Premessa
La disciplina italiana della diffamazione è da tempo oggetto di valutazioni critiche che sempre più fanno riferimento anche alla sua scarsa conformità ai principi della Convenzione europea dei diritti umani (CEDU)[1]. Si è determinata così un’esigenza di riforma concretizzatasi in proposte di legge che non sono mai andate in porto. Nell’attuale XVII legislatura un testo unificato di proposta è stato presentato alla Camera il 13 maggio 2013[2] e, dopo essere stato approvato con modifiche dal Senato e dalla Camera in seconda lettura, dal 9 settembre 2015 pende dinanzi al Senato[3]. L’imminente fine della legislatura esclude che anche tale riforma possa andare in porto. Appare pertanto utile, ai fini di un’adeguata attenzione al problema nella nuova legislatura, considerare approfonditamente le difformità, rispetto alla CEDU, non solo dell’attuale disciplina, ma anche dell’ultima proposta di riforma, in modo che anche le carenze di quest’ultima siano superate nella futura azione legislativa. A tal fine considereremo prima i contenuti essenziali della giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani (la Corte) in tema di diffamazione, per poi confrontarli con il diritto interno de iure condito e de iure condendo.
Le tre fasi del giudizio della Corte sulla legittimità della condanna per la diffamazione
- La previsione per legge
Una condanna per diffamazione costituisce una interferenza con la libertà di espressione e quindi contrasta, in principio, con l’art. 10 CEDU a meno che non sia << prescritta dalla legge >>, non persegua uno o più degli obiettivi legittimi ex art. 10 par. 2 e non sia << necessaria in una società democratica >>[4].
La Corte, nel sindacare la legittimità di una interferenza, valuta la sussistenza di ciascuno dei tre requisiti in successione fra loro. Se quindi, ad esempio, l’interferenza non è prescritta dalla legge, non è necessario per la Corte procedere a valutare se persegua uno o più degli obiettivi legittimi ex art. 10 par. 2 e se sia necessaria in una società democratica.
Per quanto riguarda il primo requisito, in base al quale una restrizione deve essere prescritta dalla legge, tale espressione significa innanzitutto che l’interferenza in questione deve avere qualche fondamento nel diritto interno; in secondo luogo, essa si riferisce alla qualità della << legge >>, richiedendo che quest’ultima sia accessibile al destinatario, prevedibile e compatibile con lo Stato di diritto. Il requisito della prevedibilità comporta che una norma non possa essere considerata come legge se non sia formulata con sufficiente chiarezza e precisione, tali da rendere il cittadino capace di regolare in anticipo la sua condotta. La prevedibilità costituisce una garanzia per il cittadino rispetto ad interferenze arbitrarie dei pubblici poteri.
- La rispondenza ad un obiettivo legittimo. Rapporto fra art. 10 e art. 8
Quanto al requisito della conformità della restrizione ad un obiettivo legittimo, fra gli obiettivi perseguibili contemplati dall’art. 10 par. 2 figura la tutela della << reputazione altrui >> che costituisce il fondamento di giustificazione delle norme in materia di diffamazione. Tale obiettivo viene in considerazione anche quando le norme sulla diffamazione vengono applicate a tutela di persone giuridiche, anche se sussiste una differenza rispetto agli individui in quanto la reputazione di questi ultimi ha una dimensione morale, connessa con la dignità personale, che manca nel caso delle prime[5].
Di recente, la Corte manifesta la tendenza a trattare i casi di condanna per diffamazione non tanto come ipotesi di restrizione della libertà di espressione riconducibili all’art. 10 par. 2, quanto piuttosto come casi di conflitto fra l’art. 10 e il diritto al rispetto della vita privata di cui all’art. 8, nel quale rientra il diritto alla reputazione. In tal caso, la reputazione non può essere interpretata restrittivamente, quale eccezione ad un principio generale, ma riceve un’interpretazione ampia, quale diritto di pari grado rispetto alla libertà di espressione con la quale deve essere, pertanto, bilanciato[6]. Affinché possa ritenersi che vi sia una violazione dell’art. 8, l’offesa alla reputazione deve assurgere ad un certo livello di gravità ed essere tale da compromettere il godimento personale del diritto alla vita privata. Dall’art. 8 derivano anche, secondo la Corte, per gli Stati obblighi positivi di assicurare il rispetto effettivo della vita privata anche nei rapporti fra individui adottando leggi che predispongano una tutela adeguata: tra queste è stata fatta rientrare la normativa penale che garantisce reputazione e privacy attraverso il reato di diffamazione. Pertanto, la mancata previsione di quest’ultimo o un’ingiustificata archiviazione di una denuncia di diffamazione potrebbero costituire violazione dell’art. 8[7].
In tale giurisprudenza più recente la Corte ha anche elaborato un vero e proprio “decalogo” espresso dei fattori che prende in considerazione nel giudizio di bilanciamento i quali sono: il contributo dell’espressione incriminata a un dibattito di interesse generale; il livello di notorietà della persona la cui reputazione è lesa; l’argomento della comunicazione; la condotta della persona offesa precedente alla dichiarazione; il metodo seguito per ottenere le informazioni e la veridicità di queste ultime; il contenuto, la forma e le conseguenze della pubblicazione; la severità della sanzione imposta.
Oltre che in base all’obiettivo della tutela della reputazione, la condanna per diffamazione può essere giustificata anche dalla tutela di altri diritti, quali la presunzione di innocenza e la tutela dell’interesse dei fanciulli.
- Il requisito della necessità ed il giudizio di proporzionalità e bilanciamento
La Corte accerta quindi che la restrizione sia necessaria, cioè risponda ad un << bisogno sociale pressante >> in una società democratica, che sia << proporzionata all’obiettivo legittimo perseguito >>, tenuto conto dell’importanza della libertà di espressione in una società democratica, e che le ragioni addotte dai tribunali interni per giustificarla siano << rilevanti e sufficienti >>[8].
L’esame di necessità e proporzionalità viene fatto sulla base delle circostanze del caso concreto. Quelle alle quali la Corte dà rilievo, come vedremo nel prosieguo, sono: la posizione del ricorrente e delle persone offese, la natura e l’oggetto delle dichiarazioni incriminate, la loro qualificazione come dichiarazioni di fatto o opinioni, le parole usate, l’esistenza di prove della verità delle dichiarazioni offensive. Infine, anche la corrispondenza del procedimento ai principi dell’equo processo, le garanzie procedurali assicurate e la natura e severità delle sanzioni imposte sono fattori da tenere in considerazione nella valutazione della proporzionalità dell’interferenza con la libertà di espressione realizzata dalla condanna per diffamazione.
Un ulteriore elemento da prendere in considerazione nel giudizio sulla necessità della condanna è il margine di apprezzamento di cui godono gli Stati contraenti la cui ampiezza varia a seconda dell’obiettivo legittimo perseguito. Ad esempio, nel campo della tutela della reputazione, essendovi una base comune fra gli Stati membri riguardo ai principi in questione e alle concezioni morali sottese, tale margine è limitato, mentre nell’ambito della protezione dei diritti altrui in relazione ad attacchi alle convinzioni religiose è più ampio, a causa dell’assenza in Europa di una concezione uniforme in ordine alla tutela delle espressioni suscettibili di offendere le convinzioni personali intime che attengono alla sfera morale o religiosa[9].
Nel valutare la rilevanza e sufficienza delle motivazioni delle decisioni interne di condanna, la Corte, per il principio di sussidiarietà, prende in considerazione il fatto che il giudizio di bilanciamento sia avvenuto o meno alla luce dei principi della sua giurisprudenza in materia.
