R.,
“I reati tributari” in
“Trattato di diritto penale dell’impresa” diretto da Di Amato A., Padova, 2002, p. 414. In giurisprudenza si vedano
Tribunale Pinerolo, 7 marzo 2001, in “Dir. pen. e processo”, 2001, p. 1411, secondo cui “l’utilizzazione di fatture soggettivamente inesistenti, qualora riferite a prestazioni effettive, non rileva ai sensi dell’art. 2 comma 1 d.lg. n. 74 del 2000, bensì rileva ai sensi dell’art. 8 d.lg. cit., sotto il profilo dell’emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, secondo la definizione datane nel precedente art. 1”; Trib. Milano, 21 dicembre 2000, in “Foro Ambrosiano”, 2001, 262, il quale ha sostenuto che “l’utilizzo di una o più fatture, riportandone in dichiarazione i valori documentati, per operazioni soggettivamente inesistenti, punibile a norma dell’art. 4 comma 1 lett. f ) della legge n. 516/82, non è penalmente rilevante ai sensi dell’art. 2 d.lg. 10 marzo 2000 n. 74: chi utilizza fatture emesse da un soggetto diverso da quello che realmente ha eseguito la prestazione, non espone alcun elemento passivo fittizio, bensì un costo effettivamente sostenuto, e non agisce certo al fine di realizzare una propria evasione.”
[3] In questo senso Gallo F.,
“Rilevanza penale dell’elusione” in
“Rass. Tribut.”, 2001, n. 2, p. 324.
[4] Circolare citata, par. 3.1. in
“La frode fiscale” di Santamaria B., Milano, 2002, appendice normativa, p. 609.
[5] A tal proposito si veda Mercurio V.,
“Valutazioni di bilancio e rilevazioni contabili nei reati tributari” in
“Diritto e pratica tributaria”, 2002, p. 942.
[6] Sulla questione si veda Mangione A.,
“La dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici” in AA.VV.,
“Diritto penale tributario”, a cura di Musco E., Milano, 2002, p. 78., secondo il quale: “non si nega che il costo inesistente sia anche indeducibile, anzi, ciò rasenta persino l’ovvio. Si nega invece la correttezza epistemologica della generalizzazione che da ciò si vuol trarre: e che cioè tutto quel che è indeducibile è per ciò solo fittizio.”
[7] Sez. III penale, sentenza n. 3203 del 26 novembre 2008, in
Italgiure Web.
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