(Riferimento normativo: Disp. att. cod. proc. pen., art. 39)
Il fatto
La Corte di Appello di Messina, in parziale riforma della sentenza emessa dal Tribunale di Messina, concedeva all’imputato il beneficio della sospensione condizionale della pena, confermando nel resto l’affermazione di penale responsabilità dello stesso e dell’altro imputato, in relazione al reato di concorso in truffa (così riqualificata l’originaria contestazione di insolvenza fraudolenta) e li condannava a pene ritenute di giustizia oltre che alla rifusione dei danni da liquidarsi in separata sede alla costituita parte civile.
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I motivi addotti nel ricorso per Cassazione
Ricorreva per Cassazione avverso la predetta sentenza e con atto unico il difensore degli imputati, deducendo i seguenti motivi: 1) violazione di legge e vizi di motivazione ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), c) ed e), in relazione agli artt. 96, 101, 122, 336, 333 e 337 c.p.p. in combinato disposto con l’art. 2703 c.c. per omessa declaratoria di improcedibilità dell’azione penale per difetto di valida querela rilevandosi, al riguardo, che la querela non fu presentata direttamente dal querelante ma da un soggetto (l’avv. S.) da lui delegato benché non nominato, nè previamente, nè successivamente, difensore di fiducia e benché non fosse desumibile aliunde una nomina tacita del predetto quale difensore di fiducia della persona offesa atteso che nell’atto stesso non era conferita alcuna procura speciale alla redazione od al deposito della stessa e che, successivamente, fu nominato un difensore di fiducia diverso da quello che ebbe a depositare l’atto di querela tenuto conto altresì del fatto che, non essendo il soggetto che ebbe materialmente a presentare la querela stato nominato difensore della persona offesa e neppure domiciliatario della stessa, lo stesso non avrebbe avuto neppure la possibilità di autenticare la sottoscrizione del querelante e
per tali ragioni, anche alla luce dei principi giurisprudenziali richiamati nel ricorso, si chiedeva che venisse emessa una declaratoria di improcedibilità dell’azione penale per difetto di valida querela; 2) violazione di legge e vizi di motivazione ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), c) ed e), in relazione agli artt. 110 e 640 c.p. e artt. 192 e 125 c.p.p. e art. 546 c.p.p., lett. e) atteso che la decisione impugnata sarebbe stata caratterizzata dall’affermazione di mere petizioni di principio e da valutazioni apodittiche in assenza di un concreto supporto probatorio posto che non sarebbe
stata fornita risposta alle petizioni difensive con le quali si erano evidenziate l’impossibilità di ritenere sussistente la condotta in contestazione e, comunque, l’impossibilità di sussumerla nell’ipotesi di reato configurata, difettando la prova di un accordo fraudolento perseguito dagli imputati, atteso che il mancato incasso dei titoli di credito – seppure formalmente imputabile alla modifica del soggetto legittimato alla relativa emissione, ovvero al mancato rinvenimento di provvista sui conti in parola nulla permette di ritenere che a monte fosse stato deliberato e deciso tale modus operandi e non già che lo stesso sia stato conseguenza delle successive vicende societarie che avevano interessato la D. e, con essa, le società alla medesima riconducibili; invece, secondo i ricorrenti, i fatti in esame avrebbero dovuto essere ricondotti nell’alveo di un inadempimento di mera natura civilistica difettando gli artifizi e raggiri al momento della conclusione dei negozi giuridici e, comunque, essendo necessario che detti artifici e raggiri erano stati tali da indurre essi stessi alla conclusione del contratto.
Le valutazioni giuridiche formulate dalla Corte di Cassazione
Il primo motivo di ricorso relativo alla sostenuta improcedibilità dell’azione penale per difetto di (valida) querela veniva ritenuto fondato.
Difatti, osserva la Corte, se la querela, depositata presso la Procura della Repubblica del Tribunale di Messina, conteneva la dichiarazione di “denuncia-querela” del legale rappresentante della ditta M. C. e l’elezione di domicilio presso lo studio dell’avvocato, in calce al documento vi è, poi, la delega ad un altro legale “affinché depositi la su estesa querela” e l’autentica della sottoscrizione del querelante da parte di costui.
