La diffamazione a mezzo chat di gruppo

Luigi Orlando 02/05/19
SENTENZA, 17 gennaio – dep. 20 febbraio 2019, n. 7904.

 SOMMARIO: 1. Inquadramento giuridico dell’istituto della diffamazione.2. Il fatto. 3. Conclusioni.

Inquadramento giuridico dell’istituto della diffamazione

Prima dedicarci all’analisi della sopracitata sentenza, appare opportuno inquadrare l’istituto del delitto di diffamazione il quale, trova la sua fonte nell’art. 595 del codice penale:

Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a euro 1.032.

Se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato, la pena è della reclusione fino a due anni, ovvero della multa fino a euro 2.065.

Se l’offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a euro 516 .

Se l’offesa è recata a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario, o ad una sua rappresentanza o ad una autorità costituita in collegio, le pene sono aumentate.

In riferimento a tale articolo, dobbiamo mettere in evidenza, gli elementi che ne costituiscono la fattispecie.

Il primo elemento che andiamo a considerare è il bene giuridico.

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La norma, va a tutelare in qualità di bene giuridico la reputazione.

Essa, è definita dalla dottrina maggioritaria come il sentimento che ciascuno ha della propria dignità morale.

Per quanto riguarda l’elemento oggettivo, esso si arricchisce di tre elementi essenziali:

  1. Assenza dell’offeso: questo, pare abbastanza evidente e lo si deduce già dall’inciso dello stesso articolo: chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente – il riferimento è all’ingiuria[1] – […] ciò, comporta che si verifichi l’impossibilità che la persona offesa, percepisca in modo diretto l’addebito diffamatorio e che si verifichi qualsiasi tipo di fatto che la legge lo equipari alla presenza.

Chiaramente, è importate che la persona cui l’offesa è diretta, sia determinata o determinabile.

Ciò inoltre, emerge sapientemente, anche in una recente sentenza, «[…] il reato di diffamazione è costituito dall’offesa alla reputazione di una persona determinata e non può essere, quindi, ravvisato nel caso in cui vengano pronunciate o scritte frasi offensive nei confronti di una o più persone appartenenti ad una categoria anche limitata se le persone cui le frasi si riferiscono non sono individuabili (Sez.5, n. 51096 del 19/09/2014, Monaco’, Rv. 261422)[2]».

     2.Offesa all’altrui reputazione: tale secondo requisito, consiste chiaramente nell’offendere l’altrui reputazione

Quì, la prevalente dottrina ritiene che per offesa, debba intendersi non nel significato di lesione ma, come la probabilità o possibilità che l’uso di parole o di determinati atti, possano ledere l’altrui onore.

L’offesa all’altrui reputazione, può avvenire in qualsiasi modalità infatti, anche le espressioni dubitative possono integrare il delitto di diffamazione, specie fatte nella forma di insinuazione purché, siano idonee a ledere o mettere in pericolo la reputazione della persona offesa.

Altra differente modalità di diffamazione, è quella cd. omissiva e qui, sia giurisprudenza che dottrina, ritengono che tale comportamento omissivo, è integrato qualora venga detta una verità incompleta o la mancata correzione di errori o imprecisioni in relazione ad una notizia che il soggetto attivo fornisce.

  1. Comunicazione a più soggetti: per verificarsi, è necessario che il soggetto attivo del reato, renda partecipi dell’addebito diffamatorio, almeno due persone (non vi deve essere ovviamente nel conteggio, il soggetto passivo) le quali, debbano essere in grado di percepire l’offesa e di comprenderne il significato.

A tal proposito, la giurisprudenza ritiene che il suddetto delitto, persista anche nel caso in cui il colpevole, manifesti l’offesa ad una sola persona, purché quest’ultima, lo comunichi successivamente ad altri soggetti. Passando ora all’esame dell’elemento soggettivo, sia dottrina che giurisprudenza, ritengono si tratti di delitto a dolo generico il quale, si esaurisce nella volontaria esecuzione dell’azione tipica, rappresentandone l’attitudine a ledere o a porre in pericolo determinati beni giuridici quali, reputazione ed onore.

La Cassazione ha tenuto a ribadire però, che l’indagine sulla consapevolezza del contenuto lesivo delle frasi pronunciate, si semplifichi in una ipotesi di elevato grado di istruzione dell’agente per il quale, sarà più difficile adottare in propria difesa, la scusante del non aver riconosciuto il significato di una simile espressione diffamatoria[3].

In attinenza al momento consumativo del delitto di diffamazione, esso si verifica quando l’offesa viene comunicata a più soggetti; quando la comunicazione avvenga in tempi diversi, il reato è consumato nell’istante in cui si perfeziona la comunicazione con la seconda persona.

Last but not least, riguarda le circostanze.

Tra le circostanze aggravanti previste per tale tipo di delitto, troviamo:

1. Attribuzione di un fatto determinato: la ratio di questa aggravante è individuata nella maggiore capacità offensiva racchiusa nell’andare ad attribuire un fatto determinato in quanto, l’agente non si limita ad affibbiare una generica qualità disonorante ma, imputa un fatto concreto alla persona offesa.

Affinché inoltre, si abbia un fatto determinato, la dottrina ritiene che sia sufficiente che l’enunciazione, presenti una certa concretezza, sia cioè accompagnata da qualche nota che la faccia apparire vera e renderla credibile agli occhi dei soggetti.

2.Diffamazione a mezzo stampa[4]: il reato può considerato commesso al ricorrere di due elementi: uno oggettivo, riferibile alle modalità di formazione dello scritto, tali da garantire la riproduzione del testo in diverse copie; una soggettiva, relativa alla divulgazione ad un certo numero indeterminato di soggetti.

