Il governo Berlusconi, nell’ottobre del 2001, allo scopo conclamato di dover modernizzare il mondo del lavoro, procedeva alla diffusione del c.d. Libro Bianco sul mercato del lavoro, promettendo una vera e propria rivoluzione culturale.
In realtà, nonostante i suoi sostenitori lo preannunciassero come una assoluta novità, il testo del Libro Bianco, redatto da Marco Biagi e Maurizio Sacconi, commissionato dal Ministero del lavoro, rappresenta una semplice rivisitazione della relazione resa da Marco Biagi a Confindustria “
su quanto e come si sarebbe dovuto fare”[
[1]].
Non vi è dubbio, infatti, che fra i due testi, l’uno commissionato da Confindustria e l’altro dal Ministero del lavoro, vi sia piena coincidenza, alle volte fino alla materiale trasposizione di interi brani. Ed anche se il Libro Bianco, a differenza della relazione Biagi, è corredato da grafici, prospetti e da una serie di analogismi anglosassoni, il documento ministeriale può, senza tema di smentita, definirsi una mera elaborazione della relazione resa a Confindustria”[
[2]].
Con gli occhi rivolti al mercato e con questo grave vizio genetico, costituito dall’assenza di collegamento tra il progetto di riforma e gli interessi in gioco da tutelare, il Libro Bianco, quindi, preannunciava la modifica del sistema lavoristico e delle sue garanzie costituzionali.
In sintesi, si delineava un modello secondo cui l’aspettativa individuale del posto di lavoro avrebbe dovuto essere superata, con l’emancipazione del mercato dalle pastoie poste a garanzia del rapporto di lavoro, lasciandolo libero di scegliere tra i più convenienti tipi contrattuali alternativi.
A fronte di norme di rango costituzionale, che pongono il lavoro a fondamento della Repubblica (art.1 Cost.) e alla cui tutela dedicano buona parte dei principi fondamentali (artt. 2,3,e 4), si riscontra, in detto progetto, un difetto assoluto di garanzie nei confronti dei destinatari di effetti giuridici pregiudizievoli.
Queste riflessioni assumono maggior valenza se si considera che la scelta politica del nostro ordinamento, effettuata con gli artt. 41 e 36 Cost., ha anteposto la tutela dell’integrità della persona e del rispetto della “dignità umana” alla libertà di iniziativa economica, stabilendo che la retribuzione debba essere tale da assicurare una “esistenza libera e dignitosa” e, dunque, una partecipazione alla vita sociale senza il peso della sopravvivenza.
Non ci sono dubbi, quindi, che la nostra Costituzione abbia stabilito una netta priorità del ruolo esistenziale dell’individuo rispetto al ruolo della persona-lavoratore e che, nel contempo, per la persona-lavoratore siano stati approntati strumenti di tutela reddituale destinati a rimuovere la diseguaglianza ed ad assicurare un percorso di vita indipendentemente dall’apporto lavorativo (art. 38 Cost.).
Ebbene, seppure è chiara la necessità di un nuovo equilibrio tra le relazioni economiche, è altrettanto evidente che la coesione sociale è stata sacrificata sull’altare dell’efficienza dell’impresa.
In tale prospettiva, il 9 ottobre 2003 è stato pubblicato il decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276 che attua la delega conferita al Governo con la legge 14 febbraio 2003, n. 30.
Quest’ultima, in coerenza con il suo antecedente storico, il Libro Bianco, in piena contraddizione con il nostro impianto costituzionale, conferisce priorità al mercato, trascurando la persona del lavoratore.
A tale proposito Nisticò afferma che
“ la legge Biagi assegna priorità al mercato, modulando la sorte del lavoratore alle sue esigenze, sul presupposto, tutto da verificare, che il mercato stesso contenga in sé gli strumenti di riequilibrio necessari a salvaguardare l’individuo. La tutela del lavoratore -pensata e realizzata nel nostro ordinamento come prioritaria rispetto alle esigenze dell’impresa- diventa tutela per ricaduta, quasi eventuale”[
[3]].
In quest’ottica di accresciuta flessibilizzazione, al fine di giustificare le proprie politiche regolative, si afferma, altresì, di avere ritenuto necessario che una politica di riforma in materia di lavoro abbia come punto di riferimento le strategie sull’occupazione dell’Unione Europea che ha imposto a tutti gli Stati membri, modelli specifici di flessibilità.
