La giurisprudenza rotale come fonte di diritto

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La giurisprudenza rotale come fonte di diritto
Leonardo Lastei
 Avvocato del Foro di Roma; Dottore in Diritto Canonico presso la Pontificia Università Lateranense.
 
1.   L’art. 126 della Costituzione Apostolica “Pastor Bonus” .
Con riferimento al Tribunale Apostolico della Rota Romana, l’art. 126 della Costituzione Apostolica sulla Curia Romana “Pastor Bonus” del 28 giugno 1988 afferma: “Hoc tribunal instantiae superioris partes apud apostolicam sedem pro more in gradu appellationis agit ad iura in ecclesia tutanda, unitati iurisprudentiae consulit et, per proprias sententias, tribunalibus inferioribus auxilio est”.
La citata disposizione riveste particolare importanza in quanto, per la prima volta, in un testo legislativo si affida organicamente al tribunale apostolico della Rota Romana il compito di provvedere all’unità della giurisprudenza, con ciò indicando chiaramente l’intenzione del Legislatore di assegnare a quel medesimo tribunale la funzione di promuovere e conservare quella medesima unità[1].
Invero, l’affermazione contenuta nell’art. 126 P.B. si trova già accennata nei discorsi dei Romani Pontefici, e, più in particolare, nell’allocuzione di Giovanni Paolo II alla Rota Romana, pronunciata in occasione della promulgazione del nuovo codice di diritto canonico: “Funzione della giurisprudenza rotale … è quella di portare – pur nel rispetto di una sano pluralismo che rifletta l’universalità della Chiesa – ad una più convergente unità e ad una sostanziale uniformità nella tutela dei contenuti essenziali del matrimonio canonico”[2]
La ragione dell’attribuzione a questo tribunale della funzione unificatrice della giurisprudenza si spiega sulla base della convinzione che la Rota abbia la possibilità di realizzare “dall’interno” il compito affidatole, grazie alla qualità ed al valore scientifico della propria giurisprudenza, punto di riferimento ed argomento di studio per tutte le sedi giudiziarie, come si evince in diverse allocuzioni in cui il Pontefice sottolinea “l’alta e l’esemplare qualità del lavoro compiuto”[3], il notevole valore della giurisprudenza rotale per la Chiesa, “data la scienza ed esperienza dei giudici”[4].
L’esigenza di rafforzare questo ruolo di unificazione della giurisprudenza ecclesiale si è manifestata in tutta la sua urgenza “quanto più è stata percepita una dissoluzione a volte anche molto accentuata della funzione giudiziaria nella diversità degli indirizzi tra le varie corti periferiche … o anche all’interno di uno stesso tribunale”[5].
A creare siffatta situazione ha di certo contribuito il grande impulso che il Concilio Vaticano II ha dato alle Chiese particolari, “che ha spinto non di rado le tante giurisprudenze nazionali, in una ricerca legittima della propria identità, a trovare però questa semplicemente nel diverso, anziché nei tratti originali di una ricreazione del patrimonio comune, faticosamente rivissuto secondo la propria autenticità culturale, e quindi ecclesiale”[6].
In merito all’individuazione dei mezzi diretti a realizzare ed a mantenere la suddetta unità della giurisprudenza, si sono riscontrate in dottrina opinioni discordanti, anche in ragione della circostanza che la “Pastor Bonus” si limita ad attribuire alla Rota la funzione in commento, senza peraltro chiarire in che modo tale compito debba in concreto esercitarsi; né indicazioni in proposito possono trarsi dalle norme rotali[7], che della citata Costituzione apostolica sono un adattamento.
A ciò si aggiunga il rilievo – tutt’altro che trascurabile – consistente nella difficoltà di coniugare la funzione di armonia della giurisprudenza con il principio dell’indipendenza giudiziale e con quello, non meno importante e codificato nel can. 16, in virtù del quale le sentenze hanno forza di legge solo tra i soggetti nei cui confronti sono state emanate.
