Indice
- I fatti
- L’attività istruttoria e la disciplina applicabile
- La giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo
- Conclusioni
1. I fatti
Un reclamante si rivolgeva al Garante privacy lamentando che la Questura locale aveva violato la normativa in materia di privacy attraverso la diffusione su diversi organi di stampa di foto che lo ritraevano e delle sue generalità.
In particolare, il reclamante sosteneva che erano stati pubblicato due articoli su due testate giornalistiche on line locali, in cui si dava conto dell’arresto del reclamante e si associavano una serie di immagini estratte dalle fotocamere di sorveglianza e soprattutto di una fotografia frontale (simile ad un fotosegnalamento) in cui il reclamante poteva essere facilmente riconosciuto. Inoltre, lamentava che un notiziario locale aveva mandato in onda un servizio televisivo in cui si indicavano le sue generalità e si dava atto dell’arresto, oltre che venivano trasmesse le immagini di cui sopra relative al reclamante.
In considerazione di ciò, il Garante avviava l’istruttoria, chiedendo chiarimenti al Ministero dell’interno e alla Questura interessata in ordine alle modalità e alla finalità della diffusione delle immagini del reclamante.
Il Ministero si giustificava sostenendo che la diffusione agli organi di informazione delle immagini del reclamante era stata effettuata per ragioni di interesse pubblico, in quanto si trattava di un rapinatore seriale di donne anziane che agiva secondo delle metodologie specifiche e tale diffusione avrebbe permesso ad altre persone di riconoscerlo come autore di altri reati dello stesso tipo commessi nei loro confronti.
La Questura, invece, precisava che le immagini trasmesse nel notiziario erano relative alla scheda che era stata predisposta dalla Questura per la conferenza stampa correlata all’arresto del reclamante, che era stata autorizzata dall’autorità giudiziaria.
2. L’attività istruttoria e la disciplina applicabile
A seguito dell’istruttoria svolta, il Garante ha accertato che il Ministero abbia effettuato il trattamento dei dati del reclamante, attraverso la diffusione della sua immagine in primo piano e delle sue generalità in una conferenza stampa in cui la Questura dava atto che al reclamante (già in carcere da qualche mese) era stata inflitta un’ulteriore misura cautelare restrittiva della libertà a seguito di altri eventi dello stesso tipo al medesimo addebitati.
Il Garante ha altresì accertato che dette immagini e generalità sono state successivamente pubblicate su due siti internet e le immagini diffuse altresì tramite un servizio televisivo di un’emittente locale.
Secondo il Garante, quindi, al caso di specie è applicabile sia la Direttiva UE n. 680 del 2016 sia il codice privacy italiano, che disciplinano il trattamento di dati personali da parte delle autorità competenti per fini di prevenzione, indagine, accertamento e perseguimento di reati.
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3. La giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo
Per la decisione sul caso in esame, il Garante ha ricordato alcune sentenze della Corte EDU, secondo cui è possibile limitare il diritto alla privacy di una persona sottoposta a procedura penale pendente, attraverso la pubblicazione di una sua foto, solo se sussistono valide e convincenti ragioni. Nei casi citati dal Garante, le autorità avevano dato alla stampa la foto dell’interessato in stadio di custodia cautelare o avevano consentito alla stampa di accedere nel luogo dove l’interessato era in stato di arresto. In entrambi i casi, la Corte EDU, in considerazione del fatto che gli interessati erano stato di detenzione (e non latitanti) e il processo non era ancora cominciato, aveva ritenuto tale condotta delle autorità in violazione dell’art. 8 CEDU, in quanto la medesima non perseguiva alcuno scopo legittimo poiché non proteggeva alcun interesse di giustizia (quali per esempio assicurare la comparizione della persona al processo oppure prevenire nuove infrazioni penali da parte del medesimo).
Infine, in altri casi la Corte EDU ha ricordato che le persone sottoposte a procedimento giudiziario godono dell’ulteriore protezione derivante dalla “presunzione di non colpevolezza”.
4. Conclusioni
Il Garante per la protezione dei dati personali ha ritenuto che il trattamento posto in essere dalla Questura non fosse necessario per l’esecuzione di un compito dell’autorità per finalità di prevenzione, indagine, accertamento e perseguimento di reati, in quanto non sono state dimostrate le effettive necessità di polizia che hanno indotto la Questura a divulgare le immagini e le generalità del reclamante. Secondo il Garante, infatti, il fondamento di tale divulgazione non può essere il generico intento di verificare se altre persone fossero in grado di riconoscere il reclamante come autori di altri reati predatori commessi in loro danno.
Inoltre, poiché il reclamante non era latitante, ma era in stato di detenzione già da diversi mesi, non vi era alcuna necessità di divulgare le immagini che lo ritraevano per finalità di esecuzione di compiti di polizia.
Il Garante, inoltre, ha precisato che risulta irrilevante la tipologia di fotografia diffusa: sia una foto segnaletica che una normale foto formato tessera, infatti, sono potenzialmente lesive della dignità della persona. In considerazione di ciò, il Garante ha ribadito il divieto di diffondere immagini di persone sottoposte a procedimenti giudiziari, anche nell’ambito di conferenze stampa, se non ricorrono fini di giustizia e di polizia oppure motivi di interesse pubblico.
In conclusione, il Garante ha evidenziato come il fatto che la conferenza stampa con cui sono state inizialmente diffuse le immagini sia stata autorizzata dall’Autorità giudiziaria, non rileva ai fini della legittimità del trattamento rispetto alla normativa in materia di protezione dei dati personali. Infatti, detto assenso semplicemente esclude che la diffusione possa sostanziare una violazione di legge in tema di segreto istruttorio o comunque esclude che possa incidere negativamente sul processo penale in corso, ma non esonera il Ministero a valutare se la diffusione è conforme alla normativa in materia di privacy.
Avendo, pertanto, ritenuto illecito il trattamento dati come accertato durante l’istruttoria, il Garante ha condannato il Ministero dell’interno a una sanzione pecuniaria di €. 50.000.
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