La lettura degli atti in aiuto alla memoria ex art.499, CO.5 C.P.P.: limiti e orientamenti

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Sovente capita all’Avvocato penalista, in ambito processuale, di “opporsi” formalmente all’espletamento dell’esame del testimone che, nel riferire fatti e circostanze dallo stesso appresi e in qualche modo verbalizzati nel corso delle indagini preliminari, si riporti interamente agli atti da lui redatti, dandone lettura integrale nel corso della sua deposizione, piuttosto che, come prescritto dall’art.499 comma 5 C.p.p., servirsene solamente, previa autorizzazione del Giudice, ai fini della loro consultazione in aiuto della memoria.

La questione non è nuova, avendo già trovato in passato ampio spazio sia in dottrina che in giurisprudenza.

Alquanto interessante tuttavia, appare sul punto un recente e originale contributo dottrinale, al quale ci si  riporta compiutamente, seppure in forma semplificata, atteso il pregio e la completezza delle osservazioni sviluppate[1], laddove si afferma che il modello codicistico della c.d. lettura in aiuto della memoria, troverebbe la sua collocazione in una “posizione intermedia tra il documento precostituito e la prova dichiarativa, preservando almeno formalmente il valore dell’oralità attraverso l’effettuazione dell’esame del teste in dibattimento, ma arrivando ad influenzarne in maniera determinante i contenuti”.

A titolo esemplificativo vengono riportati i vari casi afferenti la c.d. ripetibilità delle attività investigative di localizzazione satellitare, ovvero di osservazione, constatazione e pedinamento, nonché delle relative informative di polizia giudiziaria, per i quali è costante in giurisprudenza l’opinione secondo cui non possono ritenersi atti irripetibili ex art.431, co.1 lett.b) Cpp, atteso che “risulta sempre possibile ottenere, nella compiutezza e nella trasparenza del contraddittorio, la rievocazione testimoniale dei verbalizzanti”(Così Cass.pen.sez.VI, 8 giugno 2004, n.39230, Aiuto; Cass.sez.VI, 11 dicembre 2007, n.15396, Sitzia, secondo cui i relativi risultati “possono entrare nella valutazione probatoria del giudice attraverso la testimonianza degli ufficiali di polizia giudiziaria”; Cass.sez.I, 7 gennaio 2010, n.9416, Congia).

Nemmeno si ritiene irripetibile il verbale di contestazione compilato dalla P.G. in sede di controllo di un soggetto colto alla guida in stato di ebbrezza alcolica, alla luce della considerazione secondo cui gli operanti possono sempre riferire in dibattimento quanto dagli stessi direttamente osservato e percepito al tempo del controllo (Così per Cass.pen.sez.IV, 29 ottobre 2003, n.47761, Cericco).

Più in generale, la giurisprudenza ha precisato che la relazione di servizio dell’operante di P.G. non rappresenta atto irripetibile, potendo sempre il verbalizzante riferire in giudizio quanto dallo stesso appreso e, appunto, relazionato (Cass.pen.sez.I, 12 aprile 2005, n.14664, Palermo).

Eppure la stessa giurisprudenza è riuscita anche in tale ambito a mostrarsi alquanto altalenante,  esprimendosi in termini diametralmente opposti con riferimento ad un verbale di contestazione di violazioni tributarie elevato dalla Guardia di Finanza, ritenendolo quale atto irripetibile, in quanto “descrittivo di una situazione di fatto esistente in un determinato momento e suscettibile di subire modificazioni con il decorso del tempo” (Si veda Cass.pen.sez.III, 26 settembre 2013, n.39873, Proserpi, dove si afferma che il predetto verbale di contestazione redatto dalla Guardia di Finanza deve rientrare nel catalogo degli atti irripetibili, per ciò che concerne la sua portata descrittiva di condotte penalmente rilevanti soggette a mutamenti nel tempo, così come da tempo riconosciuto dal prevalente orientamento giurisprudenziale). Buona parte della dottrina peraltro, ha potuto acutamente e giustamente osservare che “non si potrà attribuire rilievo a qualsiasi alterazione – a meno di non volere cadere in un evidente paradosso – posto che qualunque entità è soggetta per sua stessa natura ad un mutamento nel corso del tempo, per cui coglie nel segno l’obiezione secondo la quale, in mancanza di ulteriori precisazioni, il pedissequo accostamento all’orientamento giurisprudenziale di massima finirebbe per raffigurare come irripetibili persino le mere dichiarazioni, avuto riguardo al fatto per cui non potrà mai aversi la ripetizione di quella stessa dichiarazione resa in determinate circostanze di fatto, tempo e luogo”.

