Premessa
Prendendo le mosse dall’analisi del quadro normativo e dei principali orientamenti dottrinali e giurisprudenziali in materia di diffamazione online, l’Autore si sofferma sulla corretta qualificazione giuridica che deve essere attribuita al web – e ai vari mezzi di comunicazione in esso contenuti, con particolare riferimento al c.d. blog – ai fini della configurabilità dell’aggravante di cui all’art. 595, comma 3 c.p.
Il reato di diffamazione nella sua accezione “classica”
Il delitto di diffamazione è un reato a forma libera previsto dall’art. 595 del codice penale, il quale prevede la reclusione fino a un anno o la multa fino a euro 1.032,00, per chiunque, in assenza della persona lesa[1], offenda l’altrui reputazione. Tale fattispecie risulta aggravata nel caso in cui l’offesa sia recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico; in tale ultimo caso la pena prevista è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a euro 516,00.
Il reato in esame punisce colui che “comunicando con più persone offende l’altrui reputazione”, intesa quest’ultima come il senso della dignità personale nell’opinione degli altri.
Il concetto di “offesa” richiamato dall’art. 595 c.p., in particolare, si estende fino a ricomprendere al suo interno qualsivoglia espressione infamante o volgare, considerata tale non solo in relazione al suo contenuto intrinseco, ma anche in ragione del contesto nel quale essa viene pronunciata, nonché alla coscienza sociale. A tale ultimo riguardo, d’altronde, appare pacifico che “integra la lesione della reputazione altrui non solo l’attribuzione di un fatto illecito, perché posto in essere contro il divieto imposto da norme giuridiche, assistite o meno da sanzione, ma anche la divulgazione di comportamenti che, alla luce dei canoni etici condivisi dalla generalità dei consociati, siano suscettibili di incontrare la riprovazione della communis opinio”[2].
Dal punto di vista oggettivo, pur se generalmente questo delitto viene realizzato attraverso un linguaggio denigratorio e lesivo dell’onore della persona offesa, risulta possibile integrare il fatto tipico anche mediante la semplice divulgazione di una notizia falsa. Secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale, infatti, “l’intento diffamatorio può essere raggiunto anche con mezzi indiretti e mediante subdole allusioni e pure in questa forma deve essere penalmente represso”[3].
La diffamazione commessa mediante strumenti telematici: è reato?
Tanto premesso in via generale, occorre ora soffermarsi sulla configurabilità della fattispecie in esame attraverso i nuovi strumenti messi a disposizione dal progresso tecnologico, quali, a titolo esemplificativo, social network, blog, forum e siti internet.
La risposta a tale quesito giuridico deve senz’altro essere positiva.
Ad oggi, infatti, dottrina e giurisprudenza risultano essere concordi nel ritenere che la diffamazione, considerata la vastissima portata comunicativa dei nuovi mezzi digitali, possa – e anzi debba – configurarsi qualora il delitto sia commesso mediante questi ultimi[4].
A tal proposito, appare opportuna una precisazione: non tutti i format presenti sul web possono essere equiparati e messi sullo stesso piano da un punto di vista comunicativo; la rete funziona, infatti, a volte come mezzo di comunicazione ed altre volte come mezzo di diffusione del pensiero. Si pensi, ad esempio, alle differenze insite in mezzi quali posta elettronica, forum, blog, social network, testate giornalistiche online; alcuni di questi strumenti telematici consentono una comunicazione in certam personam, altri in incertam persona, con notevoli differenze e ripercussioni anche in punto di qualificazione giuridica e di grado di lesione dell’onore della persona offesa.
Con riferimento al bene giuridico tutelato, anche sul web la libera manifestazione del pensiero – costituzionalmente garantita dall’art. 21 Cost. – trova uno dei suoi limiti nel rispetto dell’onore, anche se al netto di un complesso bilanciamento con i diritti di cronaca, critica e satira.