2.   Possibili mezzi atti a garantire l’unità della giurisprudenza canonica.
Non sono mancati in dottrina tentativi diretti a ricostruire l’unità della giurisprudenza attraverso rimedi fattuali, dettati dalla convinzione che l’unità, generalmente intesa, è un fatto che si vive, prima ancora di essere una situazione giuridica[8].
Rientrano in questa tipologia i seguenti mezzi:
– maggiore attenzione circa la formazione e preparazione degli operatori della giustizia[9];
– facilitazione della conoscenza della giurisprudenza della Rota Romana, eventualmente attraverso la immediata pubblicazione delle sentenze in diverse lingue[10];
– maggior promozione dell’internazionalizzazione dei membri giudici dello stesso Tribunale apostolico;
– attuazione di un processo più celere presso la Rota[11].
Parallelamente agli sforzi tesi a fornire una risposta in termini concreti, si è registrato l’evolversi di un complesso ed articolato cammino di ricerca dei mezzi propriamente giuridici per la realizzazione della funzione indicata dall’art. 126 PB, mezzi qualificati in dottrina[12] come formali, effettivi ed incisivi.
Nell’ambito di siffatto processo evolutivo, particolare rilievo è stato riconosciuto al rimedio costituito dall’ordinato coordinamento delle impugnazioni: esso è definito come il modo “principale, specifico, universale e tradizionale”[13] per armonizzare la giurisprudenza in quanto raggiunge lo scopo di per sé stesso.
Risulta infatti evidente che ove una causa approdi ad un tribunale supremo, il giudice inferiore, la cui decisione sia stata cassata o riformata, ben difficilmente in altra occasione si discosterà dall’interpretazione data dal giudice superiore per evitare di vedere nuovamente cassare o riformare la propria pronuncia.
E’ altresì evidente notare come la concreta verifica dell’efficacia di siffatta prospettiva dipenda da un costante e “facilitato” ricorso ai Tribunali apostolici; tuttavia, una serie di ostacoli si frappone al raggiungimento di questo obiettivo soprattutto a seguito dell’abolizione dell’appello pro conscientia in precedenza previsto dal can. 1987 del CIC del 1917, che ha di fatto impedito a parecchie cause di pervenire alla cognizione della Rota Romana[14].
Lo stesso dicasi per la concessione di giudicare in terza istanza attribuita ai tribunali nazionali di Austria, Germania, Lituania e Cecoslovacchia motivata dalla necessità di facilitare la procedura, ma che certamente rischia di ingigantire il problema della discontinuità giurisprudenziale e, a maggior ragione, ove tale privilegio venisse esteso ad altre nazioni[15].
Altri Autori hanno poi auspicato la creazione di un tribunale di cassazione, sul modello degli ordinamenti di derivazione francese, da poter adire direttamente; una siffatta funzione, sempre al fine di armonizzare la giurisprudenza, potrebbe essere attribuita alla Segnatura Apostolica[16].
Ma è soprattutto alla tesi fondata sul riconoscimento di forza vincolante, sub specie legis, alla giurisprudenza rotale che si deve l’accendersi di un dibattito particolarmente sentito in dottrina, anche in ragione delle possibili conseguenze scaturenti dalla considerazione della giurisprudenza rotale quale vera fonte di diritto.
In forza di essa si produrrebbe infatti “da un lato la vincolazione del giudice alla giurisprudenza prodotta dal proprio tribunale; dall’altro la vincolazione (meglio, la subordinazione) della giurisprudenza di un tribunale a quella del tribunale superiore; ed in tal modo un’unità della giurisprudenza, al modo in cui si produce ed esiste un’unità della legislazione”[17].
La tesi della giurisprudenza rotale quale fonte normativa è stata invero sostenuta da autorevole dottrina[18]: si richiede pertanto un’esposizione approfondita di detta impostazione, per poi procedere ad una circoscritta analisi delle notazioni critiche che ad essa sono state mosse.
 