Ciò, però, non può essere condiviso atteso che dalla lettura, seppure attenta, della documentazione comunitaria emergono solo obiettivi e linee guide, non già modelli preconfezionati da trasferire nel nostro paese.
In realtà, la citata documentazione contiene quell’insieme di prescrizioni deboli, soft law, che hanno la funzione di indirizzare e stimolare non certo quella di imporre modelli vincolanti.
In buona sintesi, per dirla come Carabelli, essa individua “
gli obiettivi generali e consensuali che gli Stati si sono impegnati a perseguire, lasciando liberi gli Stati di scegliere le modalità e gli strumenti per raggiungerli, ma sugli strumenti che i vari ordinamenti devono poi utilizzare per il loro raggiungimento, nonché sulle modalità da seguire a tal fine non intervengono assolutamente”[
[4]]
Dette prescrizioni, dunque, non hanno nulla a che vedere con una tutela basata sui diritti e garanzie che non può fondarsi su previsioni normative “deboli” dovendo assumere necessariamente la forma di una disciplina di carattere prescrittivo.
Inoltre, atteso che il d.lgs 267/2003 prevede una copiosa congerie di modelli contrattuali, c’è da chiedersi se in realtà tutti i tipi di lavoro regolati rispondano ad una logica economica, oltrechè giuridica, e se per caso vi sia
“ridondanza di strumenti disponibili, che creano concorrenza al ribasso tra diverse forme contrattuali simili e determinano ingiustificate disparità di trattamento e di tutela dei lavoratori, i quali sembrano esposti alla legge del caso piuttosto che alla legge del mercato”[[5]]
Ed invero, l’eccessiva frammentazione porta con sé il rischio di distogliere l’attenzione da quelle fattispecie lavorative essenziali per gli imprenditori e per i lavoratori, inaugurando una precarietà senza limiti.
Nisticò, nel rilevare che il mutamento di prospettiva di riforma si realizza attraverso la enunciazione di una serie di strumenti di flessibilità, afferma che non ci sono dubbi in merito al fatto che la flessibilità giovi all’impresa atteso che è “
interesse indiscusso dell’impresa il poter modulare il costo del lavoro alle fluttuazioni del mercato” e che “
essere parte di un contratto flessibile per l’imprenditore vuol dire assicurarsi la necessaria duttilità per mantenere costante il suo guadagno”[
[6]].
Ed ancora, rileva ulteriori vantaggi, affermando che la flessibilità “e quindi la precarietà, a parte i vantaggi contrattuali, finiscono per favorire l’imprenditore anche in altri conflitti, agevolando l’opera di destrutturazione della dimensione sindacale ed avvicinando sempre di più il lavoratore – lasciato in solitudine nel contratto- alle esigenze del suo datore di lavoro (…). E’ in questa assoluta destrutturazione della dimensione solidaristica e nella incentivazione alla competizione individuale che si realizza in senso intimo della riforma Biagi”. Secondo l’autore, peraltro, la condizione di precarietà comporterà un mutamento antropologico, dato che la tensione continua, finalizzata al mantenimento del posto di lavoro, alla competizione con i compagni di lavoro, alla contiguità culturale con l’imprenditore, finirà per conferire al lavoro quel ruolo teologico che non è proprio della natura umana, realizzando una identificazione mortificante fra il percorso di vita ed il percorso lavorativo.
Giunti a tal punto, al fine di meglio comprendere le ragioni poste a fondamento della riforma, giova soffermarsi, seppure brevemente, sul concetto di garanzia e sul modello di impresa, che utilizza nella propria azione gli strumenti della discrezionalità e della flessibilità, individuando nell’autonomia decisionale lo strumento idoneo a fornire adeguate risposte in termini di efficienza.
Dal quadro appena indicato sono facilmente intuibili le ragioni di scontro tra il principio di garanzia, che assoggetta l’azione ai principi a cui è informato il nostro ordinamento a tutela del cittadino e del lavoratore, e il principio di efficienza, orientato al raggiungimento dei risultati.
I due principi in detti modelli si presentano in chiave di tensione.
Detta riflessione, consente di formulare giudizi, non solo sulla tecnica normativa utilizzata, ma sulle scelte di fondo operate dal legislatore.