Quanto alla condotta, invece, sussistono alcuni problemi di carattere interpretativo. Ci si riferisce, nello specifico, al requisito dell’assenza della persona offesa ed a come quest’ultimo debba essere inteso nel reato di diffamazione posto in essere online.
Al riguardo, autorevole dottrina ha affermato che esso vada interpretato nel senso di un’assenza di percezione diretta del contenuto offensivo da parte del soggetto passivo[5]. Ma in quali casi si può parlare di percezione diretta?
Se infatti, non molti dubbi sussistono circa la configurabilità del reato in esame nel caso in cui l’autore invii comunicazioni digitali contenenti il medesimo messaggio diffamatorio a diversi destinatari – ad esempio, attraverso l’invio di e-mail o messaggi privati su whatsapp o messenger –, lo stesso non può dirsi nel caso di pubblicazioni su social network o su un website; in tale ultimo caso, non vi sarebbe modo per stabilire con certezza se il soggetto passivo fosse o meno online al momento della commissione del fatto e se abbia quindi avuto o meno percezione diretta del contenuto offensivo.
A soccorrere la dottrina in questo attuale dilemma giuridico è intervenuta la Suprema Corte, la quale bypassando il concetto di percezione diretta, con riferimento a contenuti diffamatori diffusi mediante pubblicazione su siti web, social network o altri spazi aperti al pubblico virtuale, ha affermato che “il mezzo di trasmissione-comunicazione adoperato (appunto internet), certamente consente, in astratto, (anche) al soggetto vilipeso di percepire direttamente l’offesa, ma il messaggio è diretto ad una cerchia talmente vasta di fruitori, che l’addebito lesivo si colloca in una dimensione ben più ampia di quella interpersonale tra offensore e offeso”[6].
In altre parole, quando il reato di diffamazione viene commesso mediante strumenti di comunicazione di massa non ha alcuna rilevanza da un punto di vista giuridico che il soggetto sia o meno online al momento della commissione del fatto e che abbia o meno percezione dello stesso essendo sufficiente la pubblicazione del contenuto lesivo sulla piattaforma digitale ai fini della configurabilità del delitto.
La qualificazione giuridica del web: mezzo di pubblicità o mezzo di stampa?
Come visto sopra, secondo un ormai consolidato indirizzo giurisprudenziale risulta essere addirittura “intuitivo” che il delitto di diffamazione possa esser realizzato mediante internet, posto che è facilmente immaginabile la condotta di chi diffonda via e-mail o inserisca in uno spazio web un contenuto lesivo dell’altrui reputazione[7].
Dal punto di vista della qualificazione giuridica si discute se tali condotte debbano essere ricondotte in ogni caso, e quindi a prescindere dal mezzo di comunicazione utilizzato, alla diffamazione aggravata dall’uso di “qualsiasi altro mezzo di pubblicità”. Tale circostanza – da doversi considerare generale rispetto a quella speciale del “mezzo della stampa” – trova la sua ratio nella maggiore capacità di diffusione insita nei nuovi mezzi di comunicazione digitali, e quindi, nel maggiore pericolo per il bene giuridico tutelato dalla norma[8].
L’orientamento maggioritario in dottrina riconosce in ogni caso, ed a prescindere dal mezzo utilizzato, la ricorrenza dell’aggravante dell’uso di “qualsiasi altro mezzo di pubblicità”, purché chiaramente il reato sia commesso tramite internet.
Tale lettura, in perfetta aderenza al principio che vieta l’analogia in malam partem in materia penale[9], correttamente esclude che la diffamazione commessa sul web possa essere ricondotta all’aggravante del “mezzo stampa”[10], in modo che non va applicato lo statuto penale riservato alla carta stampata, che prevede un aggravamento di pena se le offese consistono nell’attribuzione di un fatto determinato, oltre che l’estensione della responsabilità al direttore del giornale per aver omesso il controllo sulle pubblicazioni dell’autore ex art. 57 c.p.
