La discrezionalità amministrativa

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Approfondimento sulla discrezionalità amministrativa.

Per approfondire, si consiglia il seguente volume che consente di cogliere i modi concreti in cui il diritto amministrativo opera e interviene sulle situazioni reali: Il diritto amministrativo nella giurisprudenza

Indice

1. La discrezionalità amministrativa ed il merito nel diritto amministrativo

La discrezionalità amministrativa ha da sempre sviluppato un acceso dibattito, da qui l’opportunità di approfondire il tema dapprima individuando i caratteri della discrezionalità dal punto di vista storico-dottrinale, per poi analizzarne i contorni attuali.
Infine, appare opportuno analizzare il rapporto tra discrezionalità amministrativa e sindacato del Giudice Amministrativo, analizzando i margini di sindacabilità e i limiti della stessa.
L’impossibilità di regolare in maniera predeterminata ogni fattispecie concreta, anche al fine di non pregiudicare le esigenze di flessibilità dell’azione amministrativa alla base del principio di buon andamento ex art. 97 Cost., fa sì che la discrezionalità possa rappresentarsi come il perno attorno al quale ruota l’azione della pubblica amministrazione.
Preliminarmente, occorre definire la discrezionalità, anche per contrasto alla attività vincolata; innanzitutto va detto che discrezionalità amministrativa non significa arbitrio, dovendo comunque la P.A. perseguire le finalità pubbliche.
Con il termine discrezionalità si suole indicare il potere, riconosciuto all’Autorità, di compiere una scelta tra le diverse scelte possibili, o meglio il potere della pubblica amministrazione di adottare una decisione effettuando, in base alla legge, una scelta fondata sulla ponderazione di un interesse qualificato come primario rispetto ad interessi cosiddetti secondari, siano essi pubblici, privati o anche collettivi.
È, inoltre, possibile individuare i tratti essenziali della discrezionalità; in primo luogo, la Pubblica Amministrazione deve trovarsi in una situazione in cui può operare attraverso possibili scelte, poiché di contro si verserebbe in una situazione di vincolatività, quale condizione opposta alla discrezionalità.
Di conseguenza, la scelta deve palesarsi come libera in tutti o parte di quegli elementi che caratterizzano la discrezionalità, ovverosia l’an, inerente alla possibilità di emanare o non un dato provvedimento, il quando, relativo alla scelta del momento in cui emanare il provvedimento, il quomodo, riferito alle modalità di esternazione del provvedimento ed ai relativi ed eventuali elementi accidentali a corredo e, infine, al quid, che interessa il contenuto del provvedimento.
In secondo luogo, la scelta essere fatta in merito ai vari comportamenti giuridicamente leciti che possano adottarsi, sempre all’interno della necessità di soddisfare l’interesse pubblico predeterminato dal legislatore, quale limite invalicabile della discrezionalità amministrativa.
In successione, la P.A. è chiamata, in ogni caso, a perseguire il fine che corrisponda a quello per il quale il potere da esercitarsi gli è stato conferito dalla legge, garantendo la corrispondenza tra causa del potere esercitato e finalità dell’azione amministrativa.
Infine, l’ultimo tratto caratterizzante la scelta discrezionale è quello relativo alla comparazione ponderata del primario interesse pubblico rispetto all’interesse secondario, su cui deve impattarsi con il minor sacrificio possibile.
Se questa è la definizione dei caratteri della discrezionalità in positivo, vanno poi individuati anche i limiti della stessa.
Tali limiti possono atteggiarsi sia come negativi, sia come positivi; il limite negativo è dato dalla liceità dei fini inerenti alla funzione amministrativa, mentre il limite positivo si rinviene nella legge che fissa le finalità che la P.A. è chiamata a realizzare.
Un ulteriore limite, seppure successivo alla avvenuta scelta discrezionale della P.A., inerisce al progressivo ampliamento sull’esercizio della discrezionalità del controllo del giudice amministrativo.
Quest’ultimo, infatti, pur limitato dalla impossibilità di sostituirsi alle valutazioni adottate dalla pubblica amministrazione, è chiamato comunque alla verifica della correttezza dell’esercizio del potere discrezionale da parte dell’amministrazione procedente.
Tuttavia, come già osservato in precedenza, l’agire secondo discrezionalità non va confuso con una azione al di fuori o oltre i limiti di legge, consistendo invece nella possibilità di eseguire una adeguata ponderazione degli interessi coinvolti.
Prima dell’ingresso nel panorama normativo della legge sul procedimento amministrativo, il concetto di discrezionalità veniva rappresentato come espressione della libertà della P.A. di agire nel perseguimento dell’interesse pubblico con divieto di ingerenza da parte degli altri poteri dello Stato.
L’avvento della legge generale sul procedimento (legge n. 241/1990) ha arricchito la definizione di discrezionalità, individuandosi nello stesso procedimento amministrativo la sede naturale dove viene esercitata la discrezionalità.
Alla luce della legge n. 241/1990, pertanto, la discrezionalità viene intesa come la possibilità di scelta, tra più condotte, tutte ugualmente legittime, di quella maggiormente idonea al raggiungimento dell’interesse pubblico primario, per il tramite di una comparazione di esso con gli ulteriori interessi coinvolti.
Per approfondire, si consiglia il seguente volume che consente di cogliere i modi concreti in cui il diritto amministrativo opera e interviene sulle situazioni reali:

