La diffida nel contratto preliminare: “ratio”, caratteri strutturali dell’istituto ed indagine circa ammissibilità dell’azione ex art. 2932 c.c. dopo la scadenza del termine fissato nella precedente diffida ad adempiere

Geraci Rosa 23/10/08
Con il presente studio si cercherà di analizzare l’istituto della diffida ad adempiere nonché di interrogarsi sull’ammissibilità o meno nella diffida medesima di una disponibilità da parte dell’intimante circa l’effetto risolutorio conseguente all’inutile decorso del termine ivi fissato.
La diffida ad adempiere, osserva la giurisprudenza dominante, risponde allo scopo di delineare in modo chiaro la posizione delle parti nell’esecuzione del contratto, rendendo noto all’inadempiente che la controparte non è disposta a tollerare un ulteriore ritardo e che ha già scelto la strada della risoluzione per l’ipotesi di inutile decorso del termine fissato. Corollario di ciò è che il termine contenuto nella diffida si connota per la sua essenzialità in rapporto agli effetti che il legislatore riconnette alla sua inosservanza, e che solamente al creditore, nel cui esclusivo interesse l’indefettibilità è posta, è rimessa la valutazione circa la convenienza di far valere l’inutile decorso di quel termine.
La diffida di cui all’art. 1454 c.c., nonostante non richieda formule sacramentali, esige, in ogni caso, la manifestazione in modo inequivocabile della volontà intimante volta, per un verso, all’ottenimento dell’adempimento del contratto entro un certo termine e, per altro verso, a considerare risolto il contratto stesso come effetto dell’inutile decorso del termine (Cass., n. 8844/’01; Cass., n. 2089/’82; Cass., n. 276/’81; Cass., n. 5919/’79; Cass., n. 2878/’69; Cass., n. 3276/’52). Trattasi di un atto unilaterale recettizio, i cui effetti prescindono dalla volontà di accettarla o meno; per la sua operatività è sufficiente che (la diffida) pervenga nella sfera di conoscibilità del destinatario.
La diffida ad adempiere, osserva la Suprema Corte, rimette in termini il debitore fino alla data assegnata con la medesima, ne discende che il suo inadempimento può essere dedotto a sostegno di una successiva domanda di risoluzione solo ove si sia protratto oltre quella data (Cass., n. 3867/’85).
In particolare, l’istituto in esame costituisce per la parte adempiente una semplice facoltà, ed è lungi dall’identificarsi in un onere, dal momento che la sua funzione è quella di determinare lo scioglimento di diritto del rapporto contrattuale, è non quello di condizionare la risoluzione giudiziaria, il cui presupposto è rappresentato dall’inadempimento di non scarsa importanza, né può ritenersi diretta a condizionare, in alcun modo, l’esercizio dell’azione prevista dall’art. 2932 c.c., la quale mira ad ottenere l’esecuzione specifica dell’obbligo di concludere il contratto promesso (e non stipulato) (Cass., n. 3854/’83).
Al fine di accertare la risoluzione di diritto, conseguente a diffida intimata senza alcun esito alla parte inadempiente, il giudice è tenuto a valutare che sussistano gli estremi, soggettivi e oggettivi, dell’inadempimento. Infatti, l’art. 1454 c.c. nel far riferimento alla parte inadempiente presuppone che l’inadempimento si sia già manifestato, con tutti i suoi connotati (Cass., n. 5407/’06).
Una notevole importanza sul tema del quale ci stiamo occupando riveste la sentenza n, 23315/’07 della Corte di Cassazione.
Nello specifico, la questione – che è stata affrontata dai giudici di legittimità – attiene alle conseguenze dell’inutile decorso del termine per l’adempimento fissato nella diffida ad adempiere ai sensi dell’art. 1454 c.c.; con particolare riferimento alla situazione della parte intimante. Infatti, ci si chiede se questa possa ancora domandare l’adempimento ovvero se, viceversa, a seguito dell’avvenuta risoluzione di diritto del contratto, perda tale potere.