A fronte di ciò, gli ermellini osservavano come la sentenza di primo grado fosse completamente silente sul punto della validità della querela mentre la Corte di appello, nel rispondere al relativo motivo di doglianza formulato dalla difesa degli imputati, aveva sostanzialmente richiamato il contenuto di una pronuncia asseritamente in termini dalla Cassazione aggiungendo che l’avvocato, che aveva autenticato la firma del querelante, era stato espressamente delegato a depositare la querela in Procura, con ciò essendogli stato conferito specifico mandato allo svolgimento di una concreta attività difensiva nel giudizio.
Orbene, alla stregua di ciò, rilevava il Supremo Consesso, sulla preliminare constatazione che il reato di truffa, per il quale era intervenuta la condanna degli odierni ricorrenti, fosse da ritenersi perseguibile a querela di parte non essendo stata – nè formalmente, nè in fatto contestata la circostanza aggravante di cui all’art. 61 c.p., n. 7, e dunque la decisione adottata dalla Corte di appello non era stata corretta.
In relazione a tale tematica processuale, inoltre, si dava atto che in materia, in presenza di una difformità di orientamenti giurisprudenziali, vi fosse stato un intervento delle Sezioni Unite di questa Corte (Sentenza n. 26549 del 11/07/2006).
Difatti, gli Ermellini facevano presente come alcune sentenze avessero stabilito che, “in tema di querela, affinché si configuri il potere eccezionale di autenticazione previsto in generale dall’art. 39 disp. att. c.p.p., e in specie, dall’art. 337 c.p.p., comma 1, è indispensabile la premessa della qualifica di difensore di una parte individuata: tale qualità peraltro non può discendere se non da una investitura, collegata ad adeguata manifestazione di volontà rivestita degli apparenti requisiti formali, onde in nessun caso è configurabile una prova presuntiva dell’incarico desunta da determinati comportamenti” (Sez. 4, n. 49131 del 03/10/ 2003; Sez. 5, n. 12288 del 28/09/1998; Sez. 5, n. 7520 del 21/05/1997) mentre, in altre sentenze si era, invece, sostenuto che è valida la presentazione di una querela autenticata da un avvocato, seppure questi non risulti in precedenza, ovvero nel contesto dell’atto, nominato difensore di fiducia, a condizione che sia possibile individuare una nomina tacita dello stesso da parte della persona offesa fermo restando che, per il vero, all’interno di questo indirizzo giurisprudenziale si distinguevano distinti orientamenti:
a) secondo il primo di essi, la nomina tacita può essere desunta dalla semplice autenticazione della firma della persona lesa e dall’attività contestuale alla sottoscrizione dell’atto di querela (Sez. 5, n. 4419 del 09/03/1997, dep. 1999; Rv. 213124; Sez. 5, n. 3719 del 23/U2/1993; Sez. 4, n. 21005 del 23/04/2001; Sez. 5, n. 13159 del 14/11/2000) e, in tale orientamento, si inserisce anche la sentenza richiamata dalla Corte di appello Messina nella sentenza qui impugnata e pronunciata in epoca successiva alle Sezioni Unite “Scafi” secondo la quale: “È valida la querela sottoscritta dalla persona offesa e, in calce, dal difensore che la ha depositata in Procura, considerato che in virtù dell’art. 337 c.p.p., comma 1, la querela presentata da un incaricato deve essere munita dell’autenticazione della sottoscrizione da soggetto a ciò legittimato e, quindi, ai sensi dell’art. 39 disp. att. c.p.p., anche dal difensore, nominato formalmente ovvero tacitamente” (Nella specie la Corte ha affermato che la nomina tacita è desumibile anche dalla presentazione dell’atto all’autorità competente ad opera del legale e che l’autentica del difensore, autorizzato dall’art. 39 predetto, può ritenersi assolta dal difensore mandatario e depositante, che abbia apposto la sua firma sull’atto di querela di seguito a quella del titolare del diritto) (Sez. 6, n. 13813 del 26/03/2015,; Sez. 5, n. 39049 del 09/10/2007). b) secondo altre decisioni, invece, la nomina tacita poteva essere desunta anche da comportamenti successivi alla presentazione della querela, tra i quali va ricompresa l’attività difensiva della parte svolta nel successivo giudizio (Sez. 5, n. 10917 del 22/10/1997,; Sez. 5, n. 8742 del 21/04/1999).