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Il diritto amministrativo nella giurisprudenza

Il volume raccoglie 62 pronunce che rappresentano significativamente i principi fondamentali, gli istituti e le regole del diritto amministrativo sostanziale e processuale; fornendo – anzitutto agli studenti – uno strumento che consente di cogliere la sostanza di quanto nei manuali viene descritto in termini generali e, in definitiva, i modi concreti in cui il diritto amministrativo opera e interviene sulle situazioni reali. La suddivisione degli argomenti ricalca, in via di massima, lo schema seguito nelle trattazioni manualistiche. Per ogni argomento si esaminano una o due decisioni, rese in sede giurisdizionale o anche consultiva. La struttura di ciascun contributo è così articolata: il quadro generale; la vicenda; la sentenza o il parere; il commento; la bibliografia di riferimento. Nei contributi in cui vengono esaminate due decisioni, lo schema “la vicenda – la sentenza (o il parere) – il commento” si ripete per entrambe. IL QUADRO GENERALE tende precisamente a collocare la singola pronuncia nel contesto dei principi e delle regole che la riguardano, anche con rinvio ad essenziali riferimenti di dottrina. Segue, quindi, LA VICENDA, vale a dire la descrizione dei fatti da cui trae origine la controversia. I fatti sono talora noti, riferendosi a vicende importanti, oggetto di attenzione da parte dei media; in altri casi, sono invece eventi di minore importanza, capitati a cittadini comuni in circostanze ordinarie. Si tratta, comunque, di casi che si presentano particolarmente idonei ad evidenziare profili rilevanti del diritto amministrativo. Nella parte concernente LA SENTENZA o IL PARERE, poi, viene riportato un estratto della pronuncia del giudice (Consiglio di Stato, T.A.R., Cassazione, Corte costituzionale) che risolve la questione. Infine, IL COMMENTO tende a fornire qualche elemento per collocare la pronuncia nel contesto più generale della giurisprudenza, segnalando se l’orientamento adottato si presenti, rispetto ai precedenti, pacifico o quanto meno prevalente, o se sia all’opposto minoritario o, ancora, se si tratti di un caso privo di precedenti. Al termine di ogni contributo, nella BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO è fornito un elenco essenziale delle opere bibliografiche richiamate nel testo, secondo il modello di citazione “all’americana”. Marzia De Donno Ricercatrice TD B di Diritto amministrativo, Università degli studi di Ferrara. Gianluca Gardini Professore ordinario di Diritto amministrativo, Università degli studi di Ferrara. Marco Magri Professore ordinario di Diritto amministrativo, Università degli studi di Ferrara.

