Sul versante del diritto amministrativo, la questione della rilevabilità ope iudicis delle nullità che inficiano l’atto amministrativo sottoposto al vaglio giudiziale, si presenta sotto molti profili di soluzione assai diversa, se non addirittura antitetica, rispetto a quanto previsto in sede processuale civile.
Tale differenziazione si è manifestata in modo netto con l’entrata in vigore del D.lgs. n. 104 del 2010, cd. Codice del Processo Amministrativo (d’ora in poi: C.p.a.).
Prima che fosse vigente il suddetto D.lgs. n. 104 del 2010, l’istituto della nullità ha trovato per la prima volta ingresso nell’Ordinamento giuridico, smettendo di essere una costruzione puramente dogmatica di dottrina e giurisprudenza, con l’art. 21 septies della Legge n. 241 del 1990, come modificata ed integrata dalla Legge n. 15 del 2005.
Tale previsione normativa, pertanto, ha positivizzato la nullità dell’atto amministrativo, facendola uscire dal cono d’ombra e dall’incertezza che la avvolgeva, per configurarla finalmente come figura a carattere generale dell’atto patologicamente viziato, e causativa dell’invalidità dello stesso.
La costruzione della disposizione di cui all’art. 21 septies ha provocato tuttavia parecchie perplessità, in quanto questa non contiene minimamente la disciplina dell’istituto de quo. La nullità amministrativa, pertanto, si presentava sguarnita di una propria disciplina a livello processuale.
Questa che di primo acchito poteva apparire come una vera e propria anomalia, è in realtà il frutto della scelta posta in essere dallo stesso legislatore. L’omettere appositamente la dimensione processuale della nullità amministrativa ha fatto sì che questa fosse “trattata” alla stregua della sua corrispondente nel processo civile, “correttamente con l’ispirazione di fondo del complessivo intervento normativo, teso ad omologare al diritto privato le regole dell’agere amministrativo” ( cfr. Caringella F., Compendio di Diritto Amministrativo, Dike, 2010, p. 425)
Essa, in pratica, si ricavava tramite forme di etero integrazione da parte del codice civile e di procedura civile. L’impiego di tale tecnica normativa di rinvio ha comportato una serie di precipitati, che hanno circoscritto fortemente l’applicabilità e la compatibilità dell’istituto della nullità in sede processuale, uno tra questi è stato il raccordo tra rilevabilità giudiziale dell’istituto e principio della domanda, nonché della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato ai sensi dell’art. 112 C.p.c.
Con il Codice del Processo Amministrativo, invece, l’impostazione cambia in modo radicale.
Sul punto fa chiarezza una recente pronuncia, significativa ed articolata, del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Sicilia (CGA), organo giurisdizionale di II grado, che nella regione Sicilia esercita le funzioni del Consiglio di Stato, a tenore della quale “il codice del processo amministrativo non è un’appendice di alcun altro codice (né di quello civile, né di quello di procedura civile) bensì un corpo autonomo di norme atto ad esprimere principi originali.” (cfr. in terminis: CGA, 27 luglio 2011, n. 721; confermata da T.A.R. Sicilia, Palermo, Sez. III, 19 dicembre 2011)
Il C.p.a., pertanto, non è sottoposto a forme di integrazione esterna, e non più in via generale e primaria, come accadeva prima della sue entrata in vigore. Certo, dichiara il Consiglio, nella richiamata pronuncia, tale corpus normativo è soggetto comunque ad applicazione analogica, ma la stessa va applicata in primis internamente ad esso, e solo ove ciò si renda indispensabile si fa rinvio alle disposizioni sulla legge in generale, precisamente alla norma di cui all’Art.12, comma 2, ove è presente il richiamo ai principi generali dell’Ordinamento giuridico, ovvero all’analogia iuris, a condizione che i principi, così richiamati, si dimostrino compatibili con quelli dello stesso processo amministrativo.
Tale meccanismo è espresso dall’Art. 39 C.p.a. che prevede solo nelle sopradette circostanze, residuali, il rinvio extra-codicistico per attuare l’etero integrazione normativa, al palesarsi di lacune, altrimenti non colmabili, nella regolazione della fattispecie concreta.
“Ciò” prosegue il Consiglio “induce a concludere che la disciplina di ogni istituto processuale va ricercata, in primo luogo, unicamente all’interno del codice del processo amministrativo; essendo consentita la sua etero-integrazione con norme o principi promananti da altri codici solo ove la fattispecie in esame non abbia alcuna disciplina all’interno del C.p.a.” (CGA, 27 luglio 2012, n.721)
Alla luce di quanto sin qui espresso, è logica conseguenza concludere che la disciplina processuale che il C.p.a. predispone all’Art. 31, comma 4, sulla nullità dell’atto amministrativo abbia poco o nulla a che vedere ormai con la sua figura omologa di matrice civilistica.