3.1. I fattori del giudizio di proporzionalità: a) La modalità di manifestazione della libertà di espressione.
La prima circostanza di fatto rilevante è la modalità di manifestazione della libertà di espressione. La Corte ha attribuito grande rilievo a tale libertà quale << uno degli essenziali fondamenti di una società democratica >> e le ha conferito un riconoscimento assai ampio, applicandola non solo a informazioni o idee che sono accolte favorevolmente o considerate come inoffensive o neutre, ma anche a quelle che offendono, disturbano o creano shock. Inoltre, le eccezioni alle quali tale libertà è soggetta in base all’art. 10 par. 2 devono essere interpretate restrittivamente[10].
L’espansione potenzialmente illimitata della libertà di espressione incontra un limite nel divieto di abuso dei diritti (art. 17 CEDU), quale ad esempio la negazione o revisione di fatti storici chiaramente accertati come l’Olocausto.
Varie sono le modalità di manifestazione della libertà di espressione individuate dalla Corte e soggette ciascuna a una specifica tutela.
3.1.1. La libertà di opinione
Vi è anzitutto la libertà di opinione che non è un diritto a diffondere informazioni, ma ad esprimere opinioni e trasmettere idee (art. 10 par. 1). Tale concetto è alla base della distinzione operata dalla Corte fra dichiarazioni di fatto e giudizi di valore. Essa implica il divieto, per il legislatore nazionale, di richiedere la prova della verità per le affermazioni che consistono in meri giudizi di valore. Infatti, la veridicità di tali giudizi – a differenza delle dichiarazioni di fatto per le quali la prova della verità è richiesta – sarebbe impossibile da provare e pertanto il requisito della prova della verità violerebbe l’art. 10. La Corte richiede comunque che non siano del tutto svincolati da qualsiasi base fattuale[11].
3.1.2. La libertà di dibattito politico
Un’altra manifestazione della libertà di espressione è la libertà di dibattito politico il cui esercizio – che avviene tradizionalmente attraverso il mezzo della stampa, ma oggi anche tramite l’uso degli altri media e di Internet – è finalizzato a fornire al pubblico un mezzo per scoprire e formarsi un’opinione sulle idee e le attitudini dei rappresentanti politici. In quanto tale, la libertà di dibattito politico è il cuore della democrazia e rispetto ad essa il margine di apprezzamento degli Stati è ristretto. Affinché il dibattito politico possa svolgersi il più liberamente possibile, la Corte ha ammesso in tale ambito il ricorso ad affermazioni esagerate, provocatorie e persino smodate[12].
La manifestazione di espressione isolata che non rientri in un dibattito politico o di pubblico interesse ha un grado di tutela ridotto in quanto più ampio è il margine di apprezzamento delle autorità nazionali nel ricorrere ad interferenze con la libertà di espressione negli ambiti suscettibili di offendere le convinzioni personali intime attinenti la morale o, più in particolare, la religione.
3.1.3. Il dibattito di pubblico interesse
I principi generali concernenti la libertà di dibattito politico in senso stretto si applicano anche alla discussione su tutte le altre questioni di pubblico interesse rispetto alle quali vige pertanto lo stesso livello (massimo) di tutela.
Quanto alla precisazione della nozione di “dibattito di pubblico interesse”, alcuni esempi di materie rientranti in essa sono: la salvaguardia dell’ambiente e della salute pubblica; i comportamenti deontologicamente scorretti nell’ambito della pubblica amministrazione; il funzionamento del sistema giudiziario – e, particolarmente, della giustizia penale -, essendo quest’ultimo una istituzione essenziale per ogni società democratica.
3.1.4. La libertà di stampa
La libertà di espressione esercitata attraverso il mezzo della stampa beneficia del massimo della tutela accordata dalla Convenzione perché al diritto/dovere della stampa di diffondere informazioni e idee corrisponde il diritto del pubblico di riceverle. Quando la libertà di stampa ha ad oggetto questioni politiche o di pubblico interesse, si applicano i principi stabiliti per tali questioni, compreso quello per il quale è ammesso in quest’ambito il ricorso ad un certo grado di esagerazione o persino di provocazione.
Sebbene il livello di tutela della libertà di stampa sia massimo, non si può tuttavia giungere ad affermare che essa sia illimitata, in quanto è subordinata al presupposto che i giornalisti agiscano in buona fede, cioè senza l’intento di denigrare, sulla base di una verifica delle fonti, al fine di fornire informazioni accurate e affidabili alla stregua dei principi etici del giornalismo[13].
La libertà di stampa si manifesta attraverso varie tecniche giornalistiche. Una posizione particolare occupa, ad esempio, la cronaca giudiziaria grazie alla quale i politici e l’opinione pubblica possono verificare che i giudici stiano esercitando le loro responsabilità in modo conforme al compito affidato loro. In tale peculiare ambito la libertà di stampa deve essere controbilanciata, da un lato, con l’esigenza di proteggere il giudiziario da attacchi distruttivi che siano essenzialmente infondati e, dall’altro, con la necessità di tutelare la presunzione di innocenza di terze persone. A tal fine, la Corte attribuisce rilievo al fatto che gli articoli si informino a uno stile il più possibile oggettivo, non trascendano nel sensazionalistico o nello scandalistico ed evitino di menzionare i nomi o di pubblicare le foto delle persone coinvolte[14]. Non c’è violazione della presunzione di innocenza quando un articolo di giornale informa espressamente il lettore del fatto che una persona non è imputata in un procedimento penale. Per giudicare se sia violata la presunzione di innocenza, si tiene anche conto del fatto che il procedimento possa essere stato sospeso e dunque l’articolo non ne possa influenzare l’esito[15]. La violazione non sussiste neanche quando c’è una base fattuale sufficiente a sostegno di determinate affermazioni[16].
Nonostante il rilievo della presunzione di innocenza, la Corte ritiene che essa non limiti la libertà di stampa al punto da richiedere che sia necessaria una condanna penale perché si possano formulare delle supposizioni di reato nei confronti di qualcuno senza commettere diffamazione[17].
Altra tecnica giornalistica è l’intervista la cui caratteristica è la presenza di frasi riferite dal giornalista, ma provenienti da terze persone ed espressione della loro soggettiva visione delle cose: secondo la Corte non è possibile richiedere al giornalista di prendere sistematicamente e formalmente le distanze dal contenuto di dichiarazioni riportate che possano danneggiare l’altrui reputazione. Al fine di escludere che determinati passaggi di un’intervista siano a sé imputati, il giornalista può seguire alcune regole precauzionali che la Corte richiama, quali l’uso del condizionale, il ricorso alle virgolette per evidenziare le dichiarazioni di terze persone riferite e la citazione dei nomi di dette persone. Se il pubblicista si è attenuto a tali precauzioni, l’articolo non può essere considerato diffamatorio[18].
Per quanto riguarda i reportages giornalistici, la Corte ha affermato che, come regola generale, un caso singolo possa essere preso ad esempio per discutere di un problema più ampio. Inoltre, sebbene sussista un obbligo deontologico di accertamento dei fatti e non si possa affermare il falso, non si può pretendere che il giornalista operi secondo criteri di totale obiettività. E’ intrinseco nel genere letterario del reportage giornalistico un certo coefficiente di parzialità, ragione per la quale è anche pacificamente ammesso dalla giurisprudenza della Corte un certo grado di esagerazione o perfino di provocazione, purché non vi sia una animosità personale o un abuso manifesto[19].
3.1.5. La satira e il pamphlet
Altre modalità di esercizio della libertà di espressione sono le opere letterarie, storiche e la satira. Quanto a quest’ultima, la giurisprudenza della Corte l’ha definita come forma di espressione artistica e di cronaca sociale che, per mezzo delle sue intrinseche qualità di esagerazione e distorsione della realtà, mira naturalmente a provocare e agitare; pertanto, ogni interferenza con il diritto di un artista o altro soggetto nell’uso di tale mezzo di espressione dovrebbe essere sottoposta ad un sindacato particolarmente attento[20].