A cura di Marzia De Donno, Gianluca Gardini e Marco Magri | Maggioli Editore 2022

2. Discrezionalità e merito dopo la l.n. 241/1990

Dopo l’entrata in vigore della legge sul procedimento amministrativo, la discrezionalità amministrativa ha visto meglio definiti i suoi contorni, dovendosi armonizzare con i criteri di economicità ed efficienza previsti dall’art.1, comma 1, che si pongono come fondamento del carattere precettivo delle regole di buona amministrazione.
A tanto si deve aggiungere che anche le norme a favore della partecipazione all’azione amministrativa, della trasparenza (pubblicità ed obbligo generale di motivazione) e dell’imparzialità dell’organo procedente vanno ad incidere ed a limitare i concetti di discrezionalità e merito.
Fra tutti, è opportuno segnalare il riflesso che l’art. 3 della legge 241 ha avuto sulla discrezionalità; tale articolo statuisce l’obbligo di motivazione nel momento dell’esercizio del potere discrezionale attraverso l’emanazione del provvedimento finale.
Tale obbligo appresenta, quindi, lo strumento attraverso il quale consentire la verifica del legittimo esercizio della discrezionalità amministrativa, nonché il mezzo attraverso il quale il giudice verifica la correttezza e la legittimità del potere discrezionale.
Altra valutazione riguarda la specificazione del concetto di “discrezionalità tecnica”;con tale locuzione si indica comunemente quel margine che la norma lascia all’applicazione di nozioni tipiche di una disciplina tecnica.
In tal caso, il richiamo alla discrezionalità è fondato sulla convinzione che le valutazioni tecniche debbano ricondursi al merito amministrativo e dunque dar vita ad una sorta di discrezionalità di minore ampiezza.
La discrezionalità tecnica verrebbe così a caratterizzarsi, rispetto a quella amministrativa, in quanto non riguardante valutazioni inerenti all’interesse pubblico, bensì, relative alle regole delle discipline tecniche.
Alla stregua di quanto osservato, la discrezionalità tecnica ricorre, pertanto, quando il giudizio che è richiesto all’autorità amministrativa deve essere espresso alla stregua di conoscenze specialistiche o di regole, canoni o criteri non giuridici, ma scientifici; pertanto, tale tema si pone all’interno di una più ampia relazione fra diritto e tecnica, relazione che risulta quanto più problematica laddove i fatti da valutare presuppongano procedimenti e regole specialistiche.
Ulteriore concetto esaminato è stato quello di discrezionalità mista o complessa; quest’ultima non rappresenta un terzo genere di discrezionalità, distinta da quella amministrativa pura e da quella tecnica, bensì una forma intermedia che si realizza quando alla P.A. sono riconosciute entrambe le tipologie di discrezionalità, destinate tuttavia a restare distinte e ad essere esercitate in momenti diversi.

