La mafia al Nord: tra paradigmi sociologici e questioni giurisprudenziali

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     Indice

  1. Seguendo la linea della palma: l’espansione della mafia nel Nord Italia
  2. Cause, modalità e rischi dell’infiltramento mafioso nei territori non tradizionali
  3. Le difficoltà giurisprudenziali nell’inquadramento del nuovo fenomeno mafioso: la mafia al Nord crocevia di orientamenti all’interno delle Corti
  4. Considerazioni conclusive

1. Seguendo la linea della palma: l’espansione della mafia nel Nord Italia

“Il mondo si divide in due: ciò che è Calabria e ciò che lo diventerà”.

Questo è quanto emergeva da una intercettazione della maxi-operazione Crimine-Infinito condotta contro la ‘ndrangheta calabrese in Lombardia e coordinata dalla DDA di Milano in collaborazione con quella di Reggio Calabria.

Ciò che le inchieste degli ultimi decenni hanno rivelato, infatti, non è altro che la conferma di quella famosa “profezia della palma” coniata dallo scrittore siciliano Leonardo Sciascia nel lontano 1961 quando prevedeva che la mafia avrebbe risalito la Penisola fino a occupare anche quei territori non tradizionali e da sempre considerati “refrattari” a subire i metodi mafiosi[1].

Nonostante l’atteggiamento di totale negazionismo riscontrabile in Italia sulla possibilità di un’ascesa delle mafie nelle regioni più settentrionali, le numerose inchieste susseguitesi negli ultimi decenni, insieme ai lavori della Commissione parlamentare antimafia, hanno fornito uno spaccato diverso in merito alla presenza mafiosa in aree del Centro e Nord Italia laddove hanno negato, una volta per tutte, la presenza di “isole felici” all’interno del nostro Paese.

2. Cause, modalità e rischi dell’infiltramento mafioso nei territori non tradizionali

Nel 1994, con la relazione della Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno delle mafie in aree non tradizionali, si è avvertita la necessità di porre una rinnovata e più attenta focalizzazione sui territori settentrionali della penisola al fine di studiarne i livelli di infiltrazione e insediamento mafioso. Già in quelle pagine si riconoscevano le difficoltà riscontrate nell’analisi del fenomeno dovute, per un verso, alla concomitante presenza di diverse organizzazioni spesso tenute insieme da rapporti di connivenza per lo più ispirati a una sorta di pax mafiosa, per altro verso alle diverse modalità di azione che connotavano i sodalizi operanti nei nuovi territori i quali, seppur non abbandonando completamente i classici metodi violenti che li hanno contraddistinti fin dalle origini, agivano con modalità sempre più insinuanti nell’intento di poter svolgere tranquillamente i propri affari e conquistare fette più consistenti di consenso sociale[2].

Tra le ragioni giustificatrici individuate alla base dell’espansione della mafia in territori non tradizionali se ne individuano diverse. Se da un lato vi è chi sostiene come il fenomeno mafioso sia un fenomeno non esportabile in contesti nuovi e diversi rispetto a quelli originari – giustificato per via di quegli aspetti culturali ed economici che lo leggono come non riproducibile in contesti diversi da quelli meridionali[3] – dall’altro, alla base della trasportazione della realtà mafiosa vengono storicamente ricomprese le guerre di mafia, l’istituto del soggiorno obbligato e i flussi migratori che nel secondo dopoguerra hanno interessato i lavoratori meridionali in cerca di lavoro nelle più sviluppate regioni al Nord della Penisola[4]. Ciò che è certamente da considerare, tuttavia, è la strategia economica che la criminalità mafiosa ha perseguito nell’intento di ampliare il raggio di azione dei propri traffici da cui si desume come, alla base della scelta di dislocazione, vi sarebbe una giustificazione legata alla redditività di un determinato territorio particolarmente promettente sia per il compimento di determinati affari, sia per lo svolgimento di attività di riciclaggio di danaro proveniente da attività delittuose. Inoltre, insieme all’aspetto economico, nelle valutazioni compiute dalla criminalità ha certamente assunto rilievo la collocazione strategica delle regioni settentrionali e la maggiore estensione delle loro reti di infrastrutture e delle vie comunicazione, le quali hanno senza dubbio rappresentato una rotta interessante per la realizzazione dei traffici mafiosi.

Va poi naturalmente chiarito come ciò che ha contribuito alla diffusione del fenomeno sia stata non solo la sottovalutazione e la conseguente mancanza di misure idonee a contrastarlo, ma anche la recettività dei territori colonizzati (nei quali sono stati accolti gli investimenti senza troppe preoccupazioni circa la provenienza illecita delle risorse) oltre alla connivenza di quei professionisti ed imprenditori pronti a mettersi a disposizione della criminalità mafiosa[5].