Si badi, la sentenza de qua non rappresenta un assoluta novità in tal senso; invero, il Supremo Collegio si era, per la prima volta, già pronunciato in questi stessi termini nel 1977, allorquando, partendo dalla considerazione per cui “la diffida costituisce, per il creditore in bonis, una facoltà e non un obbligo”, aveva stabilito espressamente che trascorso inutilmente il termine in essa fissato sarebbe spettato all’intimante scegliere se avvalersi o meno della risoluzione di diritto prevista dall’art. 1454, 3° comma, c.c. (Cass. 23 aprile 1977, n. 1530. Negli stessi termini, vedi anche: Cass. 8 luglio 1978, n. 3498; Cass. 12 gennaio 1982, n. 132; Cass. 6 aprile 1983, n. 953; Cass. 29 maggio 1990, n. 5017, in cui la Suprema Corte ha affermato che la semplice diffida ad adempiere deve considerarsi non preclusiva della successiva domanda di adempimento, alla quale è ostativa – a norma dell’art. 1453, 2° comma, c.c. – solo la domanda giudiziale di risoluzione; Cass. 4 agosto 1997, n. 7182).
Va poi ricordata la sentenza n. 7079 del 1983, in cui i giudici di legittimità, attribuendo al termine contenuto nella diffida carattere di essenzialità e riconoscendo quest’ultima come posta nell’interesse esclusivo del creditore, hanno ritenuto a lui rimessa la valutazione circa la convenienza di far valere l’inutile decorso del termine, per cui l’espressione “risoluto di diritto” dell’art. 1454 c.c. starebbe a significare soltanto che la pronuncia giudiziale relativa ha carattere meramente dichiarativo, non già che ad essa il giudice possa provvedere d’ufficio. Con la conseguenza che solo la necessaria domanda di parte valorizza la sopravvenuta scadenza del termine; da ciò si è ricavato correlativamente che nei contratti a prestazioni corrispettive, qualora la parte adempiente, dopo aver ritualmente intimato alla controparte diffida ad adempiere, non domandi la risoluzione di diritto ma intimi nuova diffida assegnando nuovo termine, la risoluzione di diritto consegua solo quale effetto della seconda diffida e quindi a condizione che la stessa sia valida (Cass. 25 novembre 1983, n. 7079).
Lungo la stessa linea direttrice si colloca la sentenza n. 4535 del 1987 nella quale il Supremo Collegio in maniera ancora più esplicita ed incisiva ha affermato che la diffida costituirebbe una facoltà e non un obbligo per il creditore, nel senso che rimarrebbe nella facoltà di chi l’ha intimata proporre, dopo l’inutile decorso del termine fissato, apposita domanda per far accertare dal giudice la risoluzione del contratto, per cui l’intimante potrebbe non solo scegliere a priori se effettuare o meno la diffida, ma anche rinunciare a posteriori al relativo effetto; e ancora nella stessa pronuncia si è evidenziato come, pur producendo la risoluzione di diritto ex art. 1454 c.c. i suoi effetti indipendentemente dalla volontà dell’intimato, essa (la diffida) rimanga nella piena disponibilità dell’intimante il quale potrebbe – anche successivamente – rinunciare ad avvalersene; starebbe in ciò la ragione della necessità di una nuova domanda di parte successiva alla scadenza del termine, in grado di valorizzare in maniera esplicita e non equivoca l’inutile suo decorso, limitatamente al quale verrebbe riconnesso l’effetto risolutorio, che, quindi, non scaturirebbe in modo immediato dal mancato adempimento entro il termine indicato (Cass. 18 maggio 1987, n. 4535).
Anche se non sono negli anni mancate pronunce, pur sempre sporadiche, di segno contrario (ad es.: Cass. 12 giugno 1952, n. 1681, configurante la diffida ad adempiere come atto impegnativo anche per il creditore, seppure limitatamente alla fase precedente alla scadenza del termine fissato, nel senso della non revocabilità o modificabilità unilaterale dello stesso da parte dell’intimante e dell’impossibilità, durante la sua pendenza, di agire per l’adempimento o per la risoluzione ex art. 1453 c.c. o di procedere all’esecuzione coattiva di cui agli artt. 1515 e 1516 c.c. Cfr. ex multis anche: Cass. 30 gennaio 1985, n. 542; Cass. 26 maggio 1989, n. 2557), si può senza alcun dubbio affermare come sia stato questo l’orientamento giurisprudenziale preponderante a costituire ilsostrato concettuale della citata sentenza n. 23315 del 2007.