La giurisprudenza, al riguardo, facendo proprie le conclusioni dottrinali appena esposte, ha escluso in più occasioni espressamente che la c.d. “carta stampata” possa comprendere il web, ritenendo che la stessa si riferisca esclusivamente “a tutte di riproduzioni meccaniche o comunque ottenute con mezzi meccanici o fisico-chimici, in qualsiasi modo destinate alla pubblicazione”[11].
Allo stesso tempo, è stato escluso che possa essere estesa al web la normativa penale prevista per radio e televisione, considerando anche in questo caso la sostanziale diversità dei mezzi di comunicazione presi in considerazione. Al riguardo, basti sottolineare che – considerando gli approdi giurisprudenziali – il legislatore, al fine di estendere alcune norme penali riservate alla carta stampata anche a radio e televisione, è dovuto intervenire con un’apposita modifica legislativa (c.d. legge Mammì)[12].
Esclusa, quindi, ogni assimilazione con i mezzi di comunicazione espressamente disciplinati dal legislatore, la giurisprudenza maggioritaria ha ricondotto – quasi sempre ed a prescindere dal format utilizzato – la diffamazione commessa via internet al delitto di diffamazione aggravata dell’uso di un “qualsiasi altro mezzo di pubblicità”[13]: il web viene considerato come uno strumento formidabile per la propagazione di contenuti offensivi e diffamatori poiché, una volta pubblicati online, essi si diffondono in modo incontrollabile ed, a volte, addirittura irreversibile.
Tuttavia, tale orientamento, seppur ad oggi prevalente, non tiene conto della profonda diversità che i vari mezzi di comunicazione digitali possono avere. Si pensi, ad esempio, ad un post pubblicato su una pagina pubblica facebook, rispetto all’invio del medesimo messaggio diffamatorio mediante e-mail a tre diversi destinatari; nel primo caso il contenuto offensivo raggiungerebbe un numero elevatissimo ed indefinito di persone, nel secondo, invece, solamente tre persone.
Per tali ragioni, si è fatto largo in dottrina e in giurisprudenza un orientamento minoritario che ha espresso riserve in merito ad una presunzione della natura di mezzo di pubblicità, con riferimento a tutti i format comunicativi offerti dalla rete internet[14].
Secondo tale indirizzo ermeneutico, occorre valutare di volta in volta quale mezzo di comunicazione sia stato utilizzato – e con quali modalità – per comprendere se debba o meno ritenersi sussistente l’aggravante in oggetto. In altri termini, non è sufficiente che il mezzo utilizzato consenta in astratto una diffusione del contenuto ad un numero elevatissimo di destinatari ma è necessaria una valutazione concreta del singolo fatto criminoso. Si è assistito, infatti, negli ultimi anni, ad una generalizzazione del web, tecnicamente infondata, che mira erroneamente ad uno astratto appiattimento delle funzioni offerte da internet, che invece si presenta come un vero e proprio mezzo polimorfo e assai duttile[15].
Ancor più persuasiva, appare la tesi prospettata recentemente dal Tribunale di Milano, il quale ha affermato che i mezzi di pubblicità sono esclusivamente quelli che consentono comunicazioni in incertam personam, cioè ad una massa indeterminata e non previamente quantificabile di destinatari; ipotesi paradigmatiche sono le pubblicazioni sui social network oppure su siti web, ma solo se aperti a tutti senza limiti, filtri e barriere di vario tipo all’ingresso[16]. In aderenza a tale orientamento, non devono essere considerati mezzi di diffusione al pubblico tutte quelle ipotesi di comunicazione digitale ad certas personas, quali, ad esempio, le comunicazioni via e-mail o i contenuti caricati su piattaforme digitali dove possono accedere solo determinati utenti.
In tali ultime ipotesi, appare corretto ritenere che, essendo il contenuto offensivo percepito da un numerus clausus di destinatari, venga meno la ratio che giustifica l’aggravante prevista dall’art. 595, comma 3 c.p.