Orbene, una volta terminato questo excursus giurisprudenziale, i giudici di piazza Cavour, nella decisione qui in commento, dichiaravano di aderire alla tesi delle Sezioni Unite “Scafi” rispetto alla quale, ad avviso della Corte, appariva doveroso riportare i principali passaggi partendo dall’analisi delle norme giuridiche che regolamentano le formalità della querela.
Si osservava a tal proposito prima di tutto come la prima disposizione di legge da prendere in esame sia quella prevista dall’art. 337 c.p.p., comma 1 il quale stabilisce che “la dichiarazione di querela è proposta, con le forme previste dall’art. 333, comma 2, alle autorità alle quali può essere presentata denuncia ovvero a un agente consolare all’estero. Essa, con sottoscrizione autentica, può essere anche recapitata da un incaricato o spedita per posta in piego raccomandato”.
Orbene, da tale norma, la Suprema Corte ne faceva desumere che la querela può anche essere “recapitata” ovvero che può essere “spedita” a condizione però che l’atto rechi la “sottoscrizione autentica” del querelante fermo restando che, per un verso, tale espressione è stata sempre intesa dalla giurisprudenza di legittimità come quella di “sottoscrizione autenticata“, per altro verso, tale interpretazione è stata confermata dalla Corte costituzionale la quale ha espressamente affermato che “il recapito della querela mediante una persona incaricata o la spedizione per posta della stessa, in piego raccomandato, rappresentano una novità del codice di rito penale in vigore dal 1989. L’avere il legislatore previsto per tali forme di recapito la garanzia della reale volontà del querelante, sotto forma di sottoscrizione autenticata – come interpretata dalla Corte di cassazione – non costituisce lesione del diritto di agire in giudizio ai sensi dell’art. 24, comma 1, nè, a fortiori, del principio di obbligatorietà dell’azione penale, contenuto nell’art. 112 Cost.” (Corte costituzionale, sentenza n. 287 del 1995).
Posto, dunque, che la querela può essere recapitata o spedita solo se la firma del querelante è stata autenticata, viene in rilievo l’art. 39 disp. att. c.p.p., il quale stabilisce che “fermo quanto previsto da speciali disposizioni, l’autenticazione della sottoscrizione di atti per i quali il codice prevede tale formalità può essere effettuata, oltre che dal funzionario di cancelleria, dal notaio, dal difensore, dal sindaco, da un funzionario delegato dal sindaco, dal segretario comunale, dal giudice di pace, dal presidente del consiglio dell’ordine forense o da un consigliere da lui delegato” e,
dunque, la firma del querelante può essere autenticata anche dal suo difensore così che – ai fini della soluzione della questione in esame – è necessario accertare anzitutto quando un avvocato acquista nel processo penale la qualifica di difensore della persona offesa.
A fronte di tale quesito, i giudici di legittimità ordinaria osservavano come fosse il codice di rito a regolare espressamente tale ipotesi stabilendo, all’art. 101, cod. proc. pen., che “la persona offesa dal reato, per l’esercizio dei diritti e delle facoltà ad essa attribuiti, può nominare un difensore nelle forme previste dall’art. 96 comma 2” e quest’ultima disposizione di legge, a sua volta, stabilisce che “la nomina è fatta con dichiarazione resa all’autorità procedente ovvero consegnata alla stessa dal difensore o trasmessa con raccomandata”.
Orbene, in relazione a tale peculiare problematica processuale, i giudici di legittimità ordinaria mettevano in risalto il fatto che il primo indirizzo giurisprudenziale su riferito ritiene che la norma da ultimo citata debba essere interpretata in senso strettamente letterale e, partendo da tale premessa, giungeva alla conclusione che la nomina ha carattere formale e può essere solo espressa e che in nessun caso è configurabile una prova presuntiva dell’incarico difensivo, desunta da comportamenti che le parti possono avere in concreto tenuto.
