Si ha comunione legale quando i coniugi non hanno stipulato la convenzione di comunione convenzionale, ex art. 210 c.c., ovvero di separazione dei beni ex art. 215 c.c.
La costituzione del fondo patrimoniale ex art. 167 c.c. implica invece la coesistenza con il regime di comunione legale, salvo che sia accompagnato da una pattuizione secondo cui ciascun coniuge conservi la titolarità esclusiva dei beni acquistati durante il matrimonio.
La comunione dei beni è, quindi, il regime legale che regola i rapporti patrimoniali tra coniugi durante il matrimonio; regime introdotto dalla legge di riforma del diritto di famiglia n.151 del 19 maggio 1975.
In mancanza di una diversa dichiarazione risultante dall’atto di matrimonio o di una diversa convenzione stipulata a norma dell’art. 162 c.c., registrata negli atti dello stato civile, “il regime patrimoniale legale della famiglia è costituito dalla comunione dei beni” (art.159 c.c.), la cui disciplina e oggetto sono stabiliti negli artt. 177, 178 e 179 del c.c..
La comunione legale è funzionalmente strutturata per soddisfare tendenzialmente l’interesse della famiglia, essendo finalizzata a sostenere i pesi e gli oneri per il mantenimento dei componenti della famiglia medesima, per l’istruzione e l’educazione dei figli e per ogni obbligazione contratta anche separatamente da ciascun coniuge nell’interesse della nucleo familiare.
In particolare, l’art. 177 c.c. prevede che costituiscano oggetto della comunione legale, tra gli altri, anche gli acquisti compiuti dai coniugi insieme o separatamente durante il matrimonio, ad esclusione di quelli relativi ai beni personali individuati nell’art.179 c.c., ossia i beni di cui il coniuge era proprietario o sui quali aveva un diritto reale di godimento già prima del matrimonio, le donazione o successioni avvenute durante il matrimonio, i beni di uso strettamente personale dei coniugi e che essi utilizzano per l’esercizio della professione, i beni ottenuti a titolo di risarcimento del danno, le pensioni per perdita della capacità lavorativa e i beni acquistati con il prezzo del trasferimento dei beni personali, purché ciò sia espressamente dichiarato nell’atto di acquisto.
A differenza del fondo patrimoniale (art.167 c.c.), dell’usufrutto legale sui beni dei figli minori (art. 324 c.c.) e di eventuali convenzioni matrimoniali (art.210 e ss. c.c.), nonché dei previgenti istituti della dote e del patrimonio familiare, il regime della comunione legale non costituisce un patrimonio separato destinato specificatamente al soddisfacimento dei bisogni della famiglia.
Essa, infatti, non è rappresentata da un patrimonio statico di beni, costituito durante il matrimonio per effetto degli acquisti operati anche singolarmente dai coniugi, ma è anche un regime circolatorio di beni, i cui effetti continuano a prodursi pure al momento dello scioglimento del matrimonio, con la c.d. comunione de residuo, formata dai frutti dei beni personali e dai proventi dell’attività separata dei coniugi, conseguiti ma non consumati durante il matrimonio.
A tal proposito, basti pensare alle norme del codice civile in materia sia di cause si scioglimento del regime legale sia di amministrazione dei beni della comunione legale, sulla quale, durante il matrimonio, possono gravare in via sussidiaria e pro-quota anche debiti contratti per ragioni estranee ai bisogni della famiglia e persino nell’interesse personale di ciascun coniuge.
Può rilevarsi che, a differenza del fondo patrimoniale (artt. 167 e 168, comma 2, c.c.), la comunione legale non è destinata a tutelare e garantire i bisogni della famiglia dopo lo scioglimento del matrimonio, neppure in presenza di figli minori, essendone espressamente previsto lo scioglimento in caso di assenza o di morte anche presunta di uno dei coniugi, di annullamento del vincolo coniugale, di separazione personale o di cessazione degli effetti civili del matrimonio e persino in caso di fallimento dei coniugi.