Sullo stesso tenore, parte della dottrina ha affermato che l’apertura al pubblico risulta essere il discrimen circa l’applicabilità dell’aggravante in oggetto; in altre parole, ciò che il giudice deve valutare è l’idoneità del mezzo di comunicazione ex ante e non il risultato ex post a cui si perviene tramite esso[17].
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Messaggi diffamatori in un blog e responsabilità del gestore
Sulla scorta di quanto sopra detto, appare opportuno adesso approfondire i seguenti quesiti di carattere giuridico sul quale è recentissimamente intervenuta la Suprema Corte: la diffamazione su un blog può essere ricondotta all’aggravante del mezzo stampa? E, soprattutto, il gestore del blog incorre in una responsabilità penale per omesso controllo assimilabile a quella prevista per il direttore di giornale ex art. 57 c.p.?
Le questioni sono in realtà più complesse di ciò che possono sembrare prima facie. Come sopra esposto, infatti, la giurisprudenza maggioritaria tende a ricollegare in modo quasi automatico la sussistenza dell’aggravante di “qualsiasi altro mezzo di pubblicità” all’utilizzo di ogni format digitale, nonostante le specifiche peculiarità del c.d. blog.
Preliminarmente appare opportuno definire cos’è un blog e spiegarne in linea di massima il funzionamento. Il termine blog è la contrazione di web-log, ovvero “diario in rete” o “diario elettronico”[18]. Si tratta di un particolare tipo di sito web in cui i contenuti vengono visualizzati in forma anti-cronologica (dal più recente al più lontano nel tempo), in genere gestito da uno o più blogger, che pubblicano periodicamente, contenuti multimediali, in forma testuale o in forma di post, concetto assimilabile o avvicinabile a un articolo di giornale. I tratti strutturali comuni ai blog riguardano principalmente il fatto che si tratta di “diari in rete”: i testi sono forniti di data e sono presenti sulla pagina web in ordine anticronologico (prima i messaggi più recenti). Il singolo intervento (articolo, pensiero, contenuto multimediale, ecc.), inserito dal blogger, viene definito post e l’applicazione utilizzata permette di creare i nuovi post identificandoli con un titolo, la data di pubblicazione e alcune parole chiave (tag).
Inoltre, qualora l’autore del blog lo permetta, ovvero abbia configurato in questa maniera la piattaforma, al post possono seguire i commenti dei lettori, che possono in astratto in taluni casi offendere l’altrui reputazione.
Tanto premesso in via generale sul funzionamento dello strumento di comunicazione in esame, occorre ora affrontare i quesiti sopra esposti.
In particolare, con riferimento alla prima problematica – anche alla luce di quanto esposto nei precedenti paragrafi – si deve ritenere inapplicabile l’aggravante del mezzo stampa al blog. Più nel dettaglio, non essendo il blog destinato ad un’attività di informazione professionale diretta al pubblico, la diffusione di messaggi offensivi attraverso di esso deve ritenersi riconducibile all’ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell’art. 595, comma terzo, c.p., sotto il profilo dell’offesa arrecata “con qualsiasi altro mezzo di pubblicità” diverso dalla stampa, poiché la condotta posta in essere è potenzialmente capace di raggiungere un numero indefinito di utenti. Ed infatti, la giurisprudenza di legittimità, considerato il divieto di analogia in malam partem nella materia penalistica, ha espressamente affermato che la c.d. “carta stampata” si riferisca esclusivamente “a tutte di riproduzioni meccaniche o comunque ottenute con mezzi meccanici o fisico-chimici, in qualsiasi modo destinate alla pubblicazione”[19].
Tale conclusione, risulta essere avallata dalla Suprema Corte, la quale con riferimento al social network facebook, il cui funzionamento è per certi versi assimilabile al blog, ha affermato che “la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca facebook integra un’ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell’art. 595 c.p., comma 3, sotto il profilo dell’offesa arrecata “con qualsiasi altro mezzo di pubblicità” diverso dalla stampa, poiché la condotta in tal modo realizzata è potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato, o comunque quantitativamente apprezzabile, di persone e tuttavia non può dirsi posta in essere “col mezzo della stampa”, non essendo i social network destinati ad un’attività di informazione professionale diretta al pubblico”[20].