3. Sindacabilità in sede giurisdizionale degli atti discrezionali

Dopo aver esaminato le diverse sfumature della discrezionalità è opportuno concludere l’approfondimento suddetto, attraverso l’analisi del tema della sindacabilità in sede giurisdizionale degli atti discrezionali.
Premesso che si rende sempre necessario consentire al giudice amministrativo il necessario sindacato di legittimità sull’azione amministrativa, per verificare sia il rispetto delle regole di volta in volta puntualizzate dalla norma che attribuisce il potere discrezionale, sia la conformità dell’azione amministrativa a quelli che sono i principi che indirizzano l’esercizio del potere pubblico, è opportuno ribadire come il sindacato del giudice amministrativo nei confronti dell’azione della P.A. possa comportare una differente intensità in funzione della tipologia di attività, sia essa vincolata o discrezionale, concretamente messa in essere dalla stessa pubblica amministrazione.
Laddove si tratti di attività discrezionale, il sindacato giurisdizionale non potrà, fatto salvo il caso tipizzato dal legislatore, andare oltre la valutazione di quelli che sono i profili di legittimità dell’azione amministrativa, poiché la valutazione dei profili di merito dell’azione amministrativo nel caso concreto risulta esclusivamente rimessa alla pubblica amministrazione procedente.
Sul punto, va incidentalmente osservato come, in seguito alla entrata in vigore del Codice del processo amministrativo, le ipotesi che consentono al giudice di pronunciarsi anche nel merito sono previste dall’art. 134 c.p.a.
In ogni caso, il giudizio di merito non comporta una totale rinnovazione della scelta discrezionale dell’Amministrazione, presentandosi, piuttosto, come carattere eccezionale della statuizione in merito alla pretesa del ricorrente.
In altri termini, con la giurisdizione estesa al merito, si opera una diversa ponderazione tra le esigenze di tutela della situazione soggettiva e quelle di tutela degli interessi pubblici.
Al di là di quanto sopra riportato, l’ipotesi più diffusa di giurisdizione estesa al merito resta comunque il giudizio di ottemperanza, disciplinato dagli art. 112 e ss.
In linea generale, l’esercizio dell’attività discrezionale della Pubblica Amministrazione può essere sottoposta, in sede giurisdizionale, al sindacato esterno del giudice; invero, tale sindacato, al di là dei vizi della violazione di legge e del difetto assoluto di potere, si intende limitato alla verifica della conformità del provvedimento amministrativo adottato ai limiti generali del potere discrezionale, la cui inosservanza può determinare l’illegittimità del provvedimento sotto il profilo dell’eccesso di potere.
Limitando il campo di analisi proprio all’ambito della discrezionalità amministrativa, si può dire che l’eccesso di potere è, infatti, da considerarsi quale idoneo criterio per valutare l’attività discrezionale amministrativa, ritendendosi tale valutazione come strumento di verifica giudiziale del corretto esercizio del potere discrezionale.
Pertanto, proprio attraverso la figura sintomatica dell’eccesso di potere è consentita una valutazione dell’attività in ordine alla discrezionale amministrativa, facendo sì che l’autorità giudiziaria possa verificare il corretto esercizio del potere discrezionale.
La valutazione dell’eventuale presenza di un vizio di eccesso di potere che consente al giudice amministrativo di operare un sindacato più penetrante e incisivo in ordine all’esercizio del potere discrezionale; in tal caso, la verifica del rispetto dei criteri di preordinazione dell’esercizio dell’azione amministrativa alla cura dell’interesse pubblico, di logicità, di razionalità e di uguaglianza, che devono informare il potere discrezionale, consente di effettuare un giudizio che spesso si pone ai confini del merito amministrativo.
L’esistenza di vizi che inficiano il provvedimento amministrativo consente al giudice amministrativo, in sede di accoglimento del ricorso, di annullare, sebbene anche solo in parte, il provvedimento impugnato.
Nello specifico, la sentenza di annullamento determina la caducazione dell’atto oggetto dell’impugnazione, senza la possibilità per il giudice, fatti salvi i casi in cui la giurisdizione sia estesa al merito, di sostituirsi alla pubblica amministrazione.