Spetta disgiuntamente a ciascun coniuge l’amministrazione ordinaria dei beni ricadenti in comunione legale, mentre spetta congiuntamente ai medesimi l’amministrazione straordinaria.
Più nel dettaglio, l’art.184 c.c. stabilisce che gli atti compiuti da un coniuge senza il necessario consenso dell’altro, e da quest’ultimo non convalidati, sono annullabili se riguardanti beni immobili o beni mobili elencati nell’art. 2683 c.c., cioé soggetti a trascrizione. L’azione di annullamento può essere proposta entro l’anno dalla data in cui il coniuge che non abbia prestato il consenso ha avuto conoscenza del compimento dell’atto, momento generalmente coincidente con la trascrizione del medesimo, e in ogni caso non oltre l’anno dallo scioglimento del matrimonio.
Ciò chiarito, giova rilevare come autorevole voce dottrinale, soprattutto in passato, abbia ritenuto che la disciplina della comunione legale dei beni tra coniugi debba essere ricostruita in base a quanto previsto per l’istituto generale della comproprietà, regolato dagli artt.1100 e ss. c.c. (c.d. comunione ordinaria). Il primo comma dell’art. 184 c.c., infatti, era interpretato come una norma derogatoria alla regola di inefficacia dell’atto di disposizione a non domino, e in particolare dell’atto di disposizione della cosa comune senza la necessaria partecipazione degli altri comproprietari.
La Corte costituzionale, però, ha successivamente sostenuto che la disciplina della comunione legale è difficilmente riconducibile alla comunione ordinaria, perchè non consistente in una comunione per quote.
Nella comunione ordinaria, infatti, le quote sono oggetto di un diritto individuale dei singoli partecipanti (art. 2825 c.c.) ed esse delimitano il potere di disposizione di ciascuno di essi sulla cosa comune (art.1103 c.c.). Nella comunione legale, invece, i coniugi, non essendo individualmente titolari di un diritto sulla quota, sono solidalmente titolari di un diritto avente ad oggetto i beni della comunione (art. 189, comma 2, c.c.) sulla quale gravano in via sussidiaria i debiti contratti, durante il matrimonio, da ciascun coniuge in relazione ad atti eccedenti l’ordinaria amministrazione senza il consenso dell’altro e anche quelli, anteriori al matrimonio, relativi a debiti personali contratti da ciascun coniuge.
Nella comunione legale, quindi, la quota non é un elemento strutturale, ma ha soltanto la funzione di stabilire la misura entro cui i beni della comunione possono essere aggrediti dai creditori particolari (art. 189 c.c.), la misura della responsabilità sussidiaria di ciascuno dei coniugi con i propri beni personali verso i creditori della comunione (art. 190 c.c.), e la proporzione in cui, dopo lo scioglimento della comunione, l’attivo e il passivo devono essere ripartiti tra i coniugi o i loro eredi (art. 194 c.c.).
Ne discende che, nei rapporti coi terzi, ciascun coniuge ha il potere di disporre dei beni della comunione legale.
Quest’ultima si presenta come un regime vincolato, nel senso che i coniugi devono rispettare le disposizioni di legge che concernono l’oggetto della stessa, i modi e le forme di amministrazione e le cause di scioglimento.
L’unica possibilità per i coniugi di derogare alla comunione legale consiste nelle convenzioni matrimoniali sopra citate.
Il regime di comunione legale è caratterizzato dalla contitolarità dei coniugi sugli acquisti successivi al matrimonio, ad eccezione dei casi tassativamente previsti all’art 179 c.c., e dalla cogestione del patrimonio con uguaglianza dei poteri.
Costituiscono, quindi, oggetto di comunione: gli acquisti compiuti dai coniugi congiuntamente o separatamente durante il matrimonio, salvo quelli relativi a beni personali ex art. 179 c.c.; le aziende costituite dopo il matrimonio e gestite da entrambi; gli incrementi e gli utili delle aziende, che pur essendo state costituite da uno dei coniugi antecedentemente al matrimonio, sono gestite da entrambi.