 
 
3.   La tesi di Mons. Pompedda: la giurisprudenza rotale come fonte di diritto nell’ordinamento canonico matrimoniale.
“La dignità del giudice non cede per nulla a quella del legislatore e le raccolte di leggi non hanno maggiore importanza che quelle della giurisprudenza. La giurisprudenza è, appunto, sullo stesso piano della legge poiché non è altro che la legge interpretata”[19].
Con questa celebre affermazione del Carnelutti si apre lo studio di Mons. Pompedda sul tema oggetto del presente paragrafo; il che non lascia adito a dubbi circa la risposta finale data al quesito che egli si pone al principio della trattazione, per quanto l’Autore si curi di precisare che il titolo del suo lavoro – la giurisprudenza come fonte di diritto nell’ordinamento canonico matrimoniale, per l’appunto – non è formulato in termini assertivi, ma è un’affermazione tutta da dimostrare[20].
Ciò che l’Autore intende chiarire è se nell’ordinamento canonico la giurisprudenza possa e debba avere una funzione nomopoietica, vale a dire di fonte non solo di conoscenza ma anche di esistenza del diritto.
Sulla scorta di tale premessa programmatica, Mons. Pompedda si affretta a precisare che è suo fermo proposito limitare la propria indagine all’ordinamento della Chiesa cattolica, la quale è caratterizzata da una costituzione gerarchica, “verticistica”[21] in cui il Romano Pontefice gode di potestà “ordinaria suprema, piena, immediata e universale” ed è pertanto anche supremo giudice[22].
I canoni 360 e 361 stabiliscono poi che, nel disbrigo delle questioni inerenti alla Chiesa universale, il Pontefice si serve della Curia Romana la quale adempie il proprio ufficio nomine et auctoritate del Papa stesso e i cui vari istituti, cioè organi amministrativi e soprattutto tribunali, sono da intendersi normalmente quale Sede Apostolica o Santa Sede.
Per il tramite del richiamo al can. 19, l’Autore giunge ad affermare come nel codice si riconosca una sola giurisprudenza, elaborata dalla Curia Romana, cioè quella emanante dall’attività giurisdizionale della Rota Romana, essendo tale tribunale l’unico competente per il merito[23].
Ad avvalorare il suindicato significato canonico di giurisprudenza, Mons. Pompedda cita[24] l’insegnamento emergente dalle più recenti allocuzioni pontificie pronunciate in occasione della inaugurazione degli anni giudiziari che, pur non avendo una specifica valenza giuridica, sono comunque autorevoli sia per la massima dignità di coloro da cui promanano, sia perché pubblicati negli Acta Apostolicae Sedis, organo ufficiale degli atti della Santa Sede.
Da tali solenni discorsi si evince, in primo luogo, lo stretto nesso esistente tra il Sommo Pontefice e la Rota, proprio in quanto Tribunale apostolico, vale a dire costituito dal Romano Pontefice per esercitare il suo ministero apostolico di giudice su tutta la Chiesa[25].
Particolarmente illuminante in tal senso è l’affermazione di Giovanni Paolo Il in base alla quale le decisioni rotali acquistano la propria grande importanza partecipando in modo vicario del ministero di Pietro[26]; ed analogamente quella in cui rivolgendosi ai giudici rotali, lo stesso Pontefice sostiene: “voi lavorate, studiate, giudicate, in nome della Sede Apostolica”[27].
In epoca antecedente alla pubblicazione del vigente CIC, allorquando particolarmente disomogenea appariva la giurisprudenza di diversi tribunali locali, Giovanni Paolo II affermava la temerarietà “di ogni innovazione di diritto, sia
sostantivo sia processuale, che non trovi alcun riscontro nella giurisprudenza o prassi dei tribunali e dicasteri della Santa Sede”[28].
In forza di tale autorevole postulato, Mons. Pompedda desume a contrario che deve quindi ritenersi legittima ogni innovazione in campo matrimoniale derivata dai Tribunali apostolici[29].
A riprova di ciò, l’Autore evidenzia come, in seguito alla promulgazione del CIC, il Pontefice abbia ribadito la funzione di guida ed esempio propria della giurisprudenza rotale, aborrendo qualsivoglia interpretazione incoerente con il dettato canonico, specie in materia matrimoniale[30], con ciò ampliando l’orizzonte di una prospettiva già messa in luce pochi anni prima: “al giudice spetta una partecipazione molto rilevante nel fissare il senso della legge… Ma la forza interpretativa è da riporsi soprattutto nella formazione della giurisprudenza, cioè di quell’insieme di sentenze concordanti che, senza avere l’assolutezza dell’antica auctoritas rerum perpetuo similiter iudicatarum, ha tuttavia un notevole ruolo nel riempire le eventuali lacunae legis”[31].
Il punto nodale della tesi sostenuta da Mons. Pompedda è costituito dal ruolo che egli riconosce al can. 19 del vigente codice; ruolo di per sé fondante del valore di fonte normativa da attribuirsi alla giurisprudenza del Tribunale apostolico.
