La filiazione dopo la legge 10 dicembre 2012 n.219

Fin dalle prime discussioni fu evidente che la legge 10 dicembre 2012 n.219 avrebbe segnato una svolta nell’ordinamento giuridico italiano in materia di filiazione, realizzando finalmente quello che da tempo in molti chiedevano: l’uguaglianza tra figli nati all’interno del matrimonio e figli nati al di fuori del matrimonio o adottivi.

Se l’art.74 del codice civile definiva, infatti, la parentela come “il vincolo tra persone che discendono da uno stesso stipite”, il nuovo testo dello stesso articolo, introdotto con l’art.1 della L. 10 dicembre 2012 n. 219, sottolineerà che tale vincolo non sorge solo nel caso di figli nati all’interno del matrimonio ma anche se la filiazione sia avvenuta al di fuori del matrimonio o in caso di figli adottivi.

Si tratta di una innovazione nell’ordinamento giuridico italiano in quanto fino ad ora i figli nati al di fuori del matrimonio non erano legati da alcun vincolo ai parenti paterni (es. zii, nonni).

Viene introdotta una ulteriore innovazione con la modifica del testo dell’art.315 cc dove viene riconosciuto a tutti i figli lo stesso stato giuridico. Il figlio ha il diritto di crescere in famiglia e di mantenere rapporti significativi con i parenti. A tale scopo la legge attribuisce ai nonni la possibilità di agire in giudizio per far valere il diritto dei nipoti alla continuità del rapporto con i nonni.

Una riforma quindi che va ad interessare la materia della filiazione andando ad abbattere le disuguaglianze esistenti nell’ordinamento giuridico. Non si farà più riferimento a figli legittimi e figli naturali ma a figli nati all’interno del matrimonio e figli nati al di fuori del matrimonio. Con il riconoscimento a tutti i figli dello stesso stato giuridico, lo Stato riconosce a tutti i figli gli stessi diritti, soprattutto in materia di successioni. La mancanza di un riconoscimento della parentela collaterale si ripercuoteva infatti sui diritti ereditari. I figli legittimi e naturali succedevano in parti uguali al genitore premorto. Solo i figli naturali del defunto però potevano ereditare, mentre esclusi erano gli ascendenti naturali e i fratelli ele sorelle naturali del defunto, i quli ereditavano solo in assenza di parenti legittimi fino al 6° grado e prima dello Stato (art.565 cc). Bastava quindi la presenza di un cugino per escludere la successione di un fratello naturale.

La nozione di “potestà genitoriale” viene sostituita con quella di “responsabilità genitoriale”.

Viene abbassato da 16 a 14 anni il limite di età entro cui occorre il consenso del minore per il riconoscimento e viene riformato anche il procedimento di riconoscimento del figlio in caso di opposizione dell’altro genitore. La nuova formulazione della norma prevede una procedura più snella e veloce. Viene inoltre riconosciuta anche ai genitori con età inferiore ai 16 anni, e previo consenso del giudice, di riconoscere i propri figli.

Il legislatore ha inoltre riconosciuto al minore il diritto ad essere ascoltato nei procedimenti che lo riguardano. Il minore non sarà più un mero soggetto delle decisioni dell’autorità giudiziaria ma rivestirà un ruolo attivo.

La novità più rilevante però è stata introdotta dall’art.3 della legge in oggetto, il quale riconosce la competenza per tutte le questioni inerenti l’affidamento ed il mantenimento dei figli minori al Tribunale ordinario, anche quando i genitori non siano uniti in matrimonio.

Una ulteriore innovazione apportata da questa riforma è la previsione che possano essere riconosciuti dai genitori anche i c.d. “figli incestuosi”, ossia figli nati da genitori legati da vincoli di parentela, mentre anteriormente i figli incestuosi non potevano essere riconosciuti dai genitori salvo che questi fossero in buona fede, ossia ignorassero il vincolo di parentela. Sull’argomento vi fu da subito polemica poiché secondo alcuni esponenti politici questa norma andrebbe a legittimare l’incesto.

Sulla questione era già intervenuta la Corte Costituzionale con la sentenza 50/2006, riconoscendo al figlio incestuoso la possibilità di agire per far dichiarare giudizialmente la paternità o maternità naturale anche nei casi in cui il riconoscimento non era ammesso ai sensi dell’art.251 cc. Il riconoscimento spontaneo da parte della madre o del padre rimaneva ugualmente precluso. La Corte Costituzionale aveva inoltre sottolineato come le vigenti norme che impediscono il riconoscimento rappresentino una “capitis deminutio perpetua e irrimediabile” per il figlio, conseguente ad un comportamento altrui, che è in contrasto con l’art.2 della Costituzione per violazione del diritto all’identità personale, riconosciuto anche dalla Convenzione dell’ONU sui diritti del fanciullo (art.8), stipulata a New York il 20 novembre 1989 e ratificata con L.176/1991.

Dott.ssa Ciriello Maria Francesca

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