Altra forma di espressione è il pamphlet o documento polemico. Anch’esso riveste un ruolo nel dibattito di pubblico interesse, essenziale in una società democratica. Pertanto la Corte ha escluso la liceità di interferenze sproporzionate e, in particolare, ha respinto radicalmente la possibilità di comminare sanzioni detentive[21].
3.1.6. Le dichiarazioni verbali. Le dichiarazioni tramite Internet
La Corte dà importanza non solo alla sostanza delle idee e delle informazioni, ma anche alla forma nella quale esse sono veicolate. Quanto alle dichiarazioni verbali, poiché esse non sono soggette alla meditazione attenta e ponderata alla quale è sottoposto uno scritto, viene giustificato un maggior grado di animosità, anche tenuto conto delle condizioni emotive nelle quali lo scambio verbale avviene[22].
Diversamente, nel caso di dichiarazioni fatte utilizzando Internet, la Corte ritiene che esse, quando liberamente accessibili e popolari fra il pubblico, costituiscano, ai giorni nostri, un mezzo di espressione avente un effetto non meno potente della stampa. Pertanto, alla nuova forma di espressione del pensiero costituita dai post nei forum di Internet, se utilizzata da giornalisti, si applicano le regole di deontologia professionale che riguardano questi ultimi[23].
3.2. I fattori del giudizio di proporzionalità: b) La qualità del soggetto attivo
La seconda circostanza di fatto considerata dalla Corte è la qualità del soggetto attivo dell’espressione diffamatoria.
3.2.1. I privati
Quanto alla libertà di espressione dei semplici privati, va precisato che i forum di Internet hanno dato la possibilità anche ai soggetti che non esercitano la professione di giornalista di avvalersi di un mezzo di comunicazione di efficacia pari a quella della stampa. Sembrerebbe potersi ricavare dalla giurisprudenza della Corte che ai semplici privati che trattano di argomenti di attualità nell’ambito dei forum di discussione su Internet è richiesto uno standard di accuratezza, nel verificare i fatti alla base delle loro affermazioni, inferiore rispetto a quello richiesto ai giornalisti in quanto ai primi non si applicano le regole di deontologia professionale cui è subordinata la professione di giornalista[24].
3.2.2. Gli avvocati
Quanto agli avvocati, la giurisprudenza della Corte distingue a seconda che la loro libertà di espressione venga esercitata nel dibattimento o al di fuori di esso. Nel primo caso, dato il preponderante interesse al diritto di difesa, le restrizioni alla libertà di espressione, anche nella forma di una sanzione penale lieve, sono ammesse dalla Corte solo in casi eccezionali. L’avvocato difensore deve essere libero di scegliere gli argomenti difensivi, anche se critici nei confronti di un’altra parte del procedimento, quale è da considerare il pubblico ministero, senza essere influenzato dal chilling effect potenziale di una sanzione penale anche lieve o perfino del semplice obbligo di pagare i danni e i costi processuali. Infatti sebbene, secondo la Corte, la libertà di espressione degli avvocati durante il processo non sia illimitata, tuttavia essa deve ricevere una particolare tutela in quanto mezzo per realizzare la “parità delle armi” indispensabile ad un processo equo ex art. 6. E’ dunque ammesso uno scambio di idee anche acceso fra le parti del processo[25].
Nel caso in cui, invece, essi facciano commenti pubblici sull’amministrazione della giustizia, le loro critiche non devono superare certi limiti. La Corte, pur escludendo che gli avvocati possano essere equiparati ai giornalisti quanto all’estensione della libertà di espressione, ha riconosciuto ad essi in modo ampio tale libertà, anche fuori dal dibattimento e altresì come possibile mezzo di difesa, purché con moderazione e sufficiente base fattuale delle opinioni. Vi è infatti una pluralità di interessi da controbilanciare fra loro, tra i quali il diritto del pubblico di ricevere informazioni su una materia di pubblico interesse, quale il funzionamento del sistema giudiziario, le esigenze di una corretta amministrazione della giustizia, la dignità della professione legale e la reputazione del giudiziario[26]. In particolare, la Corte ha richiamato i limiti apposti all’attività dell’avvocatura nei dieci principi fondamentali elencati nella Carta dei principi fondamentali dell’avvocato europeo adottata dal Consiglio degli Ordini forensi europei il 24 novembre 2006.
3.2.3. I sindacalisti
Passando a considerare i sindacalisti, va innanzitutto precisato che la giurisprudenza della Corte in tema di rappresentanti di associazioni di lavoratori subordinati si applica anche ai rappresentanti di associazioni professionali di lavoratori autonomi o di dipendenti pubblici. Tale giurisprudenza conferisce a detti soggetti ampia libertà di espressione in considerazione dei rapporti fra art. 10 e art. 11 CEDU e cioè del fatto che la garanzia della libertà di espressione è uno dei principali mezzi per assicurare l’effettivo godimento della libertà di associazione e di riunione garantite dal predetto art. 11[27].
Si applica inoltre ai sindacalisti il principio che riguarda gli impiegati in generale per il quale se, da un lato, essi godono di una libertà di espressione ampia, in quanto sono direttamente a conoscenza e dunque in condizione di denunciare comportamenti illegali all’interno del luogo di lavoro, dall’altro, sono tenuti ad un dovere di lealtà e discrezione nei confronti del proprio datore di lavoro e pertanto, prima di denunciare tali comportamenti al pubblico, devono farlo al loro diretto superiore o ad altra autorità competente, ricorrendo alla denuncia pubblica solo quando tali vie non siano praticabili[28].
3.2.4. Componenti degli organi elettivi, candidati alle elezioni, partiti politici e loro membri
Se la libertà di espressione è importante per tutti, lo è a maggior ragione, secondo la Corte, per i componenti degli organi democratici elettivi, nazionali o locali, i quali, rappresentando il loro elettorato, hanno il compito istituzionale di attirare l’attenzione sulle preoccupazioni e difendere gli interessi di quest’ultimo. Pertanto, le interferenze con la loro libertà di espressione richiedono, secondo la Corte, lo scrutinio più severo[29].
Per quanto riguarda coloro che esercitano il diritto a candidarsi alle elezioni, secondo la Corte tale diritto, sancito dall’art. 3 del Protocollo n. 1, è fondamentale in una società democratica e pertanto chi lo esercita deve poter beneficiare di una libertà di espressione molto ampia. Non è dunque condivisibile l’argomento per il quale un candidato parlerebbe in nome di un proprio interesse personale e non dell’interesse pubblico perché il sostegno della propria candidatura è interesse tutelato dal suddetto art. 3[30].
Quanto ai partiti politici e ai loro membri, si applicano ad essi le stesse ragioni che giustificano una maggiore ampiezza della libertà di espressione dei sindacalisti e dei rappresentanti di associazioni professionali[31].
3.3. I fattori del giudizio di proporzionalità: c) La qualità del soggetto passivo
Secondo elemento di fatto da prendere in considerazione è la qualità del soggetto passivo dell’espressione diffamatoria.
3.3.1. Soggetti che esercitano pubbliche funzioni
Nel caso si tratti di soggetti che esercitano pubbliche funzioni, ai fini del bilanciamento fra la libertà di espressione e la tutela della loro reputazione, la Corte ha fissato espressamente alcuni criteri: il contributo dell’espressione incriminata a un dibattito di interesse generale; il livello di notorietà della persona la cui reputazione è lesa; l’argomento della comunicazione; la condotta della persona offesa precedente alla dichiarazione; il metodo seguito per ottenere le informazioni e la veridicità di queste ultime; il contenuto, la forma e le conseguenze della pubblicazione; la severità della sanzione imposta[32]. Tali criteri generali sono stati poi dettagliati nei singoli casi con riguardo a specifici soggetti.