Ebbene, la riforma non ha assunto un giusto approccio alla questione lavoro, non preoccupandosi di disciplinare la materia in vista di un migliore funzionamento del sistema, in termini di occupazione e sviluppo, secondo una prospettiva di conciliazione.
In questo senso è auspicabile che il legislatore fornisca misure di sostegno sociale ed economico per scongiurare fenomeni di precarietà e, conseguentemente, pericoli per la coesione sociale.
Dette misure (interventi a sostegno del lavoratore da ricollocare, sicurezza sociale, formazione, servizi all’impiego efficienti, sostegni all’autonomia collettiva ecc.) renderebbero, con tutta probabilità, socialmente accettabile l’esercizio della flessibilità. Atteso, però, che la riforma non è stata presidiata da alcuna misura di sostegno, si deve ritenere che l’ampia flessibilità, introdotta nel mercato del lavoro, non sia in grado di aumentare l’occupazione e lo sviluppo, ma piuttosto a frammentare il lavoro esistente e a generare fenomeni di precarietà esistenziale.
Può, quindi, seriamente dubitarsi che la riforma sia in grado di garantire il giusto contemperamento delle diverse esigenze quali la protezione del lavoro, la maggiore occupazione, nonché lo sviluppo delle imprese e della loro capacità di competere in un mondo globalizzato.
La legge in questione, piuttosto, paga il prezzo del proprio peccato originale fondato sull’ idea che una maggiore flessibilità del lavoro e l’eliminazione di vincoli concertativi siano gli strumenti idonei per stimolare l’occupazione e lo sviluppo, senza considerare il contesto nel quale è destinata ad operare.
L’analisi effettuata da Nisticò e Carabelli trascura tali prospettive che, di contro, vengono evidenziate dalle riflessioni di Serravalli nel suo lavoro “Flessibilità, un rischio per la coesione sociale”.
Con riferimento alla legge 30/2003, l’Autore asserisce che la stessa, basandosi su un assunto erroneo, esprime l’idea “che non sia tanto la domanda effettiva a guidare lo sviluppo, ma il tasso di profitto”.
Prendendo a riferimento la letteratura internazionale, Seravalli ritiene che la deregolazione sia sostenibile solo se coadiuvata da forti politiche di sostegno della domanda, non producendo, in caso contrario, un aumento dell’occupazione aggregata in termini di unità di lavoro, ma piuttosto la suddivisione del lavoro esistente tra un numero maggiore di persone con conseguente rischio per la coesione sociale, per l’efficienza economica, e per l’equa distribuzione del reddito.
Dalla maggiore ripartizione del lavoro esistente fra un numero maggiore di persone discende, infatti, una riduzione della quota dei valori sul reddito, maggiori squilibri distributivi in generale e un maggior numero di lavori sottopagati, con conseguenze negative sulla stabilità e sulla crescita (Kitson, Martin e Wilkinson 2000).
Non vi è, dunque, correlazione fra rigidità del mercato del lavoro e andamento della disoccupazione; altrimenti ci si dovrebbe attendere una maggiore diminuzione della disoccupazione in paesi con regimi di lavoro più deregolati, ciò, tuttavia, non trova riscontro nella realtà.
Seravalli, inoltre, prospetta due rimedi avverso gli effetti destabilizzanti: uno è diretto ad individuare le condizioni perché gli shock e l’instabilità vengano assorbiti, con immediatezza, da uno degli attori: “che se ne faccia carico nel breve periodo confidando che possa ripagarsi sul lungo”; l’altro è finalizzato a determinare nel sistema economico ”una parte dell’attività produttiva da sottrarre a tali shock e fluttuazioni”.
L’idea della regolazione fa riferimento alla prima, individuando nel lavoro e nel potere contrattuale dei lavoratori la parte che se ne deve addossare il carico.
La seconda cura, invece, evidenzia l’utilità delle politiche a sostegno della domanda di mano pubblica o comunque sottratta alla fluttuazione delle attività private.
In piena aderenza con l’analisi di Drezè, che prende le mosse dall’efficiente distribuzione dei rischi e dei redditi, l’Autore afferma che siccome “famiglie (lavoro) ed imprese (capitale) sono interdipendenti, uno spostamento dei rischi maggiormente a carico del lavoro ed uno spostamento dei redditi maggiormente a favore delle imprese non garantiscono affatto alle stesse imprese maggiori certezze e maggiori possibilità. Si può sostenere, anzi, che mentre si agisce lungo la seconda via, essa non può essere sostitutiva della politica(non solo congiunturale ma anche “strutturale”) della domanda”.