Va specificato che l’ingresso nella comunione opera automaticamente, non dovendosi considerare come conseguenza indiretta di un acquisto che prima si verifica in capo al coniuge che ha compiuto l’atto e solo successivamente passa in proprietà comune.
Accanto alla comunione attuale o immediata, l’art. 177, lett. b) e c) c.c. prevede la c.d. comunione de residuo, che si realizza al momento del verificarsi di una causa di scioglimento del matrimonio ed ha per oggetto i frutti dei beni propri di ciascun coniuge e i proventi dell’attività separata di ciascun coniuge, a condizione che non siano stati consumati.
I coniugi possono agire, anche disgiuntamente, per gli atti di ordinaria amministrazione, mentre devono agire congiuntamente per gli atti di straordinaria amministrazione ovvero quelli suscettibili di alterare la consistenza del patrimonio e le condizioni di vita della famiglia.
Se uno dei coniugi rifiuta il consenso per la stipulazione di un atto di straordinaria amministrazione ovvero per gli atti per cui è richiesto il consenso, l’altro coniuge può rivolgersi al giudice al fine di ottenere l’autorizzazione alla stipulazione dell’atto nell’interesse della famiglia.
Gli atti aventi ad oggetto beni immobili o beni mobili registrati compiuti da un coniuge, senza il necessario consenso dell’altro e da questo non convalidati, sono annullabili entro un anno dalla conoscenza dell’atto e in ogni caso entro un anno dalla data di trascrizione.
Per ciò che concerne gli atti di disposizione sui beni mobili, l’art. 184, comma 3, c.c. pone a carico del coniuge che ha effettuato l’atto senza il consenso, l’obbligo di ricostituire la comunione nello status quo ante, ad istanza dell’altro coniuge, ovvero di pagare l’equivalente del bene.
Ciò posto, giova rilevare come la peculiarità della comunione legale dei beni tra coniugi, rispetto alla comunione ordinaria, consista nel fatto che la prima può definirsi una “comunione senza quote”. Ed invero i coniugi non posso disporre della propria quota ideale, che si configura come indivisibile ed indisponibile, essendo gli stessi solidalmente titolare di un diritto avente per oggetto i beni della comunione, relativamente alla quale non è ammessa la partecipazione da parte di estranei.
La funzione della comunione legale tra coniugi consiste nel garantire la parità dei coniugi sotto il profilo patrimoniale e nell’assicurare alla famiglia uno strumento di arricchimento volto sia al soddisfacimento dei propri bisogni che all’accumulo di ricchezza.
Orbene, dopo questa breve panoramica sulla disciplina generale della comunione legale, preme ora evidenziare come il consenso dell’altro coniuge, richiesto dall’art. 180, comma 2, c.c. per gli atti di straordinaria amministrazione, non costituisca un negozio autorizzativo, ma appare essere un requisito di regolarità del procedimento di formazione dell’atto di disposizione, la cui mancanza si traduce in un vizio del negozio. L’acquisto effettuato dal un solo coniuge ai sensi dell’art. 184, primo comma, non dà luogo ad un’alienazione da parte di chi non è legittimato, bensì ad un acquisto in base a un titolo viziato. In questo senso, il coniuge che non ha partecipato all’acquisto risulta maggiormente tutelato rispetto all’ipotesi opposta che, diversamente opinando, si verificherebbe a seguito di un acquisto a non dominio, nella quale egli dovrebbe accontentarsi del mero diritto obbligatorio alla riparazione del danno.
Né il diritto di proprietà del coniuge pretermesso, né l’interesse della famiglia cui sono destinati i beni della comunione legale risultano pregiudicati, ma anzi protetti con una sanzione consistente nella mera invalidità dell’alienazione effettuata solo dall’altro coniuge.