Ad esempio, la Corte ha delineato i limiti della critica accettabile rispetto ad un politico – quando questi agisce in qualità di pubblico rappresentante e non nella sua veste di privato, ovvero esercita funzioni ufficiali – come più ampi che nei confronti del privato. Inoltre, il grado di tolleranza richiesto ad un politico è direttamente proporzionale alla natura estremistica delle convinzioni sostenute[33] e, in generale, al contenuto discutibile delle sue stesse manifestazioni di pensiero[34].
La vita privata di un politico non si può considerare, invece, materia di pubblico interesse e pertanto eventuali espressioni lesive della sua reputazione in tale ambito sono da considerarsi diffamatorie[35].
Considerazioni simili a quelle enunciate per i politici si applicano, secondo la Corte, anche ai personaggi pubblici, cioè a coloro che sono noti alla generalità del pubblico[36].
Quanto ai componenti del governo, la Corte ha stabilito, nel caso Castells, che i limiti della critica ammessa sono più ampi che nei confronti di privati cittadini o persino di politici in generale. Infatti, in una società democratica la condotta del governo deve essere soggetta al controllo serrato non solo del legislativo e del giudiziario, ma anche della stampa e dell’opinione pubblica. Inoltre, la posizione dominante del governo rende necessaria da parte di quest’ultimo un’autolimitazione nel ricorrere a procedimenti penali, soprattutto quando vi sono altri mezzi disponibili per replicare ad ingiustificati attacchi e critiche degli avversari o dei media. Resta tuttavia un margine, sia pur ristretto, per ricorrere a sanzioni penali per reagire in modo proporzionato ad accuse prive di fondamento o formulate in mala fede[37].
In base alla giurisprudenza della Corte non sono legittime, in linea di principio, norme nazionali che limitino la libertà di espressione rispetto ai capi di Stato. Ciò vale, secondo la Corte, anche per i re: il fatto che questi ultimi occupino una posizione neutrale nel dibattito politico e agiscano come arbitri e simboli dell’unità nazionale non li pone al riparo da ogni critica nell’esercizio dei loro doveri ufficiali o nel loro ruolo di rappresentanti dello Stato che simboleggiano, in particolare da parte delle persone che si oppongono legittimamente alle strutture costituzionali dello Stato, inclusa la monarchia[38].
Come per i politici, anche per i pubblici ufficiali vale il principio per il quale, in alcune circostanze, i limiti della critica accettabile sono più ampi che nei confronti dei privati. Pertanto, non solo il ruolo pubblico esercitato dalla persona offesa non può costituire una circostanza aggravante della diffamazione, come avviene nell’ordinamento di alcuni Stati, ma i funzionari devono, in alcune circostanze, mostrare un più ampio grado di tolleranza. Naturalmente, si devono considerare le affermazioni incriminate in modo diverso a seconda che riguardino la vita privata del funzionario o il suo ruolo istituzionale[39]. Inoltre, non si può dire che, al pari dei politici, i funzionari si espongano consapevolmente ad un controllo serrato di ogni loro parola ed atto da parte sia dei giornalisti che del pubblico in generale. Pertanto, essi non possono essere trattati su un piano di parità rispetto ai primi, ma la loro reputazione, se agiscono nell’esercizio delle loro funzioni, gode di una maggiore tutela perché il loro ruolo necessita di fiducia da parte del pubblico e dell’esclusione di turbative indebite[40].
Si noti come la Corte superi l’orientamento ossequioso dell’autorità che caratterizza alcune norme interne fondate su una tutela di principio dell’istituzione, adottando una concezione per la quale l’istituzione, da un lato, deve rispondere ai cittadini del proprio operato, dall’altro, deve essere tutelata da attacchi indebiti che comprometterebbero non tanto la posizione del singolo, quanto lo stesso servizio reso alla collettività.
3.3.2. I magistrati
Per la Corte, una posizione particolare deve essere riconosciuta ai giudici in quanto la salvaguardia dell’autorità del giudiziario è fra gli obiettivi legittimi di cui all’art. 10 par. 2.
Il ruolo dei giudici, fondamentale in uno Stato democratico, necessita della fiducia del pubblico. Pertanto, essi devono essere protetti da attacchi distruttivi gratuiti che siano essenzialmente infondati, anche perché hanno un dovere di discrezione che impedisce loro di replicare[41]. Tuttavia, ciò non significa che siano esenti da critiche: al contrario, la Corte li assimila ai funzionari pubblici che, per il fatto di svolgere una funzione pubblica, sono esposti ad un livello di critica superiore rispetto a quello consentito per il privato cittadino[42].
Quanto ai pubblici ministeri, in linea di principio, nella giurisprudenza della Corte, sono considerati funzionari il cui compito è quello di contribuire all’amministrazione della giustizia e sono fatti rientrare, dunque, nell’apparato giudiziario in senso ampio. Pertanto, è nell’interesse generale che essi, al pari dei giudici, godano della fiducia del pubblico ed è quindi necessario per lo Stato proteggerli da accuse infondate[43].
Tuttavia, la stessa Corte aderisce all’orientamento di molti Stati contraenti nei quali la reputazione dei pubblici ministeri è meno tutelata rispetto a quella dei giudici[44].
3.3.3. I privati
Devono considerarsi privati, alla luce della giurisprudenza della Corte, gli individui che non esercitano funzioni ufficiali. Si noti come la Corte abbia esteso ai privati che si siano esposti volontariamente al pubblico dibattito le restrizioni della reputazione riconosciute per i politici, sia pure in misura minore. In tal caso, si applica altresì il principio, già enunciato rispetto ai politici, per il quale il grado di tolleranza deve essere proporzionale alla natura criticabile delle opinioni espresse dal soggetto e, pertanto, dichiarazioni discutibili possono giustificare una reazione critica da parte della stampa[45].
Tra i privati, la reputazione dei giornalisti gode di una particolare tutela dal momento che l’esercizio della relativa professione, cruciale in una società democratica, necessita da parte del pubblico di una fiducia che dichiarazioni diffamatorie possono minare[46].
Dato il ruolo degli avvocati nell’amministrazione della giustizia, la loro condotta professionale costituisce argomento di pubblico interesse e quindi, nell’esercizio delle loro funzioni, la loro reputazione gode di una tutela più limitata rispetto a quella dei privati[47].
La Corte ha respinto la tesi secondo la quale coloro che gestiscono società di diritto privato non possano essere considerati personaggi pubblici perché tale qualità dipende non dalla natura privatistica o pubblicistica dell’ente, ma dalla dimensione istituzionale e dal rilievo delle funzioni che essi esercitano, nonché dal fatto di ricevere finanziamenti pubblici, come nel caso dei dirigenti scolastici[48].
La Corte ritiene, infine, che sia degna di essere tutelata anche la reputazione delle società commerciali, ad esempio in caso di dichiarazioni diffamatorie circa la qualità dei beni che esse producono. Tale tutela si giustifica sia per garantire gli interessi degli azionisti e degli impiegati delle società, sia per tutelare il buon andamento del sistema economico. Tuttavia, essa è inferiore rispetto a quella delle persone fisiche perché è fondata solo su considerazioni economiche, mentre manca il profilo delle implicazioni morali ed etiche[49].
3.4. I fattori del giudizio di proporzionalità: d) Gli altri fattori
3.4.1. Specificità e oggettività della dichiarazione diffamatoria
La Corte richiede, come requisito di proporzionalità dell’interferenza con la libertà di espressione, l’esistenza di un collegamento oggettivo fra l’affermazione incriminata e la persona che agisce per diffamazione. Mere congetture personali o percezioni soggettive dell’offensività di una frase non sono dunque sufficienti a giustificare una condanna per diffamazione. Perché quest’ultima possa ammettersi, le circostanze del caso concreto devono essere tali da far ritenere al lettore medio che le affermazioni riguardino specificamente un determinato soggetto. Quanto alla identificabilità dei soggetti diffamati, essa risulta dalla pubblicazione non solo del nome, ma anche di altri dati relativi, ad esempio, alla professione o alla località di provenienza nel caso in cui, trattandosi di ambiti ristretti, tali dati consentano facilmente di pervenire all’identificazione del diffamato[50].