Le esperienze positive di flessibilità degli Stati Uniti trovano riscontro nella capacità di sostegno della domanda; non è quindi la deregolazione a sostenere la crescita della produttività, ma è la crescita della produttività che rende sostenibile la flessibilità del mercato del lavoro. Questo modello, però, mal si adatta alla realtà europea per la quale è meglio adottare forme flessibili di impiego solo nella fase di ingresso al lavoro, non rinunciando alla centralità del lavoro fisso nello stock dell’occupazione.
A questo punto, prendendo a riferimento la dimensione nazionale, bisogna chiedersi se la maggiore flessibilità del mercato del lavoro, introdotta con la legge Biagi, sia idonea a promuovere l’occupazione e lo sviluppo.
Sembra che detta riforma non abbia contribuito a far crescere l’occupazione aggregata in termini di unità di lavoro né, tantomeno, ha dato una spinta all’economia (dal 2003 l’Italia registra una crescita zero; l’Istat nel 2005 e 2006 conferma: “Paese fermo”).
Volendo, quindi, formulare un bilancio della riforma, si osserva che il d.lgs 276/2003, nel riscrivere le regole giuslavoristiche, abbia fatto una scelta precisa in senso più favorevole al datore di lavoro, rinunciando a realizzare un’adeguata protezione del lavoratore così come prescritta dalla Carta costituzionale[
[7]].
Quanto sopra, nel preciso intento di consentire agli imprenditori una diminuzione dei costi di produzione e un recupero di competitività sui mercati internazionali, trascurando del tutto le conseguenze che tali politiche possono produrre sul sistema sociale ed economico anche in termini di riduzione dei consumi, e, conseguentemente, della domanda interna.
Né, tantomeno, possono condividersi le osservazioni dei sostenitori della riforma i quali ritengono che la protezione dei lavoratori debba essere affidata ai meccanismi di mercato.
La riforma, infatti, non è in grado di scongiurare la povertà e l’emarginazione, atteso che la coesione sociale non può, di certo, dipendere dalla competitività delle imprese.
Ed ancora, in merito al ruolo svolto dal sindacato sembra potersi concludere, senza tema di smentita, che il Governo non abbia voluto assegnare alle organizzazioni sindacali un reale potere di controllo delle scelte dell’imprenditore[
[8]].
Ma non solo, se si presta attenzione al rapporto tra eguaglianza e flessibilità e tra diritti fondamentali e politiche del lavoro non può non rilevarsi che si corre il rischio che il processo di “
destrutturazione sistemica” del rapporto di lavoro sviluppatosi con il decreto 276 crei nuove differenze, sempre più accentuate, tra lavoratori “
tipici ” e “
atipici”, differenze che devono essere valutate alla luce del principio di uguaglianza, per verificare in che misura esse finiscano nel tradursi in discriminazioni[
[9]].
Il fatto, poi, che per quasi tutti i nuovi lavori sia stato conclamato il principio di non discriminazione e di parità di trattamento non è di per sé bastante a fornire sufficienti garanzie del loro effettivo rispetto.
Per vero, alcune norme che sanciscono il principio di eguaglianza e di parità di trattamento evidenziano, di contro, come il legislatore abbia utilizzato espressioni (complessivamente, riproporzionamento, comparativamente) che, agevolano la disparità di trattamento proprio per le evidenti difficoltà di attribuire loro un preciso significato.
È evidente, altresì, che il tema della flessibilità sia stato affrontato senza conoscere la realtà nazionale e, conseguentemente, in assenza di un chiaro disegno per un giusto assetto degli interessi in gioco.
Ciò rende necessaria una puntuale rivisitazione della disciplina del lavoro che affronti il delicato rapporto degli interessi in conflitto, nel rispetto delle tutele costituzionali e delle sempre più richiamate garanzie internazionali.