Alla luce di quanto sin qui detto, è possibile passare ora all’analisi della questione giuridica relativa alla potenziale responsabilità penale del gestore del blog in caso di post non correttamente filtrati o controllati da quest’ultimo.
Al riguardo, è bene preliminarmente sottolineare che per natura non tutti i blog hanno le stesse dimensioni ed i medesimi flussi di dati, con l’ovvia conseguenza che per il proprietario/gestore di un piccolo blog sarà molto semplice verificare i contenuti dei post degli iscritti, mentre molto più complesso sarà per il proprietario/gestore di un grande blog esercitare una qualsivoglia forma di controllo.
Riconoscere una responsabilità penale per omesso controllo dei post in molti casi equivarrebbe ad affermare una responsabilità oggettiva per molti versi simile alla previsione di cui all’art. 57 c.p. per i direttori di giornale.
Per tali ragioni, dovendosi ritenere inapplicabile l’art. 57 c.p. al caso in esame a causa del divieto di analogia in malam partem, si deve ritenere non responsabile per reato omissivo il gestore del blog che ometta di controllare i post degli iscritti nel caso in cui questi abbiano contenuti diffamatori.
Tale tesi, è stata confermata dalla Suprema Corte, la quale ha dovuto affrontare un caso relativo a un blogger ritenuto responsabile del reato di diffamazione aggravata ex art. 595, comma 3, c.p. dalla Corte di Appello di Milano in relazione alla pubblicazione di contenuti offensivi e diffamatori sul suo blog postate direttamente dall’imputato o da terzi e, da lui, non opportunamente filtrate.
Nella parte motiva della sentenza della Corte di Cassazione, si legge che “Il Giudice di primo grado, […], ha diffusamente argomentato, fra l’altro in modo ineccepibile e alla luce della giurisprudenza di questa Corte, per escludere l’equiparazione del blog all’attività di stampa e ha fatto leva su tali principi per negare una responsabilità del gestore di blog equiparabile a quella propria del direttore responsabile ex art. 57 cod. pen. […]. Tale valutazione era del tutto corretta”[21].
Se tale orientamento sembrava aver messo un punto sulla questione, un altro, ancor più recente ha riaperto il dibattito. La Suprema Corte, infatti, ha affermato che “Il blogger risponde dei contenuti denigratori pubblicati sul suo diario da terzi quando, presa cognizione della lesività di tali contenuti, li mantiene consapevolmente. In particolare la non tempestiva attivazione da parte del blogger al fine di rimuovere i commenti offensivi pubblicati da soggetti terzi sul suo blog equivale non al mancato impedimento dell’evento diffamatorio – rilevante ex art. 40, secondo comma, cod. pen., ma alla consapevole condivisione del contenuto lesivo dell’altrui reputazione, con ulteriore replica della offensività dei contenuti pubblicati su un diario che è gestito dal blogger stesso”[22].
In altri termini, prescindendo completamente dalla responsabilità sopra analizzata ex art. 57 c.p. e da quella per omissione ex art. 40, comma 2 c.p , la Corte attribuisce una responsabilità di tipo penale al blogger sostenendo che questi abbia una sorta di obbligo di rimozione tempestiva nel caso in cui venga a conoscenza di contenuti diffamatori sul suo blog; ciò poiché agendo diversamente, e non rimuovendo quindi il contenuto lesivo, altro non fa che ledere ancor di più l’altrui reputazione replicando l’offensività dei contenuti diffamatori.
Il riverbero civilistico: il risarcimento del danno e la sua prova
Per concludere l’argomento della diffamazione esaminiamo l’elemento civilistico che riguarda il risarcimento del danno, sempre difficile da qualificare e quantificare (soprattutto).