Al fine di dare contezza della portata di questa asserzione, è necessaria una ponderata analisi della disposizione richiamata del C.p.a., proprio per evidenziare le differenze tra i due istituti in sede processuale civile e processual-amministrativa.
L’Art. 31 C.p.a., infatti, disciplina contestualmente due figure per vero assai diverse tra loro: l’azione avverso il silenzio e la declaratoria di nullità dell’atto. Questo è dovuto alla genesi storica che tale articolo ha ricevuto.
E’ possibile desumere, infatti, analizzando i lavori preparatori al C.p.a., nella fase finale e definitiva della sua stesura, come si fosse reso necessario inserire un’apposita norma disciplinante processualmente la nullità dell’atto amministrativo “in esito ai pareri resi dalle competenti commissioni parlamentari ai sensi dell’Art. 44 della Legge 18 giugno 2009, n.69 ” (CGA, 27 luglio 2012, n. 721), prevedendola nella sua plurima veste di azione, eccezione, e rilevabilità d’ufficio del giudice. Tale esigenza era sostenuta da molte parti, in questa fase della nascita del nuovo codice, proprio in visione dell’auspicata attuazione di una piena effettività della tutela riservata all’interesse legittimo, eliminando così l’incertezza che da sempre aveva contraddistinto l’azione giudiziale legata a tale istituto sul piano processuale.
I pareri delle commissioni parlamentari, però, giunsero a soli pochi giorni dal termine di scadenza della legge-delega n. 69 del 2009. Il Codice, quindi, ormai pronto, dovette essere rielaborato in velocità, optandosi così per l’aggiunta di un comma, il 4 comma appunto, all’Art. 31, per dare ingresso all’istituto della nullità dell’atto amministrativo anche processualmente.
Più ragionevole, da un punto di vista di chiarezza e sistematicità tra le norme, sarebbe stato coniare un apposito articolo che riguardasse tale istituto, anche se questo avrebbe sicuramente comportato ulteriori attività, richiedendo inevitabilmente più tempo di quello a disposizione, come, tra gli altri, la necessità di dover adeguare al nuovo articolo, che si sarebbe così dovuto inserire, tutti i rinvii già contenuti nel Codice, con il rischio di porgere il fianco ad inesattezze cagionate dalla fretta.
L’inserimento del comma 4 all’Art. 31 C.p.a. è stato dunque dettato da mere esigenze di opportunità, dovute all’incalzare del termine di scadenza della delega. L’Art. 31 C.p.a. si presentava essere a questo scopo il più adatto in quanto sia la declaratoria di nullità che la pronuncia sul silenzio hanno natura eminentemente dichiarativa. Questo però è l’unico elemento unificatore, tra i due giustapposti istituti, rendendosi necessario precisare che tale comma non va assolutamente letto od interpretato alla luce di quelli che lo precedono.
Esso, infatti, prevede che “la domanda volta all’accertamento delle nullità previste dalla legge si propone entro il termine di decadenza di centottanta giorni. La nullità dell’atto può però essere opposta dalla parte resistente o essere rilevata d’ufficio dal giudice”, ottenendo di conseguenza una pronuncia dichiarativa per le ipotesi previste dall’Art. 21 septies della L. 241 del 1990.
Dal testo della norma si deduce, in effetti, come sia complesso l’impianto di rilevabilità processuale della nullità inficiante l’atto amministrativo, consistendo principalmente in tre forme: la prima (primo periodo, comma 4, art. 31 C.p.a.) contenuta nella domanda presentata dalla parte ricorrente, la quale la esercita così in via di azione, sottoposta ad un termine decadenziale lungo di centottanta giorni, che si dimostra triplo rispetto a quanto previsto per quello ordinario ex Art. 29 C.p.a., ovvero di sessanta giorni, e che, invece, disciplina l’azione di annullamento.
Questo termine decadenziale ha diversificato ampiamente il regime della nullità civilistica da sempre imprescrittibile, salve eccezioni, da quella amministrativa. Alcuni autori hanno addirittura ravvisato che tale termine lungo rappresentasse una sorta di “super-annullabilità” dell’atto, poiché la previsione come presentata pare avvicinarsi maggiormente al termine per l’azione di annullamento ex Art. 29 C.p.a., piuttosto che a quanto stabilito dall’art. 2379 c.c., cd. nullità atipica, in materia di diritto commerciale, il quale predispone un termine di tre anni al fine di poter validamente esercitare l’azione di nullità nelle delibere societarie.