Con detta disposizione, così come con quella corrispondente di cui al can. 20 del CIC del 1917, il legislatore canonico ha implicitamente ammesso l’eventualità che nell’ordinamento canonico possano verificarsi lacunae legis[32], prevedendo a quali fonti suppletorie si debba in tali ipotesi ricorrere: le risorse indicate per colmare le lacune della legge sono quattro, vale a dire “le leggi date per casi simili, i principi generali del diritto applicati con equità canonica, la giurisprudenza e la prassi della Curia Romana, il modo di sentire comune e costante dei giuristi” (can. 19).
Esistono invero delle differenze tra le disposizioni dei due codici: innanzitutto, l’attuale can. 19 legittima il ricorso alle suddette fonti suppletive non solo quando manchi una legge, ma anche quando non esista una consuetudine.
Della quale – ed è questo un altro importante punto di snodo del percorso logico-interpretativo compiuto dall’Autore – Mons. Pompedda presenta una nozione per così dire dilatata, tutt’altro che scontata: quella secondo cui “la ripetizione costante e diuturna di determinati principi giurisprudenziali”[33] costituisce consuetudine ed ha conseguentemente valore di legge.
Ma v’è di più, ed è rappresentato da quella forza suppletiva nei confronti della legge che Mons. Pompedda riconosce in ogni caso alla giurisprudenza ed alla prassi, indipendentemente dal “filtro” operato dalla consuetudine nella sua veste di fonte normativa: “la giurisprudenza e la prassi hanno una propria autonomia, e non assumono invece forza di supplenza – o, se vogliamo, nomopoietica – in tanto in quanto unicamente hanno finito per costituire una consuetudine: la quale … nell’ordinamento canonico assume forza di legge, sia pure entro determinati limiti e secondo espressi criteri fissati dal Legislatore”.[34]
In altre parole, per Mons. Pompedda, la giurisprudenza rotale ha una propria ulteriore valenza oltre a quella che alla stessa deriva dal costituire in alcune ipotesi una vera e propria consuetudine: quindi, qualora in una determinata materia la giurisprudenza e la prassi della Curia Romana non fossero accompagnate da quelle condizioni che i canoni 23-28 richiedono perché si formi una consuetudine, si dovrebbe comunque riconoscere ad esse “quella valenza suppletiva di cui stiamo discorrendo: e la cosa non è di poca importanza, sia sul piano cognitivo della legge sia su quello effettuale della validità della norma”[35].
Altro elemento a sostegno della funzione nomopoietica della giurisprudenza rotale, viene tratto dall’Autore in forza della rilevante differenziazione che sussiste tra le formulazioni dei due codici: nel can. 20 del CIC del 1917 si diceva che la norma, in caso di lacuna, dovesse attingersi dalle fonti sopra elencate, con ciò dando rilievo all’iter logico da compiersi nello stabilire una norma non prevista positivamente; nel vigente can. 19, invece, muterebbe la prospettiva, nel senso che le fonti di supplenza vengono considerate come qualcosa a sé stante, preesistente, e quindi l’accentuazione non è posta su quel procedimento razionale di cui si diceva, bensì sulla esistenza delle fonti stesse[36].
Questa impostazione sarebbe avvalorata dalla lettera del canone – causa… dirimenda est… attentis… iurisprudentia et praxi Curiae Romanae – quasi che tali fonti suppletive avessero una propria autonomia e quindi un preesistente valore normativo.
Ed infine, quale ulteriore, significativa differenza tra i rispettivi canoni dei due codici, l’Autore evidenzia come nel CIC del 1917 fosse adottata la terminologia “stylus et praxis “, laddove nell’attuale, per la prima volta, si fa espressamente riferimento alla “iurisprudentia”, senza bisogno di ricomprenderla, talvolta faticosamente[37], nel concetto di stylus[38].
Conclusivamente, secondo la teoria qui esposta, ove il giudice rotale non rinvenga nella legge la norma da applicare al caso concreto, dovrà crearla egli stesso fungendo da legislatore e quindi andando ben oltre alla pura e semplice funzione interpretativa.
Siffatta affermazione, che sinteticamente riassume il tenore delle considerazioni esposte dal Card. Pompedda, apre in verità il campo ad un interrogativo di fondo in merito al livello di autorità da riconoscersi alla giurisprudenza rotale.
 Trattasi infatti – secondo la ricostruzione del pensiero dell’Autore – di un ruolo molto più che morale, in grado di incidere efficacemente e giuridicamente nell’attività giurisdizionale, contribuendo in modo essenziale “ad indurre uniformità nella interpretazione e nella pratica attuazione della legge”[39].
Un ruolo che va altresì chiarito tenendo conto della distinzione sussistente tra l’opera di pura interpretazione, anche evolutiva, e quella di vera e propria produzione normativa.
Nel periodo postconciliare precedente la promulgazione del nuovo codice – osserva l’Autore – l’attività decisionale della Rota, con riferimento a talune significative questioni attinenti alla materia matrimoniale, si rivelò di importanza centrale per tutto l’ordinamento canonico.