Appare quindi evidente come le modalità di infiltrazione e radicamento siano in realtà eterogenee e rappresentino il frutto di un intreccio di circostanze variamente combinate tra loro. Ne è la dimostrazione la tendenziale capacità delle organizzazioni di infiltrarsi non solo in quei contesti caratterizzati da un buon livello di sviluppo e dinamismo economico, ma anche la sagacia di ricavare vantaggi da situazioni di crisi offrendo liquidità ad imprenditori in gravi difficoltà o acquistando attività dissestate e vicine al tracollo al fine di realizzare operazioni di riciclaggio di danaro sporco. Sul punto è allarmante la relazione della Dia del primo semestre 2020 la quale mette in guardia dal pericolo che le mafie, sfruttando gli effetti drammatici che la pandemia di Covid-19 ha prodotto sull’economia del paese, possano proporsi come welfare alternativo sostituendosi alle Istituzioni attraverso forme di assistenzialismo a favore di singoli cittadini o imprese in dissesto – forti della loro presenza capillare sul territorio e della notevole disponibilità economica – salvo poi presentare il conto a coloro che, accettando il sostentamento mafioso, saranno inevitabilmente esposti al pericolo dell’usura[6].


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3. Le difficoltà giurisprudenziali nell’inquadramento del nuovo fenomeno mafioso: la mafia al Nord crocevia di orientamenti all’interno delle Corti

La mutevolezza del fenomeno mafioso ha reso poi necessaria una riflessione sull’appropriatezza dei mezzi di contrasto ad oggi disponibili, ponendo particolare attenzione sull’effettiva capacità repressiva dell’art. 416-bis c.p. sia nel caso di colonizzazione di nuovi territori da parte delle mafie “classiche”, sia quando si tratta di fenomeni “nuovi”, del tutto eterogenei e slegati dalle organizzazioni più antiche.

Negli ultimi decenni le Corti sono state chiamate a pronunciarsi in merito all’applicabilità dell’art. 416-bis c.p. a quei gruppi criminali stanziati nelle regioni del Nord Italia, i quali avevano mutuato la propria struttura, organizzazione e riti dalle associazioni tradizionali. Il problema che si è posto in dottrina e in giurisprudenza ha riguardato la possibilità di considerare associazioni di tipo mafioso quelle articolazioni periferiche di una mafia storica che, seppur collegata al sodalizio originario, non si siano ancora espresse attraverso degli atti di intimidazione percepiti e riconosciuti come tali nei territori di nuovo insediamento, in cui la società civile si presenta meno incline alla comprensione dei tradizionali codici di comunicazione della mafia.

Un esempio è dato dalla pronuncia del tribunale di Reggio Emilia del 31 ottobre 2018 emessa a conclusione del primo grado di giudizio del processo Aemilia sulla presenza della ‘ndrangheta in Emilia-Romagna. Nella pronuncia i giudici ritengono provata l’esistenza di una cellula ‘ndranghetista emiliana collegata alla casa madre di Cutro ma radicata nelle province di Reggio Emilia, Parma e Piacenza, il cui scopo era quello di infiltrarsi nel tessuto economico della regione anche grazie all’operato di quei professionisti, successivamente condannati per concorso esterno in associazione mafiosa, che hanno messo a disposizione della ‘ndrangheta emiliana le proprie competenze, capacità e conoscenze. Nello specifico i giudici di Reggio Emilia sottolineano l’esigenza di accertare un attuale ed effettivo atteggiamento intimidatorio da cui far discendere l’applicabilità dell’art. 416-bis c.p. e, pur ammettendone l’estrinsecazione attraverso modalità evocative e implicite, la Corte riconosce come nel caso di specie risulti sufficientemente dimostrata la pesante fama criminale del gruppo associativo creatasi sul territorio emiliano per via di atti intimidatori posti in essere fin dagli anni ’90, sfociata addirittura in fatti omicidiari legati alla guerra consumatasi tra i clan Dragone e Grande Aracri. Si tratta certamente di una fama criminale attraverso il quale il gruppo ha ampliato la propria sfera di influenza nella regione. Tuttavia, secondo i giudici di Reggio, l’elemento di novità nel modus operandi del locale emiliano si rintraccia proprio nel ricorso a strategie più raffinate (ma non meno insidiose) a cui il clan ha fatto ricorso per accreditarsi nell’ambiente regionale e tese a dar vita a una sorta di economia mafiosa emiliana[7].