Partendo dalla recentissima pronuncia della Consulta, l’elemento cardine del processo di risarcimento vede elementi che normativamente non risultano così specifici ed oggettivi ma rimessi alla libera valutazione del giudice di merito il quale, secondo il proprio convincimento (insindacabile), è tenuto ad “apprezzare”, in concreto, le espressioni usate come lesive dell’altrui reputazione, e a motivarlo.[23] In questo caso non vi è nulla di prescrittivo, essendo la qualificazione insindacabile (alla stregua delle valutazioni di merito). Quindi, se gli elementi per la qualifica della espressioni lesive sono insindacabili, meno insindacabili sono gli elementi che quantificano la misura della lesione, fino ad arrivare all’apprezzabile sforzo dell’Osservatorio sulla Giustizia civile di Milano[24] che oltre alle note Tabelle, ha pubblicato nuovi parametri riguardanti la quantificazione di voci di danno non patrimoniale come: 1. Da premorienza prima che un danno venga risarcito e senza nesso causale con la ragione della morte; 2. Terminale per lesioni mortale; 3. Da diffamazione a mezzo stampa e con altri mezzi di comunicazione di massa; 4. Ex art. 96 c.p.c. per responsabilità aggravata della parte in un giudizio.
L’Osservatorio, sempre all’avanguardia anche su queste tematiche, ha ripartito in cinque categorie (tipologie) proporzionate su una scala (tenue, modesta, media, elevata, eccezionale) da modularsi sui già noti criteri della notorietà (già ampiamente trattata dalla Giurisprudenza). Così, ad esempio, per un soggetto non noto la quantificazione minima per la lesione di questo tipo potrà oscillare da € 1.000,00 a € 10.000,00).[25]
Le tabelle, così come concepite, sono il frutto del fine lavoro fatto sulla base della diffamazione a mezzo stampa che ottimamente si sposa con quella più estesa e moderna del mezzo telematico (INTERNET).
Recentemente un’altra ordinanza della Cassazione[26] ha contribuito nella definizione della quantificazione della lesione de qua. Nella stessa si può carpire l’elemento della sofferenza morale e dinamico relazionale, aspetti soggettivi di disagio personale che dovranno essere valutati distintamente. Palese il richiamo, da un lato, della nota pronuncia della Corte Costituzionale [27] abbinato alla recente modifica degli artt. 138 e 139 del codice delle assicurazioni[28]. Quindi i primi due aspetti per la quantificazione sono legati da un lato all’aspetto interiore del danno patito (danno morale – dolore, vergogna, carenza di stima, depressione e disperazione) relazionato a quello stesso aspetto, ma destinato ad incidere sul dinamismo relazionale peggiorativo, e dall’altro su tutte le relazioni di vita esterne alla sfera intima e soggettiva (disagio, imbarazzo, goffaggine).
L’innovazione della esaminata ordinanza sta nel fatto che oltre alla misurazione standard prevista dalla legge o dal criterio equitativo tabellare sopra detto, la quantificazione può essere incrementata (c.d. personalizzazione) in presenza di condizioni anomale ed eccezionali (innovazione relativa poiché anche nelle Tabelle, peraltro, si concepisce).
Il danno da diffamazione è certamente un danno ingiusto ex art. 2043 c.c., un danno non iure (non giustificato e non previsto dall’ordinamento) e contra ius (lesivo di un interesse riconosciuto e tutelato), questo, come per gli altri, deve essere provato dall’interessato che sostiene la lesione.
Nelle fattispecie diffamatorie le due categorie di danno possono così essere esaminate, anche alla luce della sentenza a sezioni unite della Corte di Cassazione [29] :
- il danno patrimoniale: esistente in concreto ma di difficile dimostrazione. Infatti, il danno emergente o il lucro cessante collegato alla diffusione della notizia diffamatoria, sfuggono alla semplice verifica. Questo si spiega perché la diffamazione, tranne per esplicite ammissioni, non può essere certamente collegata alla perdita di una chance o alla vanificazione di una possibilità che si sarebbe avverata. Sicuramente è possibile, ma la casistica ci fa sostenere che ne è difficile la relativa prova.
