A stabilirlo è la Cassazione con sentenza del 23 luglio 2104 n. 32598.
Il Procuratore Generale presso la Corte d’appello di Trieste proponeva ricorso in Cassazione impugnando la decisone del Tribunale di Trieste secondo cui il datore di lavoro (G.G.) non era passibile di condanna per reato di omesso versamento delle ritenute previdenziali a carico dei lavoratori dipendenti (articolo 81 codice penale ed articolo 2, comma 1-bis, Decreto Legge n. 368 del 1983) per insussistenza del fatto. Nello specifico, il datore di lavoro ometteva di versare le ritenute previdenziali operate sulle retribuzioni corrisposte ai lavoratori con riferimento ai mesi di settembre 2008, febbraio 2009 e aprile 2009, per un importo totale di euro 933,00.
Il datore di lavoro, tuttavia, ancor prima di ricevere da parte dell’Inps la notifica dell’avviso di violazione, richiedeva presso l’agente di riscossione (Equitalia Nord s.p.a.), in data 18 dicembre 2009, la dilazione dell’intero debito maturato nei confronti dell’Inps provvedendo, successivamente, alla completa estinzione.
In seguito, l’Istituto procedeva con la notifica dell’avviso di contestazione dell’illecito in data 25 gennaio 2010.
E’ doveroso premettere che l’articolo 2, comma 1-bis sopracitato rappresenta una condizione di punibilità e non di procedibilità; nello specifico, il datore di lavoro insolvente non è soggetto a punibilità qualora provveda, entro il termine di tre mesi dalla contestazione o dalla data di ricevimento dell’avviso di illecito, al versamento delle ritenute previdenziali a carico dei lavoratori. Diversamente la violazione è punita con la reclusione fino a tre anni e la multa fino a euro1032,00.
La Cassazione ha ribadito che l’Inps, dapprima con delibera del Consiglio di amministrazione n. 288 del 11 aprile 1995 e successivamente con le circolari n. 106 del 3 agosto 2010 e n. 148 del 24 novembre 2010, è intervenuta nel merito della questione concedendo facoltà al datore di lavoro di estinguere il debito anche in forma rateale, essendo questi unico soggetto deputato ad adempiere all’obbligazione contributiva. Tale concessione, tuttavia, non preclude all’Inps la possibilità di procedere con la notifica dell’illecito ai sensi dell’articolo 2 di cui sopra.
L’imprenditore cui è concesso il beneficio della dilazione, qualora ottemperi a quanto imposto dalla legge ovvero provveda al versamento di un numero di rate tali da coprire il debito maturato nel termine perentorio di tre mesi dalla notifica dell’avviso, evita la condanna.
E’, pertanto, corretta l’interpretazione del Tribunale territoriale, secondo cui la dilazione accordata il 18 dicembre 2009 “ha comportato novazione dell’obbligazione di versamento delle ritenute”.
Nel caso di specie i Giudici Ermellini sottolineano che “la rateizzazione, che rappresenta una manifestazione del favore legislativo verso i contribuenti in temporanea difficoltà economica, ai quali viene offerta la possibilità di regolarizzare la propria posizione tributaria senza incorrere nel rischio di insolvenza, comporti la sostituzione del debito originario con uno diverso, conseguendone un effetto novativo non dissimile da quello che si produce in seguito all’accoglimento della domanda di condono, posto che detta accettazione, se seguita dal pagamento della prima rata, comporta la definitiva sostituzione dell’obbligazione assunta dal contribuente all’obbligazione tributaria originaria”.
Sul punto è anche intervenuto il Consiglio di Stato, con pronuncia del 05/06/2013 n. 15, stigmatizzando, in linea con i precedenti interventi, il principio secondo cui la dilazione rappresenta una concessione fatta dall’Ente creditore al datore di lavoro con la conseguente origine di un nuovo debito che opera in sostituzione del precedente, secondo i canoni della novazione oggettiva di cui agli articoli 1230 e ss. Codice Civile.
Nel caso de quo veniva presentata domanda di rateazione prima dell’avviso di illecito notificato dall’Inps, con la conseguente origine di un nuovo debito che operava in sostituzione del precedente. Il provvedimento non può in ogni caso privare la violazione, posta in essere dal datore di lavoro, del valore penale.
Tuttavia, l’ammissione al pagamento dilazionato ha generato nel datore di lavoro l’errato convincimento, seppur comprensibile, di non essere passibile di un procedimento penale; detto convincimento, secondo la Cassazione, giustifica il comportamento omissivo perpetrato ed esclude la punibilità ex articolo 2, comma 1-bis, del Decreto Legge n. 463/83.
Pertanto, “se va escluso che l’imputato non abbia avuto consapevolezza di omettere i versamenti, posto che l’elemento soggettivo del reato, caratterizzato dal dolo generico, non possa che essere riguardato se non con riferimento al momento consumativo, coincidente con la scadenza del termine mensile previsto per il versamento, a nulla valendo in senso contrario eventuali convincimenti indotti da fatti successivi, non può però escludersi, sulla base degli incotroversi dati di fatto emergenti dalla sentenza impugnata, che lo stesso si sia legittimamente convinto della superfluità dell’avviso di contestazione successivo alla rateizzazione, tanto più in quanto non proveniente da Equitalia, così rinunciando ad avvalersi del termine di legge da esso decorrente per la regolarizzazione dell’illecito, regolarizzazione erroneamente ritenuta, appunto, come già verificatasi”.
D’altra parte, non è inoltre configurabile quale colpa del datore di lavoro, la sopravvenuta notifica dell’illecito in data postuma alla concessione della dilazione di pagamento concordatasi, ai fini dell’estinzione del debito.
Alla stregua dei fatti, la Suprema Corte ha respinto il ricorso della Procura della Repubblica.
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