In tema di timore, ad esempio, la costante ed uniforme interpretazione dei giudici rotali è andata talmente oltre al senso originario della norma positiva, da crearne una nuova, diversa e di contenuto più ampio di quella codificata; tale cioè da attribuire rilevanza al metus indirectus, laddove il canone previgente richiedeva un nesso di causalità tra l’incussione del timore e la celebrazione del matrimonio.
E che si trattasse di una vera e propria innovazione legislativa è dimostrato dal valore invalidante espressamente attribuito dall’attuale can. 1103 al timore anche non intenzionalmente incusso[40].
Da tale vicenda giurisprudenziale, come da quelle concernenti l’errore sulla qualità o l’errore comune[41] “appare illusoria la tendenza di attribuire valore normativo solo alle fonti legislative e non alle decisioni giudiziali”[42], cosicché quando “l’interpretazione nuova della legge vecchia diventi consolidata e dominante, sarà questa la norma giuridica e non quella che era tratta in passato dalle stesse formule della legge: una legge che è rimasta sempre in vigore, ma che, nel corso dei tempi sotto l’influsso di fattori molteplici, ha prodotto norme che possono anche essere diverse; tutto questo in virtù dell’opera della giurisprudenza”[43].
Al fine di provare definitivamente tale assunto, Mons. Pompedda considera un altro aspetto della normativa canonica in materia matrimoniale, punto focale della dogmatica matrimoniale stessa, vale a dire la capacità di contrarre dei nubendi: è secondo l’Autore innegabile che le incapacità a porre un valido consenso, sia per insufficiente uso di ragione, sia per mancanza di discrezione di giudizio, sia infine per inabilità di adempiere gli obblighi essenziali, già erano considerate dai giudici rotali cause invalidanti del matrimonio, prima ancora di essere codificate nel can. 1095.
“Negare in questo fenomeno una attività chiaramente nomopoietica, sarebbe non accettare l’evidenza dei fatti”[44].
Resta da chiarire per l’Autore se detta opera della giurisprudenza debba intendersi come pura interpretazione, anche se evolutiva, o come produzione di nuove norme.
La risposta al quesito, sostiene Mons. Pompedda, parrebbe doversi diversificare con riferimento alle due distinte fonti del diritto matrimoniale, quella umana e quella divina: quanto alla prima, non pare potersi dubitare che trattasi di attività creatrice di nuove norme, perlomeno nell’ambito di supplenza alle lacune della legge.
Ma anche con riferimento alla fonte divino-naturale, per l’Autore, parlare di opera meramente interpretativa è fortemente limitativo della reale funzione giurisprudenziale: intendendo per diritto naturale non tanto un complesso di norme disciplinanti una determinata materia, quanto piuttosto un insieme di principi che consentono di verificare se le norme siano rispondenti al criterio di giustizia, il Card. Pompedda giunge ad affermare che “trovare la norma giusta … non è un’operazione meccanica, poiché implica sempre una certa azione inventiva, che per altro lato, come ogni azione inventiva, è completamente opposta all’arbitrio”[45].
Quindi, pur essendo il diritto naturale immutabile, mutabili sono invece gli ordinamenti positivi, i quali necessitano continuamente di nuove norme per regolare materie prima non esistenti, norme che possono dunque scaturire dall’opera della giurisprudenza.
Appare a questo punto opportuno riassumere le conclusioni più rilevanti cui sembra approdare la teoria sin qui esposta:
– sussiste anche nell’ordinamento canonico il principio per cui il giudice non è legislatore, in quanto ciascuna sentenza obbliga solo le parti nei cui confronti è stata pronunciata, ai sensi del can. 16 del CIC del 1983;
– peraltro, l’interpretazione fornita dalla giurisprudenza rotale ha valore esemplare per tutti gli altri tribunali ecclesiastici, in virtù del ruolo preminente della Rota Romana che giudica in nome e per l’autorità del Pontefice;
– nell’ipotesi di lacunae legis, il codice prevede le fonti suppletorie a cui ricorrere, tra cui rientra la prassi e la giurisprudenza della Curia Romana;
– in questo ambito la giurisprudenza rotale ha un’indubbia funzione nomopoietica;
– atteso che la normativa canonica è preminentemente animata dal diritto naturale, con riferimento ad esso la giurisprudenza è chiamata ad esplicitare, ad approfondire, a dilatare, a dichiararne il significato; perciò anche in questo ambito svolge una funzione di produzione di nuove norme.
A sigillo di questo sia pur sommario riassunto possono citarsi le parole con cui l’Autore chiude la trattazione in commento: “limitare l’evoluzione … del diritto canonico in ciò che di naturale contiene a pura e semplice esplicitazione, o approfondimento di conoscenza di ciò che già esiste, e negare un vero arricchimento di contenuto – riferendosi alla giurisprudenza rotale – , cioè un vero progresso normativo, non mi sembra razionalmente congruente”[46].
 