3.4.2. La prova della verità delle dichiarazioni di fatto
Le dichiarazioni di fatto che attribuiscono specifici atti ad uno specifico individuo[51], nella giurisprudenza della Corte, richiedono di essere provate perché la condanna per diffamazione sia considerata necessaria alla luce dell’art. 10.
Emerge dalla giurisprudenza della Corte come la prova della verità debba essere sempre ammessa; ad esempio, non sarebbe legittimo considerare automaticamente falsa l’accusa rivolta a qualcuno di aver commesso un reato, anche nel caso in cui per detto reato non sia intervenuta una condanna penale o un’incriminazione. Alla prova della verità non va applicato lo standard di prova richiesto per pervenire ad un’incriminazione o ad una condanna penale, essendo quest’ultimo molto elevato[52]. Quanto al momento della prova della verità, la Corte ha dichiarato non accettabili i limiti temporali ad essa posti ed ha affermato il principio per il quale, quando si tratta di avvenimenti storici o scientifici, possono emergere negli anni nuovi fatti che arricchiscono il dibattito e migliorano la comprensione di ciò che realmente accadde[53].
Una particolare posizione è quella dei giornalisti. Per essi, la Corte esclude la condanna per diffamazione anche quando la prova della verità non sia raggiunta, nei casi in cui il giornalista sta discutendo una materia di reale interesse pubblico e sempre che egli abbia agito professionalmente e in buona fede. La Corte ha definitivamente chiarito che la buona fede sussiste indipendentemente dal fatto in sé della veridicità delle informazioni quando, però, il giornalista abbia impiegato un notevole grado di diligenza nel verificarle, ad esempio consultando e citando documenti, intervistando numerosi testimoni, affidandosi a fonti autorevoli, etc. e sempre che il giornalista abbia presentato i fatti in maniera ragionevolmente bilanciata, ovvero abbia dato alla persona diffamata l’opportunità di difendersi[54].
Nella valutazione della gravità delle affermazioni, conta anche l’impatto della diffamazione che è maggiore quando le dichiarazioni siano state rese in un articolo pubblicato su un settimanale famoso a livello locale o in una conferenza stampa di fronte a molte persone. Al contrario, un volantino pubblicato in centocinquanta copie ed una newsletter dalla limitata circolazione sono stati considerati meno lesivi della reputazione[55].
3.4.3. La replica e la rettifica
Ulteriori fattori di valutazione delle affermazioni diffamatorie nell’ambito del giudizio sulla necessità democratica della condanna per diffamazione sono: l’offerta alla persona interessata di pubblicare una replica, la pubblicazione di una rettifica o eventuali avvertimenti ex ante nei confronti della persona incriminata per diffamazione[56].
Tuttavia, si evince dalla giurisprudenza della Corte che la pubblicazione di una rettifica e l’offerta di pubblicare una replica non sarebbero elementi indicativi della buona fede del ricorrente nel caso di dichiarazioni di fatto prive di fondamento che abbiano ricevuto un’ampia diffusione, in quanto la rettifica non elimina il danno alla reputazione che il ricorrente avrebbe dovuto evitare accertando accuratamente i fatti prima della pubblicazione[57].
La Corte ha anche stabilito che è legittimo prevedere per legge l’obbligo di pubblicare una rettifica o una replica o di informare la persona interessata circa le ragioni del rifiuto di pubblicare una replica[58].
3.4.4. La natura e la severità delle sanzioni
La natura e la severità delle sanzioni imposte sono ulteriori fattori da tenere in conto quando si valuta la proporzionalità di una condanna per diffamazione rispetto all’obiettivo legittimo perseguito. Si tratta comunque di un argomento succedaneo rispetto a quello, preliminare, della proporzionalità della condanna come tale; esso, pertanto, di solito è esaminato dalla Corte quando la condanna si giustifichi alla luce dell’art. 10[59].
La Corte ha stabilito che, sebbene gli Stati debbano sempre limitare il ricorso a sanzioni penali, in particolare quando altri mezzi di riparazione sono disponibili, l’uso di tali sanzioni in casi di diffamazione non è di per sé sproporzionato, dato l’ampio margine di apprezzamento riconosciuto in materia.
Un attento sindacato di proporzionalità da parte della Corte è richiesto quando le sanzioni applicate dalle autorità nazionali riguardano la stampa, perché esse non devono essere in grado di dissuadere quest’ultima dal diffondere informazioni su questioni di legittimo interesse pubblico. Il ricorso a sanzioni penali, sebbene neanche in questi casi sia di per sé sproporzionato, è tuttavia considerato legittimo dalla Corte solo in ipotesi particolarmente eccezionali[60] che riguardano un attacco estremamente serio ai diritti individuali. Sostenere un orientamento diverso significherebbe dissuadere i giornalisti dal contribuire al dibattito pubblico su questioni di interesse generale e impedire alla stampa di esercitare il suo ruolo di << cane da guardia della democrazia[61] >>.
La Corte, comunque, non si preoccupa solo della stampa, ma anche di non scoraggiare i membri del pubblico in genere, per timore di sanzioni penali o di altro tipo, dall’esprimere le proprie opinioni su argomenti di interesse generale, ad esempio mediante la satira. Anche con riferimento a soggetti che non siano giornalisti, pertanto, in questi casi una condanna con applicazione di sanzioni penali è in linea di principio non proporzionata[62].
Il giudizio sulla proporzionalità della sanzione, pertanto, non può essere formulato in termini assoluti, ma dipende dal contesto delle espressioni incriminate, cioè dal fatto che esse possano ritenersi o meno parte di un dibattito politico o su questioni di pubblico interesse, nonché dalla qualità del soggetto che esercita la libertà di espressione.
Oltre al caso della stampa e del dibattito su questioni di pubblico interesse, richiedono un giudizio di proporzionalità della sanzione più severo i casi in cui la libertà di espressione sia rafforzata dall’esigenza di tutelare altri diritti. Pertanto, dato il preponderante interesse al diritto di difesa, le restrizioni alla libertà di espressione degli avvocati difensori, anche nella forma di una sanzione penale lieve, sono ammesse dalla Corte solo in casi eccezionali[63].
Del pari, il superiore interesse alla difesa dei fanciulli rende sproporzionate, per il loro effetto deterrente, sanzioni penali anche lievi o obblighi di pagare danni e costi nei confronti di adulti che esercitino la loro libertà di espressione per denunciare abusi commessi nei confronti dei fanciulli stessi[64].
Passando a considerare le singole sanzioni penali, si rileva che quella pecuniaria, per esprimere un bilanciamento fra libertà di espressione e diritto alla reputazione, deve essere in rapporto di proporzionalità con il danno alla reputazione sofferto. La Corte prende in considerazione, per valutare la proporzionalità di una multa, la situazione finanziaria del ricorrente[65], lo stipendio medio del suo Paese[66], la gravità dell’offesa e il grado della colpa. Una multa eliminata in seguito a sospensione condizionale della condanna è stata valutata come sproporzionata a causa dell’effetto deterrente dato dall’astratta possibilità di riaprire il procedimento durante il periodo di sospensione[67], come pure è tendenzialmente sproporzionata una multa che si converte in pena detentiva in caso di mancato pagamento[68].