E allora, in base al disposto dell’art.184 c.c., nel nostro ordinamento giuridico, non vi è litisconsorzio necessario tra i coniugi nelle controversie civili aventi ad oggetto beni ricadenti in comunione legale acquistati dal singolo coniuge, poiché l’eventuale mancanza del consenso da parte dell’altro coniuge produce effetti invalidanti temporanei sul negozio di acquisto.
Tale conclusione appare conforme anche a quanto previsto dall’art. 177 c.c. lett. a), secondo il quale l’atto di acquisto compiuto da ciascun coniuge in costanza di matrimonio è imputato automaticamente alla comunione legale, senza pericolo di ledere l’intangibilità della sfera giuridico-patrimoniale individuale del coniuge non partecipante all’atto.
Si è posta, quindi, in giurisprudenza la questione dell’ammissibilità di una dichiarazione di volontà del coniuge non acquirente, resa contestualmente all’atto di acquisto dell’altro coniuge, avente l’effetto di impedire la caduta in comunione legale di un bene al di fuori dei casi contemplati dall’art. 179 c.c.
Il problema interpretativo è nato dal disposto dell’art. 179, comma 2, c.c., che consente l’esclusione dalla comunione legale dei soli beni immobili o mobili elencati dall’art. 2683 c.c., acquistati dopo il matrimonio, quando l’esclusione ai sensi delle lettere c), d) ed f) risulti dall’atto di acquisto e di esso sia stato parte l’altro coniuge.
Ci si è interrogati a lungo circa l’ammissibilità del c.d. rifiuto del coacquisto ex lege, cioè dell’ipotesi non espressamente codificata di esclusione dalla comunione legale degli acquisti compiuti dai coniugi in costanza di matrimonio.
Il nocciolo fondamentale della problematica di cui si discute risiede essenzialmente nello stabilire se la dichiarazione del coniuge di non voler acquistare la contitolarità di un bene, resa al momento della conclusione dell’atto di acquisto da parte dell’altro coniuge, sia di per se sufficiente a produrre l’effetto escludente, indipendentemente dall’effettiva natura personale di tale bene, ossia dal ricorrere dei presupposti che l’art. 179 c.c.
Tra i presupposti previsti dall’art. 179 c.c. vi sono la dichiarazione del coniuge acquirente di voler escludere il bene dalla comunione legale, la partecipazione del coniuge non acquirente all’atto di acquisto, l’eventuale dichiarazione del coniuge non acquirente che può assumere, a seconda delle circostanze, valori diversi.
Può essere parificata ad una dichiarazione avente natura ricognitiva e valore confessorio stragiudiziale (art.2732 e 2733 c.c.), oppure ad una dichiarazione di intenti.
La Corte di legittimità ha avuto modo di occuparsi della questione, in relazione ad un procedimento di separazione personale, nel corso del quale la moglie aveva presentato anche domanda di accertamento della simulazione del contratto di compravendita stipulato dall’altro coniuge successivamente alla separazione, in relazione ad un immobile effettivamente destinato durante il matrimonio a casa coniugale, ma fittiziamente dichiarato nell’atto originario di acquisto come bene destinato all’attività professionale (art. 179, lett. d, c.c.), al solo fine di sottrarlo alla comunione legale per fini fiscali. Nel caso di specie, il coniuge non acquirente non aveva partecipato alla stipulazione dell’originario atto di acquisto del bene oggetto della domanda di simulazione. La Corte, nella sua massima espressione nomofiltattica, ebbe così modo di allinearsi alla dottrina maggioritaria.
Quest’ultima aveva già ammesso la possibilità di derogare ai meccanismi della comunione legale, ritenendo legittimo il rifiuto del coniuge volto ad impedire l’effetto di coacquisto ope legis dei beni, a prescindere dalla sussistenza di uno dei casi di cui all’art. 179 lett. c), d), e f) c.c.