4. Considerazioni conclusive

Se da un lato può ritenersi attualmente conclusa quella emergenza mafiosa che ha spinto il legislatore degli anni ‘80 ad introdurre la fattispecie associativa di reato di cui all’art. 416-bis c.p., non si può allo stesso modo affermare che la criminalità mafiosa sia stata definitivamente debellata poiché negli ultimi decenni abbiamo assistito a una sua evoluzione legata all’ampliamento della sua sfera di operatività e della sua influenza criminale anche all’interno delle pubbliche amministrazioni e nell’ambito di attività economico-imprenditoriali lecite e paralecite. Il risultato di una tale evoluzione ha portato a delle interpretazioni innovative della fattispecie associativa di cui all’art. 416-bis c.p. le quali ne avrebbero allargato le maglie di tipicità oltre i confini legislativamente delineati dal metodo mafioso di cui al comma 3, in evidente contrasto coi principi costituzionali di offensività, proporzionalità e ragionevolezza dando vita ad una fattispecie associativa a “geometrie variabili”[8] adattabile alla realtà criminologica di riferimento e con una conseguente degradazione degli elementi costitutivi tipici della fattispecie in elementi meramente accessori.

Ne consegue che se da un lato non possano negarsi le capacità adattive di cui deve godere una disposizione soprattutto se – come quella in questione – costituisce il frutto di una risposta dell’ordinamento formulata in piena stagione emergenziale, dall’altro va escluso un adattamento dei limiti della fattispecie che consentirebbe l’applicazione del reato associativo mafioso anche a quei sistemi che si basano unicamente su un’attività meramente corruttiva o estorsiva (come ad esempio ritenute quella del caso Teardo o della più recente inchiesta “Mondo di mezzo”).

Ciò che non può certamente negarsi è comunque il mutamento strategico delle nuove mafie che, pur non rinunciando ai metodi violenti, preferiscono ricorrere a pratiche corruttive e rapporti di tipo collusivo soprattutto in quei contesti territoriali di nuovo insediamento. Va poi aggiunto che, seppur il tendenziale rapporto paritario intercorrente tra corrotto e corruttore escluderebbe la necessaria condizione di assoggettamento e omertà richiesta dal paradigma dell’art. 416-bis c.p., appare comunque plausibile che lo stesso sodalizio possa utilizzare pratiche corruttive e conoscenze politiche per poi esercitare atti di intimidazione per così dire “tradizionali” nei confronti di coloro i quali non intendano adeguarsi.

E allora, nel tentativo di superare l’impasse interpretativo e di mantenere una posizione di equilibrio che sia rispettosa tanto dei principi costituzionali quanto delle esigenze di repressione di un fenomeno endemico come quello mafioso, potrebbe apparire opportuno porsi secondo una prospettiva de iure condendo auspicando che il legislatore intervenga con una rivisitazione del reato di cui all’art. 416-bis c.p. ovvero con l’introduzione di una fattispecie attenuata riferibile a quelle condotte associative caratterizzate da una minore intensità della carica intimidatoria ovvero alle più circoscritte dimensioni del sodalizio delocalizzato.

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Note

[1] Sciascia L., Il giorno della civetta, Milano, 1993, p. 57

[2] Comm. Parl. Antimafia, XI legislatura, Relazione su insediamenti e infiltrazioni di soggetti ed organizzazioni di tipo mafioso in aree non tradizionali (rel. Sen. Smuraglia), Roma 1994, pp. 11 ss. 

[3] Gambetta D., La mafia siciliana: un’industria della protezione privata, Torino, 1992, p. 351 ss.; Cfr. Sciarrone R., Mafie vecchie mafie nuove, Roma, II ed., 2009, p. 132 ss.; Pellegrini S., L’impresa grigia. Le infiltrazioni mafiose nell’economia legale, Roma, 2018, p. 92; 

[4] Sciarrone R., Mafie vecchie mafie nuove, Roma, II ed., 2009, p. 18; Sciarrone R., Mafie del Nord. Strategie criminali e contesti locali, Roma, 2019, p. 18;

[5] Comm. Parl. Antimafia, XI legislatura, Relazione su insediamenti e infiltrazioni di soggetti ed organizzazioni di tipo mafioso in aree non tradizionali (rel. Sen. Smuraglia), p. 21; 

[6] Direzione investigativa Antimafia, Relazione del Ministro dell’Interno al Parlamento sull’attività svolta e sui risultati conseguiti dalla Direzione Investigativa Antimafia, Primo semestre, Roma, 2020, p. 16 ss;

[7] Trib. Reggio Emilia, 31 ottobre 2018, n. 1155 

[8] Visconti C., I giudici di legittimità ancora alle prese con la «mafia silente» al Nord: dicono di pensarla allo stesso modo, ma non è così, in Diritto Penale Contemporaneo, 5 ottobre 2015, p. 2

Francesca Boscariol

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