La condanna al pagamento di danni civilistici eccessivi in relazione alle entrate del soggetto interessato è stata considerata dalla Corte afflittiva al pari della sanzione pecuniaria penale[69].
Del pari, indipendentemente dalla qualificazione nominale come sanzione amministrativa, l’abnormità dell’importo può rendere tale sanzione, secondo la Corte, afflittiva al pari di una sanzione penale e, pertanto, ugualmente dissuasiva, in termini di chilling effect, rispetto all’esercizio della libertà di espressione. Inoltre, la sanzione amministrativa disposta in sostituzione della sanzione penale non è proporzionata quando vi sia l’astratta possibilità, contemplata dalla legge, di ricorrere a sanzioni penali nel caso di una seconda condanna per diffamazione.
Passando alla misura del sequestro, la Corte, sebbene sia una misura successiva e non preventiva, tende a considerarla sproporzionata perché deve considerarsi comunque una forma di censura tale da scoraggiare il giornalista dall’esprimere la propria opinione in futuro[70].
Quanto alla sanzione rappresentata dalla pubblicazione di un avviso concernente la condanna penale, la Corte ha considerato, ai fini della proporzionalità, l’impatto sia dell’avviso che della diffamazione: la trasmissione per radio di tale avviso per venti volte è stata giudicata, nel caso Radio France, come un’interferenza moderata con la libertà di espressione rispetto all’impatto sul diritto alla reputazione derivante dalla trasmissione di un annuncio diffamatorio per sessantadue volte in tutto il territorio nazionale[71].
Con riguardo alla pena detentiva, sembrerebbe delinearsi, nella giurisprudenza della Corte, un duplice regime. Da un lato, per espressioni offensive correlate ad una discussione su un argomento di pubblico interesse, soprattutto attraverso la stampa o i media, tale pena è ritenuta compatibile con la libertà di espressione sancita dall’art. 10 solo in circostanze eccezionali, cioè quando altri diritti fondamentali siano stati violati, come nei casi di hate speech o incitamento alla violenza[72]. Dall’altro, in un caso in cui non si verteva in un ambito di pubblico interesse, la Corte ha ritenuto proporzionata la pena detentiva – sia pur di lieve entità e sospesa – a prescindere dai requisiti della eccezionalità e della violazione di diritti fondamentali[73].
Nei casi in cui è coinvolta la libertà di stampa la Corte ha stabilito che, anche se la condanna è sospesa a condizione che il giornalista (o in generale colui che discute di questioni di interesse pubblico attraverso la stampa) non commetta altri reati in un determinato periodo, la sanzione è ugualmente sproporzionata dato il permanere del chilling effect potenziale esercitato da essa e della condanna penale[74]. Infine, la Corte ha ritenuto sproporzionata la sanzione detentiva, perché capace di esercitare un chilling effect sul dibattito su questioni di pubblico interesse attraverso la stampa, anche quando eliminata in seguito alla grazia o all’amnistia, dato il permanere della condanna penale[75].
Rispetto all’interdizione dall’esercizio della professione di giornalista, come misura preventiva di carattere generale, la Corte ha ritenuto che essa, per il suo carattere fortemente dissuasivo, anche se limitata nel tempo, è giustificabile solo in casi eccezionali.
Un altro elemento preso in considerazione dalla Corte nel giudizio di necessità è costituito dalla procedura del giudizio di diffamazione la quale deve rispettare i principi dell’equo processo. La violazione di tali principi e la mancata applicazione delle garanzie procedurali che ne discendono determina, secondo la Corte, anche una violazione dell’art. 10 per il venir meno del requisito di proporzionalità dell’interferenza costituita dalla condanna per diffamazione[76].
Confronto fra la giurisprudenza della Corte e la disciplina interna de iure condito e de iure condendo
Passando all’esame del nostro ordinamento, nella disciplina attualmente vigente, risultante dal combinato disposto del codice penale e della legge sulla stampa (legge 8 febbraio 1948, n. 47), possiamo distinguere quattro forme di diffamazione: la diffamazione comune, cioè non commessa con il mezzo della stampa, che può essere semplice quando consista in un giudizio di valore e aggravata quando risulti dall’attribuzione di un fatto determinato (art. 595 c.p., 1° e 2° comma); la diffamazione speciale, cioè commessa con il mezzo della stampa o con altra forma di pubblicità, che può essere anch’essa semplice (595 3° comma) o aggravata (art. 13 l. stampa)[77].
A confronto con gli obblighi derivanti dalla Convenzione, così come delineati nella giurisprudenza della Corte, la disciplina interna della diffamazione manifesta vistose incongruenze che non vengono superate, se non in minima parte, dall’ultima proposta di riforma attualmente in fase di approvazione.
4.1. Mancanza di proporzionalità delle sanzioni
Cominciando dal problema delle sanzioni applicabili, va ricordato che, attualmente, nei primi due casi di diffamazione comune, per effetto dell’introduzione del D. Lgs. 274/2000 che ha attribuito al giudice di pace la competenza a giudicare, si applicano la multa da 258 a 2.582 euro ovvero la permanenza domiciliare da 6 giorni a 30 giorni o il lavoro di pubblica utilità per un periodo da 10 giorni a 3 mesi. Tale disciplina, avendo ridotto l’entità delle pene restrittive della libertà rispetto a quanto precedentemente previsto, ha realizzato, sotto questo profilo, un maggiore allineamento agli obblighi convenzionali. Essa tuttavia continua a non essere pienamente conforme alla CEDU nella misura in cui lascia alla scelta del giudice la decisione circa l’applicazione della pena detentiva, mentre la Corte ammette quest’ultima solo in casi eccezionalmente gravi e a condizione che, assieme al diritto alla reputazione, vengano violati altri diritti.
Un più significativo progresso è compiuto dal disegno di legge A.S. n. 1119-B che elimina l’alternativa con le misure restrittive della libertà e prevede solo la multa da 3.000 a 10.000 euro per la diffamazione semplice e fino a 15.000 euro per quella aggravata. Questa disciplina è estesa anche alla diffamazione realizzata con forme di pubblicità diverse dalla stampa, inclusi i mezzi telematici (siti web, blog, social network).
Un più radicale contrasto con gli obblighi convenzionali si riscontra con riguardo alla vigente disciplina sanzionatoria della diffamazione a mezzo stampa. Quest’ultima, quando non consista nell’attribuzione di un fatto determinato (diffamazione speciale semplice), è attualmente prevista dal terzo comma dell’art. 595 c.p. e sanzionata con la reclusione da sei mesi a tre anni o la multa non inferiore a 516 euro[78]. La giurisprudenza ha esteso interpretativamente il terzo comma dell’art. 595 c.p. ai casi di diffamazione non consistente nell’attribuzione di un fatto determinato commessa tramite radio, televisione ed ogni altra forma di pubblicità.
La diffamazione a mezzo stampa consistente nell’attribuzione di un fatto determinato è prevista invece dall’art. 13 l. stampa e sanzionata con la reclusione da uno a sei anni e la multa non inferiore a 258 euro. L’articolo 30 della legge 6 agosto 1990, n. 223 (“Disciplina del sistema radiotelevisivo pubblico e privato”) ha esteso l’aggravante medesima anche alla radio ed alla televisione, pubbliche e private.
4.2.Trattamento di sfavore per la stampa
In primo luogo, appare incostituzionale per violazione dell’art. 10 CEDU la differenziazione di trattamento in peius riservata alla stampa, quanto alle sanzioni, rispetto alla diffamazione comune. Come si è visto, nella giurisprudenza della Corte il fatto che l’espressione del pensiero, in particolare quella riguardante questioni di pubblico interesse, avvenga con il mezzo della stampa non solo non rende la diffamazione più grave, ma, al contrario, impone un grado massimo di tutela e richiede che la condanna per diffamazione sia un’extrema ratio. Questo trattamento privilegiato risponde all’importante funzione svolta dalla stampa per l’attuazione della democrazia, funzione che sarebbe inibita dalla possibilità anche solo teorica di gravi pene che eserciterebbero un effetto deterrente sui giornalisti. Nello specifico, poi, le pene detentive previste, che arrivano a contemplare la reclusione fino a sei anni, sono sicuramente e radicalmente in contrasto con la Convenzione.