La seconda forma codificata di rilevabilità della nullità in sede processuale amministrativa è quella sollevata dalla parte resistente in via di eccezione (cd. impropria), secondo periodo del comma 4, Art. 31 C.p.a., ed opposta al ricorrente. Essa non è soggetta a termine alcuno e pertanto per voluntas legis, imprescrittibile, secondo il principio di ordine generale espresso dal broccardo “quae temporalia ad agendum, perpetua ad accipiendum”.
La terza forma, quella che più interessa ai fini di questa analisi, è quella rilevata d’ufficio dal giudice investito della causa. Verso l’organo giudiziale essa costituisce un potere-dovere dello stesso “il cui esercizio è sempre obbligatorio, mai facoltativo, come corollario del ruolo di imparziale garante dell’esatta applicazione delle regole processuali che la legge gli ha assegnato” (CGA, 27 luglio 2012, n 721). Anche in questo caso non vi è stata da parte del legislatore l’apposizione di termini e la sua rilevabilità è pertanto perpetua.
Ciò risulta ancora più vero considerando il fatto che la nullità rilevabile ex officio è di tipo testuale, ovvero disciplinata direttamente dalla legge, come ravvisa lo stesso Art. 31 C.p.a. In tali circostanze, il giudice non potrà esimersi dal dichiarare la nullità qualora la rinvenga.
Non si può non notare, dunque, come la terza forma prevista dal 4 comma dell’Art. 31 C.p.a., costituisca di fatto una deroga all’impostazione strutturalmente soggettiva della giurisdizione amministrativa, costituendo piuttosto una parentesi di giurisdizione oggettiva che in essa si inserisce. Sul punto il CGA, nella sentenza più volte richiamata, ha ritenuto ulteriormente che il comma 4 dell’Art. 31 C.p.a., non debba però considerarsi norma fuori dal sistema codicistico, atteso che essa concorda perfettamente con i principi informatori del processo amministrativo, il quale pur tuttavia presenta una struttura atta a conoscere di situazioni giuridiche soggettive, collegate al sotteso interesse legittimo fatto valere dalla parte.
La rilevabilità della nullità ope iudicis nel processo amministrativo, pertanto, essendo riconosciuta dal legislatore stesso la necessità di salvaguardia dell’interesse pubblico generale che soggiace ad esso non potrà essere considerata “come i diritti soggettivi, di norma disponibili, di cui conosce nel processo civile”.
E’ proprio questa, dunque, la parentesi di tipo oggettivo, di cui si diceva poc’anzi, e che a sua volta costituisce un ulteriore profilo che differenzia la rilevabilità d’ufficio in sede civile da quella processuale amministrativa.
Alla luce di quanto sin qui ricostruito, il potere – dovere di intervenire d’ufficio per l’organo giudicante se posto in relazione al principio della domanda ex Artt. 99 e 112 C.p.c., comporterà dunque delle conseguenze alquanto diverse a seconda di quale ramo processuale del diritto si prenda in considerazione.
Nel processo civile, il principio della domanda si atteggia quale limite giudiziale alla rilevabilità stessa della nullità del contratto ( cfr. in terminis: Cass. civ, 27 aprile 2011, n. 9395; Cass. civ., 7 febbraio 2011, n. 2956). In tale sede, infatti, chi è chiamato a giudicare è tenuto al rigoroso rispetto del principio dispositivo anche alla luce dei principi enunciati dall’Art.111 Cost. Sotto questo profilo, pertanto, i poteri del giudice civile risultano alquanto circoscritti.
Non è così, invece, per il giudice amministrativo, che come già argomentato, è investito del dovere-potere di rilevare la nullità in via autonoma. Il comma 4 dell’Art. 31 C.p.a., non è dunque soggetto alle restrizioni che si rinvengono in sede civilistica, in ordine alla rilevabilità d’ufficio della nullità, non subendo alcuna influenza dal codice processuale civile.
Tale risultato spiega il CGA, nella richiamata sentenza, è piuttosto “espressione di un principio diverso ed antitetico rispetto a quello dispositivo, che permea di sé tutto il processo civile”, e che non involge allo stesso modo quello amministrativo.
In conclusione, nel processo amministrativo sarà sempre possibile il rilievo ope iudicis della nullità dell’atto, senza incorrere nel rischio di extra o ultrapetita così come disciplinati dall’Art. 112 C.p.c.
Scrivi un commento
Accedi per poter inserire un commento