Sicché è facile ritenere che, fino a quando non si metterà mano sulla materia, le esigenze di salvaguardia delle prerogative dell’impresa prevarranno rispetto a quelle di tutela del diritto al lavoro ancorato al rispetto della dignità e del valore della vita dell’uomo. A tale proposito Bentivoglio, nel tentativo di dimostrare che i modi e i tempi del lavoro così come fissati nella legge Biagi avranno pesanti ricadute in termini esistenziali sulla vita delle persone, afferma che “
il valore e il senso in cui ciascuno si riconosce, si costituisce sempre in un quadro di relazioni con gli altri di natura storico-sociale. La costituzione dell’interiorità, questa è la lezione di Hegel, nasce come fatto sociale e non come vicenda meramente individuale, per cui se il lavoro, in cui si condensa il fare sociale, non riflette alcun riconoscimento di significato e di volere dell’individuo che lo compie, esso lede l’individuo nella sua più profonda interiorità” [[10]].
A fronte di politiche neoliberistiche, di cui è figlia la legge Biagi, l’Autore enuncia principi fondamentali in tema di tutela dell’essere umano, rilevando che, in base all’universalità del principio del riconoscimento, la desertificazione spirituale del lavoro impoverisce le sorgenti stesse della creatività al di fuori dello stesso.
“Non ogni fare garantisce un riconoscimento”, aggiunge, poi, Bentivoglio, ma solo quello che si esplica nel futuro, identificandosi quest’ultimo con gli scopi che ci poniamo che hanno la funzione di orientare il presente e di arricchirlo.
Condividere ciò non vuol dire voler mettere la camicia di forza all’impresa, né, tantomeno, proporre una sorta di commistione tra il ruolo di quest’ultima e quello della politica; questi restano diversi perchè differenti sono i presupposti che giustificano l’operato dei due attori: l’imprenditore, attraverso la combinazione di capitali, strumenti e persone, deve dimostrare competenza e capacità nel raggiungimento dei risultati e il suo obiettivo è quello di realizzare maggiori profitti con minore spesa; il compito dei politici è quello di interpretare e rispondere ai bisogni della collettività, approntando una serie di garanzie a protezione del lavoro, dell’occupazione, delle imprese e, conseguentemente, dello sviluppo economico e sociale.
Sul punto, tuttavia, si fa fatica ad individuare una via univoca di approdo.
Non vi è, però, dubbio che nel ridisegnare gli equilibri il legislatore dovrà tenere conto di tutti gli interessi in gioco.
A ben vedere, si tratta di reinterpretare i ruoli assegnati alla politica e all’impresa e di prestare la massima attenzione agli ineludibili principi costituzionali.
Angela Bruno
Avvocato – Dirigente – Ufficio di Staff Avvocatura del Comune di Vittoria – RG.
Specialista in Scienze delle Pubbliche Amministrazioni
[[1]] Si legge in Rivista Italiana del diritto del lavoro, 2001
[[2]] Cfr, F.Nisticò, Riforma del mercato del lavoro – Precarietà del lavoro e precarietà esistenziale,
relazione alla conferenza dibattito tenutasi a Pisa il 15 dicembre 2003.
[[3]] F.Nisticò, Riforma del mercato del lavoro, Precarietà del lavoro e precarietà esistenziale, cit.
[[4]] U.Carabelli, giornate di studio 2001 dell’A.I.D.L.AS.S. su “Interessi e tecniche sulla disciplina del lavoro flessibile”Pesaro Urbino 24 e 25 maggio 2002.
[[5]] R.Santucci, Tutela senza lavoro e lavori senza tutela:uno statuto per rimediare?, relazione al convegno di Benevento 10 maggio2004.
[[6]] F. Nisticò, Riforma del mercato del lavoro – Precarietà del lavoro e precarietà esistenziale, cit.
[[7]] Voza, forma del contratto e trasformazione del rapporto part-time,in DLRI, 2001, n. 92, pp. 563 ss.
[[8]] Casadio, La riforma del mercato del lavoro. Dalla legge delega del Governo alla controproposta della CGIL, Roma, Ediesse, 2003, pp. 7ss.
[[9]] Carinci F, Una svolta fra ideologia e tecnica: continuità e discontinuità nel diritto del lavoro di inizio secoli, in MISCIONE, RICCI(a cura di), Organizzazione e disciplina del mercato del lavoro, TITOLI 1 E 2, Ipsoa, 2004, p. 33
[[10]] F.Bentivoglio, Riforma del mercato del lavoro – Precarietà del lavoro e precarietà esistenziale. Un filosofo ed un operatore del diritto sulla legge Biagi,relazione alla conferenza dibattito tenutasi a Pisa il 15 dicembre 2003.
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