Tale situazione di contrasto potrebbe essere in buona parte superata dalla riforma; quest’ultima unifica la disciplina sanzionatoria della diffamazione a mezzo stampa nel nuovo art. 13 della legge sulla stampa ed elimina il riferimento attualmente contenuto nell’art. 595 3° comma c.p. Tale disciplina viene estesa alle testate online registrate presso il Tribunale. La modifica rispetto alla disciplina vigente consiste nell’eliminazione della pena della reclusione sostituita con la multa da 5.000 a 10.000 euro; se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato falso, la cui diffusione sia avvenuta con la consapevolezza della falsità, la pena è della multa da 10.000 euro a 50.000 euro. E’ prevista anche la sanzione della pubblicazione della sentenza e, in caso di recidiva, l’interdizione dall’esercizio della professione per un periodo da uno a sei mesi. Inoltre la riforma disciplina più approfonditamente il diritto di rettifica già previsto nella legge sulla stampa prevedendo che la pubblicazione della rettifica sia causa di non punibilità per l’autore della diffamazione e per il direttore responsabile.
E’ da condividere l’eliminazione della pena detentiva, ma la disciplina non fa ancora spazio ad alcuno dei molteplici criteri ai quali la Corte ha subordinato l’ammissibilità della condanna per diffamazione al fine di bilanciare la libertà di espressione con la tutela dell’onore. Estremamente insoddisfacente, infatti, è che non si dedichi, nel progetto di riforma, alcuno spazio al tema della prova della verità e, con riguardo alla stampa, ai criteri della buona fede e dell’etica professionale, prevedendo come unica causa di non punibilità la pubblicazione della rettifica.
4.3. Punibilità delle opinioni
Deve essere evidenziato inoltre il contrasto di fondo tra il nostro sistema e quello della Convenzione derivante dal fatto che in quest’ultima si esclude in linea di principio la punibilità delle opinioni o giudizi di valore salvo il caso estremo della completa mancanza di un fondamento fattuale; invece il nostro ordinamento punisce anche la diffamazione consistente in giudizi di valore e considera come aggravata quella derivante dall’attribuzione di un fatto determinato.
4.4. Inadeguatezza della prova della verità
Con riguardo alla questione della prova della verità, si evidenzia l’illegittimità, alla stregua dell’art. 10 CEDU, della sua esclusione sancita attualmente dall’art. 596 c.p., salvo alcune deroghe di scarso rilievo previste nel secondo e terzo comma dello stesso articolo.
L’esclusione in linea di principio della prova della verità trae la sua origine storica da una concezione dell’onore propria della società cavalleresca, ereditata dal sistema di regime in funzione repressiva del dibattito pubblico laddove quest’ultimo potesse estrinsecarsi in critiche all’autorità costituita. Essa è stata in parte attenuata dalla dottrina che, individuando nel diritto di cronaca costituzionalmente tutelato una scriminante invocabile in base all’art. 51 c.p. rispetto all’accusa di diffamazione, ha ritenuto che tale diritto debba rispettare il requisito della verità, oltre che della pertinenza e continenza, desumendo tali limiti dalla ratio delle eccezioni previste dall’art. 596 c.p.; pertanto si è data alla stampa la possibilità di avvalersi della exceptio veritatis per sottrarsi alla condanna per diffamazione appellandosi al diritto di cronaca[79].
Anche la Corte Costituzionale, con una sentenza interpretativa di rigetto, ha escluso l’eccezione di illegittimità costituzionale dell’art. 596 c.p. sulla base appunto dell’operare della scriminante del diritto di cronaca derivante dal combinato disposto dell’art. 51 c.p. e dell’art. 21 Cost. che sancisce la libertà di manifestazione del pensiero anche con il mezzo della stampa[80]. La differenza di trattamento fra la stampa e il comune cittadino quanto alla exceptio veritatis è stata poi giustificata appellandosi alla peculiare funzione sociale della stampa che la pone in una posizione costituzionalmente privilegiata[81].
Tale collaudata interpretazione dottrinale e giurisprudenziale non è sufficiente però a porre il nostro diritto in conformità agli obblighi derivanti dall’art. 10 della Convenzione in quanto, come si è visto, la Corte ha individuato la prova della verità come elemento indefettibile del giudizio di necessità della condanna penale nel caso della diffamazione consistente in una dichiarazione di fatto, indipendentemente dalla circostanza che venga in considerazione la libertà di stampa o il diritto alla libertà di espressione di un privato cittadino.
Data la contrarietà all’art. 10 CEDU del diritto vigente, stupisce che la riforma abbia lasciato inalterato il testo dell’art. 596 c.p.: in tal modo, infatti, non solo non è recepita la giurisprudenza della Corte sulla generale applicazione della prova della verità, ma non è neppure realizzata una codificazione dei principi fin qui esposti, elaborati dalla dottrina e dalla giurisprudenza con riferimento al diritto di cronaca.
Va ricordata poi la particolare tutela riconosciuta al giornalista il quale, anche se non ha raggiunto la prova della verità, nelle materie di pubblico interesse e se abbia agito in buona fede non risponde per diffamazione[82].
Infine, un ulteriore contrasto tra la Convenzione e l’art. 596 c.p. deriva dalla previsione in quest’ultimo, come causa di esclusione della condanna per diffamazione, della circostanza che la persona cui è stato attribuito il fatto infamante sia stata per esso condannata in un giudizio penale, mentre la giurisprudenza della Corte afferma l’autonomia della prova della verità rispetto al procedimento penale e ammette la prima, nel giudizio di diffamazione, anche quando il secondo si sia concluso con l’assoluzione per non aver commesso il fatto.
Non è in linea con la Convenzione, così come interpretata dalla giurisprudenza della Corte, anche l’ulteriore aggravante di cui all’art. 595 c.p. della diffamazione a danno di rappresentanti del governo. In tali casi infatti, come si è visto, la Corte ha affermato che non solo le espressioni critiche sono consentite, ma esse sono maggiormente tutelate in considerazione della posizione del soggetto pubblico il quale, esponendosi volontariamente e consapevolmente al vaglio della pubblica opinione, deve mostrare un maggior grado di tolleranza. Tale discrepanza avrebbe potuto essere superata se fosse stata approvata la proposta di riforma che, nel testo attualmente pendente dinanzi al Senato, ha eliminato detta disposizione. Pertanto, è auspicabile che, su questo punto, i futuri progetti si orientino allo stesso modo.
Maria Teresa Lattarulo
[1] Sia consentito rinviare, anche per indicazioni bibliografiche, a Lattarulo, La diffamazione nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, Roma, 2016.
[2] Proposta di legge C. 925 abbinata con C. 191, C. 1100, C. 1165, C. 1190, C. 1242.
[3] Disegno di legge A.S. n. 1119-B.
[4] V. ad es., per tutte, Soini e altri c. Finlandia (36404/97), 17 gennaio 2006. Ci limitiamo in questo testo a citare solo le decisioni più significative; per una giurisprudenza completa sui singoli punti, v. Lattarulo, op. cit., p. 117 ss.
[5] Uj c. Ungheria (23954/10), 19 luglio 2011, par. 22.
[6] V. ad es. Chauvy e altri c. Francia (64915/01), 29 giugno 2004, par. 70.
[7] V. ad es. Karakó c. Ungheria ( 39311/05), 28 aprile 2009, parr. 18-25.