- Il danno non patrimoniale: questo riguarda il danno alla persona ed il più riconosciuto è quello legato al turbamento, al disagio intesi, genericamente, come quelli legati alla sofferenza interiore patita ed eziologicamente legato alla notizia. La relativa prova si raggiunge con la dimostrazione dell’esistenza di un fatto potenzialmente lesivo e della sua effettiva ripercussione nociva nella vita del soggetto. La prima è legata al fatto e la seconda al suo risultato. Nella prima ci sarà la dimostrazione dell’avvenimento e nella seconda i suoi collegati effetti (nella forma di certificati medici legali per le relative lesioni avvenute).
Certamente i progressi nel campo sono tangibili e l’evoluzione probatoria digitale sarà sempre più d’aiuto per la dimostrazione di ogni elemento legato alla diffamazione.
In questa sede dobbiamo costatare come la via telematica ha ampliato enormemente i casi di diffamazione, fino a poco tempo fa appannaggio, quasi esclusivo, del mondo dell’informazione.
Anche le cattive abitudini, unitamente allo scorretto utilizzo dei device (sempre più prestanti e pratici), hanno fatto si che una carente cultura del rispetto generasse sempre più casi di questo tipo. La sottovalutazione del rischio digitale unitamente al ritardo di provvedimenti normativi hanno certamente fatto incrementare il fenomeno ma la trattazione del rischio e la conoscenza del fenomeno stanno portando ad una corretta trattazione a cui ci auspichiamo segua una normativa unitaria e dedicata.
Note
[1] Testualmente nell’art. 595 c.p. si legge “Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente…”; il riferimento è al reato di ingiuria disciplinato dall’art. 594 c.p. – oggi depenalizzato – che si configura qualora venga offeso l’onore di una persona presente. In altri termini, la presenza o meno della persona offesa al momento della lesione del bene giuridico e la comunicazione dell’offesa a più persone costituiscono il discrimen tra il reato di ingiuria ed il delitto di diffamazione.
[2] Cfr. ex multis, Cass. Pen., Sez. V, 23 settembre 2008, n. 40359.
[3] V. in proposito Cass. Pen., Sez. V, 17 aprile 1991, n. 4384; Cass. Civ., Sez. III, 13 gennaio 2009, n. 482; Cass. Pen., Sez. V, 16 giugno 2011, n. 37383; Cass. Pen., Sez. V, 12 dicembre 2013, n. 13350.
[4] Al riguardo si veda PIO LASALVIA, La diffamazione via web nell’epoca dei social network in CADOPPI, CANESTRARI, MANNA, PAPA (diretto da), Cybercrime, Utet Giuridica, 2019, p. 332-333; cfr. Cass., sez. V, 6 settembre 2018, n. 40083.
[5] Cfr. PIO LASALVIA, La diffamazione via web nell’epoca dei social network, op. cit., p. 337.
[6] Ex multis Cass. pen., sez. V, 16 ottobre 2012, n. 44980; nonché Cass. pen., sez. V, 17 novembre 2000, n. 4741.
[7] Ex multis Cass. pen., sez. V, 17 novembre 2000, 4741, cit.
[8] Su tutti, Manzini, Trattato di diritto penale italiano, Vol. VIII, UTET, p. 340.
[9] Seminara, La responsabilità penale degli operatori su internet, in Dir. informaz. e informatica, 1998, p. 750.
[10] Si veda Zeno Zencovich, La pretesa estensione alla telematica del regime della stampa. Note critiche, in Dir. informaz. e informatica, 1998, p. 15 ss., nel quale l’Autore propone vari argomenti contro l’equiparazione del web alla stampa affermando provocatoriamente che “Internet non è stampa”.
[11] Ex multis, recentemente, Cass.,sez. V, 14 novembre 2016, n. 4873; cfr. l’art. 1 della L. 47/1948.
[12] Cfr. art. 30, comma 4. L. 6.8.1990 (c.d. legge Mammì).