 
 
 
 


[1]          Sull’argomento cf. MONTINI G., La giurisprudenza dei tribunali apostolici e dei tribunali delle Chiese particolari, in Studi Giuridici, XLI (1996), pp. 112 ss..
[2]          GIOVANNI PAOLO II, Allocuzione 26 febbraio 1983, n. 5, in AAS 75 (1983), p. 559.
[3]          ID., Allocuzione 26 febbraio 1983, n. 5, in …, p. 558.
[4]          ID., Allocuzione 26 gennaio 1984, n. 6, in AAS 76 (1984), p. 647.
[5]          BONNET P. A., La competenza del tribunale della Rota Romana e del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica, in Ius Ecclesiae, 7 (1995), p. 21, in cui l’Autore fa in special modo riferimento alla non felice situazione delle corti nordeuropee e soprattutto nordamericane; nello stesso senso, cf. MONITINI G., op. cit., pp. 111-112, che evidenzia l’impressionante numero di cause matrimoniali introdotte e definite negli Stati Uniti e che condivide l’opinione espressa da GROCHOLEWSKI Z., Problemi dell’attività giudiziaria della Chiesa nelle cause matrimoniali, in Apollinaris 56 (1983), p. 159, secondo il quale “le diversità giurisprudenziali sembrano avere radici profonde nelle diverse opinioni teologiche circa la natura del matrimonio (indissolubilità, formazione, elementi richiesti per la validità) e nel diverso concetto di compito pastorale nei confronti dei matrimoni falliti … Il problema delle diversità indicate, perciò, va oltre le questioni procedurali”.
 
[6]          BONNET P. A., op. cit., p. 21.
[7]          Romanae Rotae Tribunalis Normae dell’8 giugno 1994, in AAS 86 (1994), pp. 508-540.
[8]          Cf. MONTINI G., op. cit., p. 118, secondo il quale “all’unità di un popolo, ad esempio, può contribuire di più la comunanza di una lingua che la perfezione formale di una costituzione”.
[9]               Secondo Z. GROCHOLEWSKI, Cause matrimoniali e modus agendi dei tribunali, in Ius in vita et in missione Ecclesiae. Acta Symposii In ternationalis Iuris canonici occurrente X Anniversario promulgationis Codicis Iuris Canonicis diebus 19-24 aprilis 1993 in Civitate Vaticana celebrati, Città del Vaticano 1994, pp. 953-959, spesso la discordanza della giurisprudenza è dovuta all’imperizia degli avvocati, dei difensori del vincolo e dei giudici dei tribunali periferici, talora ammalati di mania di protagonismo, pronti ad abbracciare tesi dei tutto originali, ben lontane dalla tradizione comune.
 
