La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 4873/2017, ha sancito che la diffamazione commessa tramite il social – network “Facebook” risulta aggravata dalla sola circostanza dell’offesa arrecata mediante qualunque mezzo di pubblicità, di cui all’art. 595, comma 3, c.p., e non, invece, da quella dell’offesa arrecata dal mezzo della stampa.
Orbene, l’art. 595, comma 1, c.p., nel prevedere il reato di “diffamazione”, punisce chiunque, comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione.
Infatti, il bene giuridico tutelato dalla suddetta disposizione è proprio la reputazione del soggetto passivo, ovvero la stima e l’opinione che gli altri hanno dell’onore e del decoro del soggetto stesso.
Detto ciò, i successivi commi prevedono delle circostanze aggravanti del reato de quo; in particolare, il secondo comma prevede l’aggravante della “attribuzione di un fatto determinato”; mentre, il terzo comma prevede un aumento di pena nel caso in cui l’offesa venga arrecata, da un lato, “col mezzo della stampa” e, dall’altro lato ed in contrapposizione con quest’ultima ipotesi, “con qualsiasi altro mezzo di pubblicità”.
Detto ciò, nel caso oggetto di esame da parte della Suprema Corte, l’imputato pubblica, sul proprio profilo Facebook, un testo con il quale offende la reputazione di un altro soggetto, attribuendo a quest’ultimo un fatto determinato tramite internet; quindi, per tale motivo, viene contestato al suddetto imputato il delitto di diffamazione aggravata, ex art. 595, commi 1, 2 e 3, c.p.
Dunque, il Procuratore della Repubblica propone ricorso per Cassazione, per abnormità, avverso l’ordinanza del Giudice per l’Udienza Preliminare, ritenendo che quest’ultimo abbia qualificato erroneamente il fatto contestato all’imputato, in quanto, nel caso in esame, troverebbe applicazione la circostanza aggravante di cui all’art. 13 della Legge 08/02/1948 n. 47 (Legge sulla Stampa).
Orbene, la Corte di Cassazione rigetta il ricorso proposto dal Pubblico Ministero per le seguenti motivazioni.
In primo luogo, procedendo ad un’interpretazione teleologica dell’art. 595, comma 3, c.p., si può affermare che anche l’immissione di un messaggio diffamatorio su Internet è idonea a ledere il bene giuridico della reputazione, tutelato dalla disposizione de qua.
Infatti, la Corte, confermando un orientamento ormai consolidato nella Giurisprudenza, ribadisce che la diffusione di un messaggio denigratorio, attraverso l’uso di una bacheca “Facebook”, risulta aggravata ai sensi dell’art. 595, comma 3, c.p., in quanto commessa con l’uso di “qualsiasi altro mezzo di pubblicità” (rispetto alla stampa).
D’altronde, la stessa Corte, in una precedente sentenza ha precisato che la diffusione di un messaggio screditante sul social – network “Facebook” ha potenzialmente la capacità di raggiungere un numero indeterminato, o comunque quantitativamente apprezzabile, di persone, unite dal fine di una costante socializzazione, (Cass. n. 24431/2015).
In secondo luogo, la Suprema Corte, procedendo ad un’interpretazione restrittiva dell’aggravante de qua, afferma che all’interno del termine “stampa” non possono essere ricompresi i nuovi mezzi, informatici e telematici, di manifestazione del pensiero (tra i quali vi rientrano, appunto, anche le pagine Facebook).
In particolare, la stessa Corte richiama la recente sentenza delle Sezioni Unite n. 31022 del 29/01/2015, precisando che bisogna distinguere l’informazione di tipo professionale dalla diffusione di notizie da parte di singoli soggetti in modo spontaneo.
Per tale motivo, secondo la Cassazione, il social – network Facebook, nonostante la sua ampia diffusione, non è inquadrabile nel concetto di “stampa”.
Detto ciò, le suddette argomentazioni inducono ad escludere, nel caso de quo, anche l’applicazione della circostanza aggravante di cui all’art. 13, L. n. 47/1948.
Infatti, la suddetta disposizione prevede l’ipotesi della diffamazione, consistente nell’attribuzione di un fatto determinato, commessa col mezzo della stampa.
Si tratta, in particolare, di una circostanza aggravante ad effetto speciale e complessa del reato di cui all’art. 595 c.p., e non un’ipotesi autonoma di reato.
Pertanto, l’applicazione al caso in esame delle suddette aggravanti, relative alla diffamazione arrecata col mezzo della stampa, costituirebbe una violazione del divieto di analogia in materia penale.
Conseguentemente, alla luce delle argomentazioni espresse dalla Cassazione, si può dedurre che la diffusione di un messaggio diffamatorio su Facebook integra la circostanza aggravante dell’offesa arrecata con qualunque mezzo di pubblicità, ex art. 595, comma 3, c.p., e non, invece, quella della commissione del fatto con il mezzo della stampa, ex art. 13 della Legge n. 47/1948 (Legge sulla stampa).
Ebbene, la conclusione alla quale perviene la Suprema Corte, con la sentenza in esame, comporta delle conseguenze favorevoli dal punto di vista sanzionatorio.
Infatti, l’art. 595, comma 3, c.p. prevede la pena della reclusione da sei mesi a tre anni; mentre, l’art. 13 della Legge n. 47/1948 prevede, addirittura, il doppio della pena, ovvero la reclusione da uno a sei anni.
Quindi, risulta evidente che diffamare un persona su Facebook, nonostante l’applicazione dell’aggravante relativa alla commissione del fatto con qualunque mezzo di pubblicità, è meno grave rispetto alla diffamazione commessa attraverso la stampa.
Infine, dal punto di vista processuale, è opportuno precisare che l’applicazione della circostanza aggravante ex art. 595, comma 3, c.p. comporta la competenza del Tribunale Monocratico e determina la citazione diretta a giudizio, ai sensi dell’art. 550 c.p.p.
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