[8] V. ad es. Kurłowicz c. Polonia (41029/06), 22 giugno 2010, par. 38 ss.
[9] Cfr. ad es. Giniewski c. Francia (64016/00), 31 gennaio 2006, par. 44.
[10] V. ad es. Kaperzyński c. Polonia (43206/07), 3 aprile 2012, par. 54.
[11] V. ad es. Pedersen e Baadsgaard c. Danimarca [GC] (49017/99), 17 dicembre 2004, par. 76.
[12] V. Długołecki c. Polonia (23806/03), 24 febbraio 2009, par. 37.
[13] Rumyana Ivanova c. Bulgaria (36207/03), 14 febbraio 2008, par. 58 ss.
[14] Ruokanen e altri c. Finlandia (45130/06), 6 aprile 2010, par. 45.
[15] Falter Zeitschriften GmbH c. Austria (26606/04), 22 febbraio 2007, parr. 25-26.
[16] Chalabi c. Francia (35916/04), 18 settembre 2008, par. 44.
[17] Kasabova c. Bulgaria (22385/03), 19 aprile 2011, par. 62.
[18] V. ad es. July e Sarl Libération c. Francia (20893/03), 14 febbraio 2008, par. 70 ss.
[19] V. Selistö c. Finlandia (56767/00), 16 novembre 2004, par. 61 ss.
[20] V. Eon c. Francia (26118/10), 14 marzo 2013, par. 60 ss.
[21] V. Mariapori c. Finlandia (37751/07), 6 luglio 2010, par. 67.
[22] Gavrilovici c. Moldova (25464/05), 15 dicembre 2009, par. 58.
[23] V. Fatullayev c. Azerbaigian (40984/07), 22 aprile 2010, par. 94.
[24] Fatullayev, cit., par. 95.
[25] Nikula c. Finlandia (31611/96), 21 marzo 2002, par. 45 ss.
[26] Morice c. Francia [GC] (29369/10), 23 aprile 2015, par. 132 ss.
[27] V. ad es. Nilsen e Johnsen c. Norvegia (23118/93), 25 novembre 1999, par. 44.
[28] Marchenko c. Ucraina (4063/04), 19 febbraio 2009, parr. 45-46.
[29] V. ad es., fra tutti, Castells c. Spagna (11798/85), 23 aprile 1992, par. 42.
[30] Malisiewicz-Gąsior c. Polonia (43797/98), 6 aprile 2006, par. 67.
[31] V. ad es. Lepojić c. Serbia (13909/05), 6 novembre 2007, par. 74.
[32] Haldimann e altri c. Svizzera (21830/09), 24 febbraio 2015, parr. 48-52.
[33] Lindon, Otchakovsky-Laurens e July c. Francia [GC] (21279/02, 36448/02), 22 ottobre 2007, par. 56.
[34] Lewandowska-Malec c. Polonia (39660/07), 18 settembre 2012, par. 66.
[35] Tammer c. Estonia (41205/98), 6 febbraio 2001, par. 68.
[36] Ristamäki e Korvola c. Finlandia (66456/09), 29 ottobre 2013, par. 45.
[37] V. ad es. Castells, cit., par. 46.
[38] Otegi Mondragon c. Spagna (2034/07), 15 marzo 2011, par. 56.
[39] V. ad es. Šabanović c. Montenegro e Serbia (5995/06), 31 maggio 2011, parr. 37, 41.
[40] V. ad es. Nikula, cit., par. 48.
[41] V. ad es. Perna c. Italia (48898/99), 25 luglio 2001, parr. 38 (v), 41.
[42] July e Sarl Libération c. Francia (20893/03), 14 febbraio 2008, par. 74.
[43] Lešník c. Slovacchia (35640/97), 11 marzo 2003, par. 54.
[44] Nikula c. Finlandia (31611/96), 21 marzo 2002, par. 50 ss.
[45] Erla Hlynsdóttir c. Islanda (n. 1) (43380/10), 10 luglio 2012, par. 69.
[46] Ciesielczyk c. Polonia, (12484/05), 26 giugno 2012, parr. 42-45, 47.
[47] Tešić c. Serbia (4678/07, 50591/12), 11 febbraio 2014, par. 66.
[48] Kurłowicz c. Polonia (41029/06), 22 giugno 2010, par. 50.
[49] Uj, cit., par. 22.
[50] Selistö c. Finlandia (56767/00), 16 novembre 2004, par. 64.
[51] Perna, cit., par. 44.
[52] V. ad es. Kasabova c. Bulgaria (22385/03), 19 aprile 2011, par. 62.
[53] Mamère c. Francia (12697/03), 7 novembre 2006, parr. 22-24.
[54] Marian Maciejewski c. Polonia (34447/05), 13 gennaio 2015, par. 84.
[55] Długołęcki, cit., par. 42.
[56] V. ad es. Selistö c. Finlandia (56767/00), 16 novembre 2004, par. 67; Niskasaari e altri c. Finlandia (37520/07), 6 luglio 2010, par. 75., Łopuch c. Polonia (43587/09), 24 luglio 2012, par. 65.
[57] Rumyana Ivanova c. Bulgaria (36207/03), 14 febbraio 2008, par. 66.
[58] Kaperzyński, cit., par. 66.
[59] V. ad es. Castells, cit., parr. 48-49; Falter Zeitschriften GmbH, cit., par. 27.
[60] Lahtonen c. Finlandia (29576/09), 17 gennaio 2012, parr. 79-80.
[61] V. ad es. Długołęcki, cit., par. 46.
[62] V. ad es. Eon, cit., parr. 61-62.
[63] Nikula, cit., par. 55.
[64] Juppala c. Finlandia (18620/03), 2 dicembre 2008, par. 43.
[65] Cfr. Tešić c. Serbia (4678/07, 50591/12), 11 febbraio 2014, par. 63.
[66] V. ad es. Cojocaru c. Romania (32104/06), 10 febbraio 2015, par. 33.
[67] V. ad es. Długołęcki, cit., par. 45.
[68] Thorgeir Thorgeirson c. Islanda (13778/88), 25 giugno 1992, parr. 25, 68.
[69] Tešić, cit., parr. 63, 65, 67.
[70] Lingens c. Austria (9815/82), 8 luglio 1986, par. 44.
[71] Radio France e altri c. Francia (53984/00), 30 marzo 2004, par. 40.
[72] V. ad es. Cumpǎnǎ e Mazǎre c. Romania [GC] (33348/96), 17 dicembre 2004, par. 115.
[73] Lešník c. Slovacchia (35640/97), 11 marzo 2003, par. 63.
[74] V. ad es. Krasulya c. Russia (12365/03), 22 febbraio 2007, par. 44.
[75] Cumpănă e Mazăre, cit., par. 116.
[76] V. ad es. Kurłowicz c. Polonia (41029/06), 22 giugno 2010, par. 40.
[77] Per indicazioni di dottrina, sia consentito rinviare a Lattarulo, op. cit., p. 375 ss.
[78] La diffamazione a mezzo stampa è rimasta affidata alla competenza del tribunale monocratico.
[79] La teoria del diritto di cronaca e dei suoi limiti (verità, pertinenza e continenza) si fa risalire a Nuvolone, Reati di stampa, Milano, 1951; Id., Il diritto penale della stampa, Padova, 1971, passim. Su tali aspetti vedi Manna, Il diritto di cronaca, di critica, di denuncia e la diffamazione: gli arresti giurisprudenziali, in Cassazione penale, 2003, 3600 ss.
[80] Corte costituzionale 14 luglio 1971 n. 175, in Giurisprudenza italiana, 1972, I, 1 ss.
[81] V. Manna, op. ult. cit., nota 40 e testo corrispondente.
[82] Marian Maciejewski c. Polonia (34447/05), 13 gennaio 2015, par. 84.
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