Invero, spetta alla stessa amministrazione esercitare il relativo potere e provvedere nuovamente in considerazione dei rilievi enucleabili dalla sentenza di annullamento.
Laddove, di contro, la pubblica amministrazione non conformi l’esercizio del potere attraverso l’emanazione di un nuovo atto rispettoso dei rilievi contenuti nella sentenza, si rende possibile l’esercizio del ricorso per l’ottemperanza e la conseguente nomina di un commissario ad acta, quale ausiliario del giudice.
Tanto discende non solo dalla mancata ottemperanza di una sentenza passata in giudicato, ma anche con riferimento alle sentenze di primo grado, le quali sono immediatamente esecutive.
Tale situazione, da un lato, comporta un effetto preclusivo, consistente nel divieto per l’amministrazione di rinnovare l’atto annullato; dall’altro comporta un effetto ripristinatorio, in quanto l’unica possibilità per il soddisfacimento delle pretese del ricorrente è l’emanazione di un altro atto.
Importante, tuttavia, è la novella della legge 11 settembre 2020, n. 120 la quale, introducendo l’art. 21 decies della legge 7 agosto 1990, n. 241, consente all’amministrazione, in seguito all’annullamento giurisdizionale passato in giudicato di un suo provvedimento, di intervenire adottando nuovamente gli atti da cui deriva l’illegittimità del provvedimento finale, facendo salve le attività già compiute nel procedimento.
In ogni caso, il giudicato sull’annullamento dell’atto amministrativo presenta sia carattere demolitorio e ripristinatorio, sia conformativo della successiva attività amministrativa.
Tale rilievo si riscontra in modo particolarmente evidente nei giudizi per l’ottemperanza.
Laddove vi sia un’inerzia dell’amministrazione tenuta all’esecuzione, il giudice amministrativo si sostituisce ad essa, anche attraverso la nomina di un commissario ad acta, in modo da soddisfare l’interesse sostanziale del ricorrente ed adeguando, quindi, la situazione di fatto a quella di diritto.
Nel giudizio di ottemperanza l’estensione della giurisdizione al merito amministrativo appare evidente, tanto che si consente al giudice di porre in essere un’attività sostitutiva, laddove la P. A. non si sia conformata spontaneamente.
Il giudice, infatti, in caso di accoglimento del ricorso in ottemperanza, ordina un determinato facere alla P.A., disciplinandone le specifiche modalità esecutive, anche individuando il contenuto del provvedimento o la sua emanazione in luogo dell’amministrazione.
Ancora, laddove sia necessario garantire l’ottemperanza di sentenze non passate in giudicato o di altri provvedimenti, il giudice può stabilire le modalità dell’esecuzione, considerando inefficaci gli atti emessi in violazione o elusione.
L’azione di ottemperanza è quindi esperibile in tutti quei casi in cui vi sia una difformità, intesa come mancata o inesatta attuazione, tra le modalità di riesercizio del potere amministrativo ed il giudicato stesso.
Di conseguenza, laddove ci sia un nuovo provvedimento adottato in presunta violazione o elusione del giudicato, il compito del giudice dell’ottemperanza sarà quello di interpretare il giudicato, definendone la portata descrittiva, e confrontarlo poi con l’atto adottato, al fine di valutarne la presunta difformità.
Di contro, il potere del giudice dell’ottemperanza si arresta laddove dall’attività di confronto sopra evidenziata non si rinvengano atti elusivi o di violazione del giudicato.
In conclusione, il merito amministrativo deve porsi al di fuori della sindacabilità giurisdizionale, proprio per evitare una indebita ingerenza del potere giurisdizionale rispetto a quello amministrativo, mentre sarà possibile esclusivamente un sindacato cosiddetto esterno rispetto all’azione amministrativa, fondandosi lo stesso sui criteri di logicità e congruità rispetto ai quali deve uniformarsi la Pubblica amministrazione nel momento in cui va ad operare il bilanciamento degli interessi in gioco.
Tuttavia, come sostenuto dalla giurisprudenza maggioritaria, si può invece ammettere una sindacabilità intrinseca di tipo debole del provvedimento amministrativo basato sull’esercizio della discrezionalità tecnica.
Si tratterebbe, infatti, di un sindacato avente ad oggetto la valutazione dell’attendibilità delle operazioni tecniche svolte rispetto al criterio tecnico utilizzato.
Tale soluzione consente il rispetto del principio di separazione dei poteri.

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