In particolare, si era affermato che, in virtù del principio dell’autonomia privata, il coniuge, anche in regime di comunione legale, non può essere costretto ad acquistare un bene contro la propria volontà. In sostanza, l’effetto incrementativo della sfera giuridico-patrimoniale di un soggetto non partecipe all’atto può prodursi senza la sua volontà, ma mai contro quest’ultima.
Pertanto, secondo tale orientamento allo stato prevalente, il legislatore richiede prudenetemente la partecipazione all’atto di acquisto del coniuge non stipulante, volendo porre quest’ultimo in condizione di conoscere la portata e l’oggetto del negozio e di consentirgli, proprio in quella sede, di disconoscere la sussistenza dei presupposti per l’acquisto del bene a titolo personale, ovvero di confermare la dichiarazione dell’altro coniuge, impedendo l’effetto estensivo della comunione legale.
Pare militare in tale senso, a ben vedere, anche l’art. 2647, comma 1, c.c. che espressamente contempla la possibilità di stipulare “convenzioni matrimoniali che escludono i beni medesimi dalla comunione tra i coniugi”.
La suddetta disciplina, però, almeno secondo parte della dottrina, non si concilierebbe con il particolare regime di pubblicità previsto per le convenzioni matrimoniali che, ai sensi dell’art. 162 c.c., debbono essere annotate in calce all’atto di matrimonio e, qualora abbiano ad oggetto beni immobili, devono essere trascritte a norma dell’art. 2647 c.c.
I giudici di merito avevano inizialmente ammesso la possibilità del rifiuto del coacquisto sulla base del principio di autonomia delle parti. Argomento a favore dell’ammissibiltà di tale istituto era individuato anche nell’abrogazione del divieto di donazione tra coniugi, inizialmente stabilito nell’art.781 c.c..
Successivamente la giurisprudenza (anche di legittimità) ha ritenuto di dovere escludere l’ammissibilità del rifiuto del coacquisto, sostenendo che altrimenti la disciplina di cui all’art.179 c.c. sarebbe risultata priva di utilità e sarebbe arrivata a contrastare con l’art. 210, comma 3, c.c., in cui è affermato il carattere inderogabile delle norme in materia di comunione legale relativamente, fra l’altro, all’uguaglianza delle quote di comproprietà sui beni che formano oggetto della comunione legale. Infatti, se non è consentito ad uno dei coniugi in regime di comunione legale rinunciare ad una parte della quota a lui spettante sui beni che formano oggetto della comunione legale, a maggior ragione, deve ritenersi esclusa la possibilità di una rinuncia all’intera quota di un bene, qualora quest’ultimo non rientri nelle categorie elencate dall’art.179 c.c..
In senso favorevole all’ammissibilità di una dichiarazione per rifiutare il coacquisto si era espresso anche la Corte di Cassazione accogliendo la tesi dell’esistenza nel nostro ordinamento giuridico di tale istituto.
Del resto, pure la separazione legali dei beni e il fondo patrimoniale costituiscono strumenti con cui si può escludere la riferibilità di beni alla comunione legale, quindi, a fortiori, deve essere consentita la sottrazione di beni alla comunione legale anche con singoli atti di autonomia privata.
Al riguardo si era quindi aperto un contrasto interpretativo anche sulla natura giuridica della partecipazione del coniuge non acquirente, nonché sulla sua essenzialità o meno ai fini dell’esclusione del bene personale dalla comunione legale.
Secondo l’opionione ad oggi prevalente, lo si ribadisce, la partecipazione effettiva del coniuge non acquirente, nelle ipotesi di cui alle letere c), d) e f) dell’art. 179 c.c., non risulta necessaria, perché essa ha solo la funzione di riconoscere l’esistenza dei presupposti di fatto richiesti dalla legge ai fini dell’esclusione del bene dalla comunione legale, e dunque essa costituisce mero controllo preventivo della ricorrenza dei presupposti oggettivi per l’acquisto separato, al fine di evitare successive contestazioni in ordine alla relativa natura personale del bene.