Come la più attenta dottrina ha inteso affermare, “se è vero che la possibilità di riferire il contenuto di un atto non può automaticamente far ritenere la sua ripetibilità, deve parimenti evidenziarsi che l’impossibilità di riportare i risultati di una determinata attività investigativa non può essere ritenuta una circostanza rilevante al fine di determinare la sussistenza di un’oggettiva impossibilità di ripetizione”, diversamente da come invece la giurisprudenza più sopra riportata pare ritenere, in aderenza agli orientamenti maggiormente permissivi (Come ad esempio Cass.pen.sez.I, 8 giugno 1994, n.9370, Morabito, che in riferimento alla facoltà di consultazione di verbali e altri supporti di documentazione dell’attività di indagine, ha ritenuto come la stessa possa risolversi anche nella lettura integrale dell’atto in dibattimento, qualora ciò sia motivato dal lungo tempo trascorso e dalla complessità di conservazione in memoria delle attività svolte praticamente con quotidiana frequenza).

Nonostante le diligenti osservazioni della dottrina, il più recente panorama giurisprudenziale in materia si è orientato verso il generale riconoscimento di una concezione diversificata di irripetibilità,  maggiormente pregnante rispetto ai contenuti degli atti ad “elevato contenuto tecnico” (come ad esempio i verbali di contestazione della Guardia di Finanza, degli ispettori del lavoro, nonché gli accertamenti del curatore fallimentare), che potrebbero essere difficilmente esposti in maniera completa e precisa attraverso il solo narrato orale in sede di esame testimoniale in giudizio.

Intuendo la delicatezza della materia, le Sezioni Unite della Suprema Corte hanno successivamente tentato di classificare i casi di irripetibilità dell’atto prendendo le mosse dal contenuto dell’esame e distinguendo dall’accertamento di tipo “storico”, quello implicante il riferimento a “dati numerici anonimi”, ritenendo consentita la lettura integrale dell’atto solamente per questi ultimi casi, dovendosi procedere normalmente alla sola “rapida consultazione degli atti compilati”, come nel primo dei casi individuati (Cass.Sez.Unite, 24 gennaio 1996, n.2780, Panigoni e altri).

Ancora più recentemente peraltro, la giurisprudenza ha definitivamente ripudiato la “differenziazione tra un concetto di aiuto totale o aiuto parziale della memoria nel ricordo di un fatto”, attribuendo in definitiva limitato rilievo al contenuto dell’atto esaminato quale discrimine per la legittimità della sua lettura integrale in aiuto alla memoria, atteso che in ogni caso “assurgerebbe ad evenienza fisiologica durante l’esame del teste, a prescindere dall’oggetto dell’accertamento” (Così Cass.pen.sez.IV, 7 maggio 2009, n.26387, Giunta).

Come noto, l’esegesi offerta dalla Suprema Corte si è tuttavia spinta ben oltre, ampliando il catalogo dei supporti consultabili dal teste fino a ricomprendervi, con riferimento all’esame dell’operante di P.g., i documenti alla cui stesura lo stesso non abbia formalmente partecipato, ritenendo sufficiente ai fini della regolare deposizione che egli abbia semplicemente preso parte alle attività di indagine documentate nello scritto (Così Cass.pen.sez.I, 8 novembre 2011, n.1364, P.G. in proc.Soccio e altri).

Alla luce di tali considerazioni, i contributi dottrinali in commento non hanno mancato di esprimere le più profonde perplessità in ordine all’istituto della lettura in aiuto della memoria, in considerazione del fatto che una generale e riconosciuta ammissibilità della lettura integrale degli atti andrebbe a vanificare la portata del principio di separazione tra le fasi, “ridimensionando sensibilmente la valenza falsificatoria del controesame dibattimentale e consentendo, di fatto, un passaggio diretto in dibattimento del materiale investigativo”.

Non può ritenersi di aiuto in tale contesto nemmeno il linguaggio utilizzato dal legislatore del codice di rito, che in termini alquanto sfuggenti raffigura una concezione di irreperibilità nel senso di “mera reiterazione del corrispondente atto investigativo”, mentre sarebbe stato forse più corretto inquadrarla come “convertibilità dei risultati delle indagini nei corrispondenti mezzi di prova”, attesa la conclamata differenza strutturale dell’accertamento dibattimentale rispetto all’atto eseguito in sede investigativa (in dottrina si veda anche, Giostra, Contradditorio, in Analisi e prospettive di un modello probatorio incompiuto, in Quest.giust, 2001).

Le prospettive in ottica difensiva si presentato in definitiva alquanto limitate sul punto, potendosi rintracciare solamente sparuti e minoritari orientamenti giurisprudenziali che avallano una lettura maggiormente equilibrata e aderente al modello accusatorio che avrebbe dovuto esprimere il dato normativo, ritenendo “la consultazione da parte del teste di documenti, ancorché certamente consentita, necessaria soltanto in aiuto alla memoria, senza mai sostituirsi completamente al ricordo” (Così Cass.pen.sez.IV, 29 ottobre 1999, n.6504, De Stefani e altri).

 


[1]Irripetibilità originaria degli atti e c.d. lettura in aiuto della memoria”, (a cura di) F.Nicolicchia, in Dir.pen.e proc.2/15, pag.226 e ss.

Avv. Buzzoni Alessandro

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