[10]         Cf. Z. GROCHOLEWSKI, I tribunali apostolici, in Le nouveau Code de droit canonique. The new code of Canon Law. Actes du V Congrès intemational de droit canonique. Proceedings of the 5 th International Congress of Canon Law, Ottawa 1986, I, pp. 466-469; J. LLOBELL, La genesi della sentenza canonica, in AA.VV., Il processo matrimoniale canonico, Città del Vaticano 1994, pp. 714-715.
 
[11]         Cf. Z. GROCHOLEWSKI, I tribunali apostolici…, pp. 467-468.
[12]         Cf. G. MONTINI, op. cit., p. 118.
[13]         Cf. G. MONTINI, op. cit., p. 118, nonché K. MORSDORF, Die auctoritat de rotalen Rechtsprechung, in Archiv fur katholisches Kirchenrecht 131 (1962), p. 418.
[14]         Cf. P-A. BONNET, op. cit., p. 21.
[15]         Richiesta di estensione generalizzata del privilegio della terza istanza fu avanzata in sede di revisione del CIC, ma fu respinta in quanto avrebbe vanificato l’opera del tribunale apostolico “per quod assequitur bonum non parvi momenti scilicet uniformitas iurisprudentiae pro tota Ecclesia” (Communicationes 10 (1978), p. 243. Contro tale estensione si era altresì pronunciato l’allora Decano della Rota Mons. Fiore in occasione dell’udienza papale agli uditori rotali del 5 febbraio 1987: cf. L’Osservatore Romano 6 febbraio 1987, p. 5. In epoca recente si è verificato un ridimensionamento di detto privilegio (cf. G. MONTINI, op. cit., p. 121, nota 49), ma resta il rischio insito nella concessione di grazie per singole cause di essere giudicate presso tribunali locali in terza istanza.
[16]          VARALTA, Normae Speciales, De iurisprudentiae conceptu, in Periodica 62 (1973), pp. 50-56, il quale sembra ricollegare a questa possibilità il disposto dell’art. 17
[17]         Così si esprime G. MONTINI, op. cit., p.122, il quale precisa che, qualora si consideri la giurisprudenza come fonte di diritto, il concetto stesso di giurisprudenza va inteso non in senso materiale, vale a dire come “complesso di decisioni uniformi o uniformemente date dai tribunali nell’effettivo esercizio della propria funzione giurisdizionale”, bensì in senso formale, cioè come la stessa autorità annessa alle medesime decisioni, in quanto uniformemente date” ( VARALTA, op. cit., p. 40 ).
[18]         Cf. M.F. POMPEDDA, op. cit., pp. 1-41 e anche in Studio Rotale. Quaderni, I, 1987, pp. 47-72.
 
[19]         F. CARNELUTTI, Trattato del processo civile, Napoli 1958, p. 147.
 
[20]            M.F. POMPEDDA, op. cit., p. 3.
[21]         ID., op. cit., p. 4.
 
[22]            Cf. can. 1442.
[23]         L’Autore precisa altresì che “per giurisprudenza deve intendersi non soltanto una interpretazione della norma ripetuta in senso univoco, ma che insieme è da includere in detto concetto anche una uniformità orizzontale, cioè comune ai collegi giudicanti entro lo stesso organo giudicante” POMPEDDA, op. cit., p. 6.
[24]         ID., op. cit., pp. 17 ss.
[25]            Cf. M.J. ARROBA CONDE, Diritto processuale canonico, II ed., Roma 1994, p. 145.
[26]         GIOVANNI PAOLO II, Allocuzione 30 gennaio 1986, in AAS 78 (1986) p. 924.
[27]         ID., Allocuzione 28 gennaio 1982, in AAS 74 (1982), p. 450.
[28]         ID., Allocuzione 24 gennaio 1981, in AAS 73 (1981), p. 232.
[29]         M.F. POMPEDDA, op. cit., p. 19.
[30]         ID., Allocuzione 30 gennaio 1986…pp. 924 ss.
[31]         ID., Allocuzione 26 gennaio 1984…p. 647.
 