In ogni caso, però, il coniuge non acquirente può promuovere, anche nel caso in cui egli abbia reso una dichiarazione non veritiera, un apposito giudizio di accertamento per dimostrare l’inesistenza dei presupposti dell’acquisto a titolo personale.
Non mancano tesi contrarie le quali sostengono che la partecipazione del coniuge acquirente all’atto di acquisto, oltre a poter avere natura meramente ricognitiva, non debba nemmeno essere ritenuta necessaria. L’atto di acquisto di un bene, riconducibile alle categorie di cui all’art. 179 c 2 lett. c), d) e f) c.c., posto in essere senza la partecipazione dell’altro coniuge, dovrebbe restare di proprietà del coniuge acquirente, e, in caso di contestazione, l’onere di provare il carattere personale del bene in questione dovrebbe ricadere sul coniuge che ha compiuto l’acquisto.
Alla luce di tali considerazioni la giurisprudenza ha affermato che l’eventuale dichiarazione con la quale il coniuge non acquirente riconoscesse espressamente l’esistenza dei presupposti di fatto fissati dalla legge ai fini dell’esclusione dalla comunione legale di un bene non personale, avrebbe valore dichiarativo e rappresentativo di fatti contrari al suo interesse, poiché, con tale dichiarazione, egli sostanzialmente negherebbe la contitolarità di un suo diritto, ammettendone l’esclusiva titolarità in capo all’altro coniuge.
Tuttavia, la giurisprudenza ha distinto, tra le varie ipotesi contemplate dall’art. 179 c.c., quelle in cui è configurabile una dichiarazione confessoria, avente ad oggetto fatti già accaduti e confessati appunto dalla parte, da quelle in cui l’oggetto della dichiarazione risulta avere caratteristiche diverse.
A ben vedere, l’unica ipotesi in cui possono ritenersi effettivamente avvenuti determinati fatti in relazione ai quali la dichiarazione assume carattere confessorio, è quella di cui alla lett. f) dell’art.179 c.c., concernente l’acquisto di beni con il prezzo ottenuto dal trasferimento di altri beni personali di uno dei coniuge o con il loro scambio.
Nelle altre ipotesi di cui alle lettere c) e d) dell’art. 179 c.c., per le quali, oltre all’acquisto è, altresì, necessaria l’effettiva destinazione del bene all’uso strettamente personale del coniuge o all’esercizio della sua professione, invece, la dichiarazione del coniuge non acquirente assume diverso valore. Quando essa attesta una situazione di fatto già esistente, la dichiarazione ha valore ricognitivo ed efficacia probatoria di una confessione stragiudiziale.
Quando, al contrario, non c’è stata ancora destinazione dell’immobile ad uso personale, la dichiarazione del coniuge non acquirente non è idonea a predicare la sussistenza di tale situazione, come previsto nell’art. 2730 c.c..
All’esito dell’eventuale giudizio instaurato, infine, si pone il problema dell’opponibilità all’eventuale terzo acquirente del sopravvenuto accertamento dell’appartenenza alla comunione legale del bene venduto.
La giurisprudenza maggioritaria ritiene applicabile, in tal caso, il disposto dell’art.184, c. 1 c.c., secondo il quale gli atti compiuti da uno dei coniugi in regime di comunione legale senza il necessario consenso dell’altro coniuge, e da quest’ultimo non convalidati, sono annullabili quando riguardino i beni immobili o i beni mobili registrati elencati nell’art. 2683 c.c.
L’art. 184, c. 1, c.c. consente l’esperibilità di un meccanismo sanzionatorio che diverge dalla comune regola in materia di comunione ordinaria (art.1103 c.c.) dell’inefficacia dell’atto di disposizione realizzato da uno dei comproprietari senza la partecipazione degli altri.
Come già rilevato, infatti, a differenza di quanto previsto per la comunione ordinaria, i coniugi in regime di comunione legale non sono individualmente titolari di un diritto alla quota, ma solidalmente titolari di un diritto sui beni (art.189, comma 2 c.c.).
Milano, 10 aprile 2017
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