precedenti giurisprudenziali: Cass., Sez. 2, Sentenza n. 867 del 23/01/2012
La vicenda
Un condomino richiedeva la divisione dell’area condominiale adibita a parcheggio antistante il fabbricato. Il tribunale disponeva la materiale ripartizione dell’area in base alla planimetria redatta dal c.t.u., assegnandone una porzione a ciascuno dei condomini e disponendo le modalità di separazione. Un condomino – che si era sempre opposto alla divisione dell’area comune sopra detta – impugnava la decisione del Tribunale, ritenendola errata per palese violazione dell’art. 1119 c.c. che nella nuova formulazione richiede il consenso di tutti i partecipanti al condominio. La Corte d’Appello però confermava la decisione di primo grado. Il condomino allora ricorreva in cassazione.
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La questione
Il nuovo articolo 1119 c.c. condiziona la divisibilità delle parti comuni al requisito del consenso di tutti i condomini?
La soluzione
Secondo la Cassazione il nuovo articolo 1119 c.c. non impedisce affatto la divisione giudiziale in mancanza di consenso di tutti i partecipanti.
I giudici supremi infatti notano come i documenti preparatori dell’art. 1119 c.c., sia in riferimento alle prime versioni della norma sia in riferimento alla versione finale, chiariscano oltre ogni dubbio la ratio della norma come rapportabile alla sola divisione volontaria (voluta da tutti i condomini), non a quella giudiziaria.
In particolare precisano come il legislatore abbia inteso lasciare aperta la possibilità di una divisione giudiziaria, quando ‘la divisione possa farsi senza rendere più incomodo l’uso della cosa a ciascun condomino’, aggiungendo il requisito del ‘consenso’ di tutti i partecipanti per sola la divisione volontaria; tale scelta è coerente con gli orientamenti dottrinali e giurisprudenziali precedenti alla riforma del condominio che escludevano del tutto la divisione delle parti comuni dalle competenze assembleari, facendo rifluire l’atto divisionale nell’ambito dell’autonomia privata; si tratta cioè di un accordo ‘di tutti i partecipanti al condominio’ (ma non si è utilizzato il concetto di unanimità, che pure indirettamente avrebbe rinviato a un procedimento deliberativo condominiale).
In definitiva, per i giudici supremi l’art. 1119 c.c., nel nuovo testo come modificato dalla L. 11 dicembre 2012, n. 220, va interpretato nel senso che ‘le parti comuni dell’edificio non sono soggette a divisione’, a meno che – per la divisione giudiziaria – la divisione possa farsi “senza rendere più incomodo l’uso della cosa a ciascun condomino” e – per la divisione volontaria – a meno che non sia concluso un contratto che riporti, in scrittura privata o atto pubblico, il “consenso di tutti i partecipanti al condominio” (quest’ultimo requisito non essendo richiesto per la divisione giudiziaria).
Tale interpretazione – ad avviso della Cassazione – è l’unica che consente di osservare il significato letterale del testo e, a un tempo, garantire la coerenza logica del sistema.
Le riflessioni conclusive
Secondo l’art. 1119 c.c. (Indivisibilità) le parti comuni dell’edificio non sono soggette a divisione, a meno che la divisione possa farsi senza rendere più incomodo l’uso della cosa a ciascun condomino e con il consenso di tutti i partecipanti al condominio.
Bisogna però considerare che è rimasto immutato l’art. 61 disp. att. c.c., secondo cui qualora un edificio o un gruppo di edifici appartenenti per piani o porzioni di piano a proprietari diversi si possa dividere in parti che abbiano le caratteristiche di edifici autonomi, il condominio può essere sciolto e i comproprietari di ciascuna parte possono costituirsi in condominio separato.
Lo scioglimento è deliberato dall’assemblea con la maggioranza prescritta dell’art. 1136 c.c., comma 2, o è disposto dall’autorità giudiziaria su domanda di almeno un terzo dei comproprietari di quella parte dell’edificio della quale si chiede la separazione.