3.Offesa recata a un corpo politico, amministrativo o giudiziario: anche il tal caso, è richiesto che la persona offesa, non sia presente altrimenti, si andrebbe a configurare l’ipotesi di delitto di oltraggio, ex art. 342 c.p.[5]

Il fatto

Ciò chiarito, passiamo ora alla disamina della sentenza in questione.

La questione riguarda un minore (under 14) il quale, partecipando ad una chat di gruppo whatsapp, aveva offeso una sua coetanea – anche lei membro dello stesso gruppo e compagna di classe – ledendone la reputazione tramite l’invio di alcuni messaggi all’interno della suddetta chat di gruppo.

Come riportato nella sentenza, si evince chiaramente il tenore dei messaggi lesivi e diffamatori dell’onore della giovane: «si vabbè non se ne deve andare lei per colpa di una Troia Putt. zo.»

Infatti, gli stessi Ermellini della Corte, hanno ritenuto in fatto che, pur dichiarato non luogo a procedere nei confronti di Co. Al., poiché trattasi di persona non imputabile per via dei suoi anni (under 14) hanno confermato che: «[..] il tenore dei messaggi a questi riferibili, versati nella chat di un ‘gruppo whatsapp’ cui egli partecipava, non potevano dirsi ictu oculi privi di valenza offensiva per la reputazione di altra minore».

La difesa del giovane, sosteneva che nel caso in questione, non sussistesse il reato di cui all’art 595 c.p, ma, quello di ingiuria ormai depenalizzato e divenuto illecito civile.

Il legale del giovane, faceva forza sul fatto che il soggetto passivo del reato (la ragazza), fosse anche lei all’interno della chat di gruppo ed aveva dunque, percepito in prima persona le frasi offensive che le erano state rivolte dal giovane, così da inquadrare tale fattispecie, non nella diffamazione ma, nell’illecito di ingiuria che come detto in precedenza, differisce proprio per via della presenza o meno del soggetto passivo del reato e dalla immediata o meno percezione dell’offesa.

Il ricorso proposto dal difensore del ragazzo, è stato ritenuto infondato poiché, come saggiamente asserisce la Suprema: «[…] la eventualità che tra i fruitori del messaggio vi sia anche la persona nei cui confronti vengono formulate le espressioni offensive non può indurre a ritenere che, in realtà, venga, in tale maniera, integrato l’illecito di ingiuria piuttosto che il delitto di diffamazione».

Come si può chiaramente evincere da questo primo estratto della sentenza, i Giudici della Cassazione, escludono l’illecito di ingiuria, sostenendo che, «sebbene il mezzo di trasmissione/comunicazione adoperato (‘e-mail’ o ‘internet) consenta, in astratto, (anche) al soggetto vilipeso di percepire direttamente l’offesa, il fatto che messaggio sia diretto ad una cerchia di fruitori – i quali, peraltro, potrebbero venirne a conoscenza in tempi diversi -, fa si che l’addebito lesivo si collochi in una dimensione ben più ampia di quella interpersonale tra offensore ed offeso (Sez. 5, n. 44980 del 16/10/2012, P.M. in proc. Nastro, Rv. 254044; Sez. 5, n. 4741 del 17/11/2000, Pm. In proc. Ignoti, Rv. 217745): di qui l’offesa alla reputazione della persona ricompresa nella cerchia dei destinatari del messaggio».

Conclusioni

Deve essere inquadrata proprio qui la questione la quale, si sofferma sulla chiara e netta distinzione tra, il delitto di diffamazione ex art. 595 c.p., e quello dell’illecito di ingiuria.

I Giudici, per far rientrare il caso in esame nella fattispecie della diffamazione hanno preso in considerazione il momento consumativo del reato stabilendo che i soggetti, «potrebbero venirne a conoscenza – dell’offesa ndr – in tempi diversi».

Ciò su cui bisogna soffermarsi, è il momento in cui il soggetto passivo, abbia percepito l’offesa poiché, questo è il momento cruciale per stabilire se trattasi di ingiuria (sottolineando che trattasi di illecito civile non più reato) oppure di diffamazione.

Quì la Corte è stata chiara nello stabilire che, siccome trattasi di chat a mezzo internet, è chiaro che i soggetti potrebbero venirne a conoscenza in tempi diversi, ed è chiaro altresì, che la persona offesa, potrebbe venire a conoscenza dopo che le altre persone ne abbiano già preso visione delle offese a lui rivolte.

A conclusione ma, soprattutto a rafforzamento di tale tesi, si vuole richiamare quì, anche alcune precedenti decisioni della Cassazione, attraverso le quali, è stato sancito che il suddetto reato è a tutti gli effetti un reato di evento e, in quanto tale, si consuma nel momento e nel luogo in cui i terzi percepiscono l’espressione diffamatoria, o nel caso in cui siano state immesse sul web o online, nel momento in cui il collegamento viene attivato[6].

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Note

[1] Articolo ormai abrogato e depenalizzato dal d.lgs. 15 gennaio 2016, n. 7.

[2] Cass., Sez. V, 23 febbraio 2016, n. 24065. 2.

[3] Cass., Sez. V, n. 11660 del 2012.

[4] La legge n. 47 del 1948, art. 1 definizione di stampa o stampato: Sono considerate stampe o stampati, ai fini di questa legge, tutte le riproduzioni tipografiche o comunque ottenute con mezzi meccanici o fisico chimici, in qualsiasi modo destinate alla pubblicazione

[5] R. GAROFOLI. Manuale di diritto penale, parte speciale,tomo II. Roma, 2017. P. 537 ss.

[6] Cass. Pen., Sez. V, 25 luglio 2006, n. 25875. – Cass. Pen., Sez. I, 15 marzo 2011, n 16307.

Luigi Orlando

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