Su posizioni del tutto contrapposte si schiera la dottrina prevalente.
Essa, difatti, è concorde nel sostenere che, una volta intimata la diffida, dopo la scadenza del termine fissato, l’intimante non possa, essendosi la risoluzione verificatasi automaticamente ossia “di diritto”, rinunciare ad essa, cancellandone così gli effetti, né mediante revoca della stessa, né mediante intimazione di nuova diffida (e quindi concessione di altro termine per l’adempimento), né, infine, tramite il ricorso ad altri mezzi di tutela.
Svariate le argomentazioni poste alla base di tale netta posizione, a cominciare da quella propriamente letterale: valorizzando, infatti, l’espresso disposto di cui all’ultimo comma dell’art. 1454 c.c., secondo cui “decorso il termine senza che il contratto sia stato adempiuto, questo è risoluto di diritto”, alcuni autori ritengono di dover ricollegare all’inutile decorso del suddetto termine un effetto risolutorio automatico e, pertanto, non disponibile da parte del contraente non inadempiente, e di dover intendere il dettato normativo nel senso che la risoluzione operi senza intervento del giudice, per cui l’eventuale successiva pronuncia giudiziale avrà carattere dichiarativo e non costitutivo, non essendo dunque necessaria, a differenza di quanto ritenuto dalla Cassazione (Cfr. per tutte Cass., n. 4535/’87), una domanda di parte, successiva alla scadenza del termine, che sancisca in maniera esplicita l’inutile suo decorso.
Altro punto di discrepanza fra dottrina e giurisprudenza attiene all’affermazione, contenuta in molte sentenze, e precedentemente riportata, secondo cui la diffida ad adempiere costituirebbe una mera facoltà che si esprime non solo “a priori” nella libertà di scegliere questo mezzo a preferenza di altri ma anche “a posteriori” nella possibilità di rinunciare agli effetti risolutori già prodottisi A tal uopo si fa notare in dottrina come, se da un lato l’assunto della facoltatività è pienamente condivisibile laddove riferito alla possibilità di scelta tra diffida e domanda giudiziale di risoluzione, dall’altro non vi sia alcun appiglio per affermare che resti in facoltà dell’intimante, dopo il decorso del termine, considerare l’avvenuta risoluzione come non prodottasi ed esperire altri mezzi di tutela. Più nello specifico, costituirebbe un vero e proprio salto logico giungere alla conclusione della disponibilità dell’effetto risolutorio prendendo le mosse semplicemente dal carattere facoltativo della diffida e dall’ulteriore presupposto (oltretutto non oggetto di unanime condivisione), che questa sia apprestata nel solo interesse della parte non inadempiente.
Al riguardo si è correttamente osservato: altro è dire che la diffida si pone in rapporto di alternatività con l’azione di risoluzione giudiziale, altro è attribuire all’intimante il potere – di cui non vi è traccia nella disciplina normativa – di porre nel nulla l’effetto risolutorio verificatosi.
Ancora, partendo dall’assunto, condiviso in dottrina, dell’immediata produzione dell’effetto risolutorio nel momento stesso del perfezionamento della fattispecie di cui all’art. 1454 c.c., si ritiene dogmaticamente inammissibile, in quanto in netto contrasto con i principi vigenti in materia, la prospettazione di una reviviscenza di un contratto già sciolto, il quale, definitivamente risolto, non potrà più riacquistare efficacia, rendendo logicamente inconcepibili atti, quali una nuova diffida ovvero una domanda di adempimento o di risoluzione, posti in essere successivamente allo spirare del termine fissato nella prima diffida.
Fermo quanto fin qui esposto, occorre a questo punto procedere ad una disamina delle obiezioni mosse dalla dottrina avverso l’asserzione giurisprudenziale per cui, essendo l’essenzialità del suddetto termine posta nell’esclusivo interesse del creditore intimante, quest’ultimo potrebbe liberamente valutare se farne valere la decorrenza o meno.