[32]         Secondo POMPEDDA, op. cit., pp. 11 ss., anche per il diritto canonico si deve ammettere che “1a sola legge non basta a disciplinare tutte le possibili ipotesi di conflitto, onde anche gli ordinamenti più rispettosi del primato della legge prevedono l’esistenza di lacune che l’interprete, e pertanto anche il giudice, è chiamato a colmare, ricorrendo all’analogia o ai principi generali dell’ordinamento” (F. FINOCCHIARO, La giurisprudenza nell’ordinamento canonico, in AA.VV., La norma en el derecho canonico, Pamplona 1979, vol. 1, p. 993). Nessun codice può essere così accurato da essere in grado di prevedere ogni possibile fattispecie, anche perché, col trascorrere del tempo, insorgono necessariamente nuove relazioni giuridiche, imprevedibili per il legislatore, ma nondimeno bisognevoli di una regolamentazione: cf. M.F. POMPEDDA, op. cit., p. 12.
[33]         M. F. POMPEDDA, op. cit., p. 10; nello stesso senso cf. A. VAN HOVE, De legibus ecclesiasticis, Mechliniae-Romae 1930, pp. 330 ss.; FX WERNZ – P. VIDAL, Ius canonicum, t. 1, Normae generales, Roma 1952, p. 240, n. 185.
[34]         M.F. POMPEDDA, op. cit., p. 14.
 
[35]         M.F. POMPEDDA, op. cit., p. 14.
[36]         M.F. POMPEDDA, op. cit., p. 15.
[37]         Cf. M.F POMPEDDA, La giurisprudenza rotale tra jus conditum e jus condendum, in AA.VV., Problemi e prospettive di diritto canonico, Brescia 1977, pp. 293 ss.; C. LEFEBVRE, Les pouvoirs du Jege en droit canonique, Parigi 1938, pp. 256 ss.; ID., v. Style et pratique de la Curie Romaine, in Dictionnaire de droit canonique, t. VII, Parigi 1965, col. 1092 ss.; R. NAZ, v. Jurisprudence, in Dictionnaire de droit canonique, t. VI, Parigi 1957, col. 290 ss.; A. RAVA’, Il problema delle lacune dell’ordinamento giuridico e della legislazione canonica, Milano 1954, pp. 169 ss.
[38]         M.F. POMPEDDA, La giurisprudenza come fonte di diritto…, p. 16.
[39]         ID., La giurisprudenza come fonte di diritto… p. 21
 
[40]         Cf. sull’argomento P. FEDELE, Metus ab extrinseco iniuste incussus consultus illatus, in Il diritto ecclesiastico XLV (1934), pp. 3-28.
 
[41]         Sia con riferimento al can. 1098 che con riguardo al can. 144 par. 2 del CIC del 1983, l’autore sostiene che tali disposizioni costituiscono il frutto di un’interpretazione evolutiva che non è esagerato definire vera innovazione legislativa: cf. M.F. POMPEDDA, La giurisprudenza come fonte di diritto…, pp. 24-25. In tema di errore sulla qualità cf. H. FLATTEN, Der error qualitatis dolose causatus als Ergazung zu c. 1983 par 2 CIC, in Osterreichisches Archiv fur Kirchenrecht, 4 (1960), pp. 249-264.
            Circa l’errore comune cf. S. GHERRO, Supplenza della Chiesa per errore comune e matrimonio in fieri, in Il diritto ecclesiastico, LXXVIII (1967), pp. 3-4.
[42]         M.F. POMPEDDA, La giurisprudenza come fonte di diritto…, pp. 25-26
 
[43]         F. FINOCCHIARO, op. cit., p. 1000.
 
[44]         M.F. POMPEDDA, La giurisprudenza come fonte di diritto …, p. 28.
[45]         ID., La giurisprudenza come fonte di diritto…, p. 3 1, il quale ritiene che la teologia cattolica implicitamente sembri porsi su questa linea, in quanto distingue, sul piano della conoscenza, le norme naturali in principi universalissimi, precetti più determinati o conseguenze immediate, e precetti ultimi o applicazioni più remote: cf. A. LANZA, Theologia Moralis, t. 1, Torino-Roma 1949, p. 311, n. 284.
[46]         M.F. POMPEDDA, La giurisprudenza come fonte di diritto…, p. 36.
 

Lastei Leonardo

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