[13] Cfr., PIO LASALVIA, La diffamazione via web nell’epoca dei social network, op. cit., p. 344.
[14] BISORI, I delitti contro l’onore, in Trattato di diritto penale. Parte Speciale, a cura di Cadoppi, Canestrari, Manna, Papa, vol. VIII, Milanfiori Assago, 2010, p. 3; Minasola, Blogging e diffamazione: responsabilità dell’amministratore del sito per i commenti dei lettori, in Arch. Pen. (web), 2013, fasc. 3.
[15] Cfr. Stea, La diffamazione a mezzo internet, in Riv. Pen., 2008, p. 1247.
[16] Trib. Milano, 11 febbraio 2016, n. 1624.
[17] BISORI, op. cit., p. 85.
[18] Sulla definizione di blog v. https://sos-wp.it/blog-definizione/.
[19] Ex multis, recentemente, Cass.,sez. V, 14 novembre 2016, n. 4873; cfr. l’art. 1 della L. 47/1948.
[20] Così Cass., sez. V, 14 novembre 2016, n. 4873. Dello stesso tenore la successiva pronuncia della Suprema Corte secondo cui “La diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca facebook integra un’ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell’art. 595, comma 3, c.p., poiché questa modalità di comunicazione di un contenuto informativo suscettibile di arrecare discredito alla reputazione altrui, ha potenzialmente la capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone; attraverso tale piattaforma virtuale, invero, gruppi di soggetti valorizzano il profilo del rapporto interpersonale allargato ad un numero indeterminato di aderenti al fine di una costante socializzazione. Tali peculiari dinamiche di diffusione del messaggio screditante, in uno con la loro finalizzazione alla socializzazione, tuttavia, sono tali da suggerire la inclusione della pubblicazione del messaggio diffamatorio sulla bacheca facebook nella tipologia di “qualsiasi altro mezzo di pubblicità”, che, ai fini della tipizzazione della circostanza aggravante di cui all’art. 595, comma 3, c.p., è stato giustapposto a quella del “mezzo della stampa”. Di talché anche il social-network più diffuso, denominato facebook, non è inquadrabile nel concetto di “stampa”, essendo un servizio di rete sociale, basato su una piattaforma software scritta in vari linguaggi di programmazione, che offre servizi di messaggistica privata ed instaura una trama di relazioni tra più persone all’interno dello stesso sistema.” Cass., sez. V, 1 febbraio 2017, n. 4873.
[21] Cass., sez. V, 22 gennaio 2019, n. 2929.
[22] Cass., sez. V, 20 marzo 2019, n. 12546.
[23] Cass., sez. III, 15 febbraio 2019, ordinanza n. 4543: “In tema di risarcimento del danno a causa di diffamazione a mezzo stampa, la ricostruzione storica dei fatti, la valutazione del contenuto degli scritti, la considerazione di circostanze oggetto di altri provvedimenti giudiziali (anche non costituenti cosa giudicata), l’apprezzamento, in concreto, delle espressioni usate come lesive dell’altrui reputazione, l’esclusione dell’esimente dell’esercizio del diritto di cronaca e di critica costituiscono accertamenti di fatto, riservati al giudice di merito ed insindacabili in sede di legittimità, se sorretti da adeguata motivazione, esente da vizi logici e da errori di diritto.”
[24] L’Osservatorio nel 2018 ha aggiornato le Tabelle per la liquidazione del danno non patrimoniale derivante da lesione all’integrità psicofisica e dalla perdita o grave lesione del rapporto parentale.
[25] Per la visione dell’intero documento vedi https://www.tribunale.milano.it/files/Tribunale%20Milano%20tabelle%20danno%20non%20patrimoniale%202018.pdf
[26] V. Cass., sez. III civ.,20 agosto 2018, ordinanza n. 20795.
[27] V. Corte Costituzionale, sentenza n. 235/2014.
[28] V. Legge 124/2017, art. 1, comma 17.
[29] V. Cass., Sezioni Unite, 11 novembre 2208, n. 26972.
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