Tale norma consente che un unico edificio o più edifici in condominio subiscano una scissione in più condomini; tale operazione è possibile in via giudiziale anche ad iniziativa di un terzo dei comproprietari separatisti e cioè di un gruppo anche esiguo di persone. In ogni caso il comma 1 del successivo art. 62, stabilisce che la disposizione del comma 1 dell’articolo precedente si applica anche se restano in comune con gli originari partecipanti alcune delle cose indicate dall’art. 1117 c.c.’; tale disposizione conferma che le parti comuni possano ordinariamente dividersi.
Quindi è possibile che pochi condomini richiedano la divisione giudiziale del condominio o del supercondominio per dar vita a due o più caseggiati autonomi: tale soluzione implica la divisione di parti comuni senza il consenso di tutti condomini.
Per coerenza agli articoli 61 e 62 disp att. c.c sopra visti, si deve ritenere che anche la divisione giudiziale di una parte comune (che è operazione più semplice rispetto allo scioglimento del condominio) possa realizzarsi senza il consenso di tutti i condomini.
Al contrario per la divisione volontaria da realizzarsi mediante scrittura privata o atto pubblico, il ‘consenso di tutti i partecipanti al condominio’ è indispensabile.
La divisione volontaria però potrebbe risultare difficile da realizzare: raggiungere l’unanimità, infatti, non è cosa agevole, specie nei condomini più numerosi. Così la stessa norma del codice apre la possibilità alla cosiddetta divisione giudiziale, ossia mediante ricorso al giudice. Se manca il consenso di tutti i condomini, il singolo interessato alla divisione può chiedere al tribunale di dividere un bene in comune a condizione che ciò possa farsi «senza rendere più scomodo l’uso della cosa comune a ciascun condomino».
Infatti non si può procedere alla divisione giudiziale quando le singole porzioni della cosa già comune non sarebbero idonee a svolgere il servizio ai beni esclusivi con la stessa qualità garantita dal bene comune indiviso;
Tale situazione, sotto l’aspetto strutturale, comporta che il frazionamento del bene sia attuabile mediante determinazione di porzioni concrete suscettibili di autonomo e libero godimento da parte di ciascun condomino, che possano formarsi senza dover fronteggiare problemi tecnici eccessivamente costosi.
In altre parole il criterio della comodità d’uso previsto l’art. 1119 c.c. quale parametro per accertare la divisibilità o meno delle parti comuni, impone di prendere in considerazione, innanzitutto, la consistenza originaria del bene comune, sia dal punto di vista funzionale – da privilegiare rispetto quello meramente materiale – sia dal punto di vista delle utilità che, per effetto della divisione, ciascun singolo condomino ricaverebbe, paragonandole a quelle che, al contrario, ciascuno poteva ricavare dalle stesse prima della divisione.
Ciò chiarito il numero dei beni divisibili si presenta, in realtà, molto limitato, se solo si pensi agli impianti di interesse condominiale (riscaldamento, acqua, fognature, ecc.), che costituiscono un complesso unitario ed inscindibile; infatti i vari elementi di cui sono costituiti, se separati, non risultano più idonei ad assolvere alla funzione primaria dell’impianto medesimo, ma lo stesso discorso può farsi anche per le altre cose comuni (ad esempio, è impensabile parlare di separazione dell’androne di ingresso all’edificio).
Allo stesso modo la Cassazione in una sentenza (Cass. civ., sez. II, 23/02/2007, n. 4219) ha confermato la decisione di merito che aveva escluso la possibilità di dividere un sottotetto comune in quanto per realizzare tale risultato sarebbe state necessarie opere ingenti (e cioè la costruzione di muri divisori e scale, accessi al tetto, la costituzione indispensabile di vie di accesso all’antenna televisiva, all’abbaino, al tetto dell’ascensore e alle parti comuni raggiungibili attualmente tramite la soffitta, l’imposizione di servitù ecc.).
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