Si è in merito obiettato che la norma in questione non costituisce solo una prerogativa concessa al contraente adempiente ma risponde anche ad un’esigenza di tutela del debitore, il quale non può rimanere totalmente privo di considerazione da parte dell’ordinamento ed essere così esposto al libero arbitrio del creditore; e ciò in quanto l’atto di diffida viene ad ingenerare nell’intimato un duplice e non trascurabile affidamento: da un lato, infatti, viene a lui comunicata la possibilità di porre rimedio entro un breve termine al proprio inadempimento, con conseguente effetto liberatorio di un adempimento effettuato durante la pendenza del termine a lui assegnato; dall’altro lato il debitore viene avvertito dell’intenzione della controparte di volersi liberare dal vincolo contrattuale in caso di inadempimento alla scadenza del termine, con consequenziale suo affidamento rispetto all’impossibilità di essere chiamato ad adempiere dopo l’infruttuoso decorso dello stesso termine, essendosi a quel punto prodotto l’effetto risolutivo “di diritto”. È evidente come in una situazione del genere in dottrina si ritenga assolutamente necessaria la tutela dell’interesse dell’intimato alla certezza della propria posizione, per cui egli, una volta determinatosi a non adempiere ed a sopportare le conseguenze del suo inadempimento, non potrebbe essere chiamato a subire gli oneri, eventualmente maggiori, nascenti a suo carico dall’attribuzione al creditore della facoltà di ritornare sui propri passi, avendo quest’ultimo manifestato con la diffida il venir meno del proprio interesse alla prestazione al di là del termine.
Ai fini, dunque, della tutela della posizione del diffidato e del suo affidamento, la maggioranza degli autori da un lato ritiene non doversi ammettere durante la pendenza del termine né la possibilità per l’intimante di chiedere l’adempimento o la risoluzione ex art. 1453 c.c., né di procedere all’esecuzione coattiva di cui agli artt. 1515 e 1516 c.c., né, ancora, di revocare o modificare unilateralmente la diffida, ad esempio ampliando il termine indicato per l’adempimento; dall’altro si sostiene la totale indisponibilità da parte del diffidante, dopo la scadenza del termine, dell’effetto risolutorio prodottosi, sia in termini di non proponibilità di successiva domanda giudiziale di adempimento o risoluzione che di intimazione di nuova diffida.
Si evidenzia da parte di alcuni autori come la necessità di prendere in considerazione anche la posizione dell’inadempiente e di tutelarne l’affidamento con la conseguente esclusione della disponibilità da parte dell’intimante dell’effetto risolutorio, possa ricavarsi anche da un’analisi di sistema condotta con riferimento al complesso delle disposizioni dettate in tema di risoluzione per inadempimento.
Si fa innanzitutto notare come, mentre la risoluzione può essere domandata anche quando il giudizio sia stato promosso per ottenere l’adempimento, in base al disposto del 2° comma dell’art. 1453 c.c. non possa chiedersi l’adempimento quando sia stata domandata la risoluzione; la giustificazione di una siffatta norma viene ricollegata al fatto che si ritiene che la proposizione di domanda di risoluzione provi che l’interesse del creditore alla prestazione sia venuto a mancare e che conseguentemente il debitore abbia acquistato una sorta di “diritto di non adempiere”, così come confermato dalla Relazione al codice civile, nella quale testualmente si legge che “scegliendo la risoluzione il contraente dichiara di non aver più interesse al contratto ed il debitore non deve ulteriormente mantenersi pronto per l’esecuzione della prestazione”.
Viene, in secondo luogo, presa in considerazione la disciplina di cui all’art. 1457 c.c. che da una parte concede al creditore di una prestazione da eseguirsi entro un termine essenziale, di dichiarare, dopo la scadenza di esso, di avere ancora interesse all’adempimento, dall’altra però va a limitare il tempo utile ai fini di una tale dichiarazione a soli tre giorni.
Si afferma che entrambe queste norme, che si ritengono poste a tutela sia dell’interesse del debitore inadempiente a non restare indefinitamente esposto all’arbitrio del suo creditore, sia del più generale interesse a che le risorse coinvolte nella vicenda contrattuale siano reintrodotte nella circolazione economica, debbano essere lette, ai fini di una coerenza sistematica, quale espressione di un principio generale, valido in tutto il settore della risoluzione per inadempimento, compresa la materia della diffida ad adempiere.
 
Rosa Geraci
Dottoranda di ricerca in Diritto Comparato presso la facoltà di giurisprudenza dell’Università di Palermo

Geraci Rosa

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