Invece, il secondo indirizzo, rifacendosi a quelle decisioni della Cassazione secondo cui è possibile – con riferimento a tutte le parti private del processo – una nomina tacita del difensore, ben potendo l’atto di nomina essere desunto per fatta concludentia (Sez. 1, n. 12980 del 13/02/2004,; Sez. 4, n. 7962 del 27/04/1999), afferma che, in siffatte ipotesi, l’autenticazione della firma del querelante è validamente compiuta dal legale scelto dalla parte, pur se non è intervenuta una dichiarazione di nomina conforme ai requisiti prescritti dai citati artt. 101 e 96 c.p.p. rilevandosi al contempo come tale ultimo filone fosse stato ribadito in tempi più recenti anche da Sez. 3, n. 47133 del 24/04/2018, che ha stabilito che “in tema di formalità per la nomina del difensore, l’art. 96 c.p.p. non costituisce una norma inderogabile, ma tipicamente ordinatoria e regolamentare, suscettibile, pertanto, di una interpretazione ampia ed elastica “in bonam parteni”, con la conseguenza che i comportamenti concludenti idonei a documentare la riferibilità della nomina all’imputato costituiscono elementi sintomatici dell’esistenza di un rapporto fiduciario tra lo stesso imputato e l’avvocato che ha svolto di fatto le funzioni di difensore” sebbene subito avversato da Sez.1, n. 18244 del 02/04/2019, che ha, invece, stabilito che “la nomina del difensore di fiducia è atto formale che non ammette equipollenti, per la validità del quale è necessaria l’osservanza delle prescrizioni di cui all’art. 96 c.p.p., commi 2 e 3”.
Ciò posto, tornando a riesaminare le Sezioni Unite “Scafi“, si evidenziava come le stesse avessero però osservato che l’art. 96 c.p.p., comma 2, stabilisce che la nomina del difensore di fiducia è “fatta con dichiarazione resa all’autorità procedente ovvero consegnata alla stessa dal difensore o trasmessa con raccomandata”, e dunque una “dichiarazione” della parte costituisce – per espresso disposto legislativo – il requisito fondamentale per la validità della nomina del difensore e tale dichiarazione potrà anche essere orale se resa innanzi all’autorità giudiziaria o alla polizia giudiziaria, che ne cureranno la verbalizzazione; ma deve, per ovvi motivi, essere effettuata per iscritto nelle ipotesi in cui l’atto di nomina sia consegnato o spedito all’autorità che procede.
Si tratta infatti, rileva la Corte, pur sempre di una dichiarazione che non necessita di formule sacramentali come quelle richieste dall’art. 83 c.p.c. per la procura alle liti e ciò in quanto la disciplina prevista dall’art. 96 c.p.p. si distingue da quella del codice di procedura civile per una maggiore duttilità, conseguente alle differenze tra i due tipi di processo: è quindi sufficiente – ai fini della validità della nomina del difensore del querelante – che quest’ultimo abbia chiaramente manifestato, con una sua dichiarazione, la volontà di essere assistito da un determinato avvocato e sarà compito del giudice stabilire, di volta in volta, se le espressioni utilizzate dalla persona offesa nell’atto di querela sono sufficienti a dimostrare la sua volontà di nominare quale difensore di fiducia il legale che ha effettuato l’autenticazione della sua sottoscrizione: ovviamente, di tale suo convincimento il giudice dovrà fornire adeguata motivazione, esente da vizi logici.
Oltre a ciò, si rilevava come le Sezioni Unite “Scafi” avessero però anche evidenziato che la nomina del difensore non può essere desunta dalla sola circostanza che il legale abbia autenticato la firma del querelante posto che tale semplice atto è ambiguo e quindi di per sé inidoneo a dimostrare che la persona offesa intendeva nominare quale suo difensore di fiducia proprio l’avvocato che lo ha compiuto.
Tal che se ne faceva conseguire la necessità che la parte lesa abbia reso nella querela altre dichiarazioni dalle quali potere ricavare la sua volontà di essere assistita dal legale che ha autenticato la firma fermo restando che queste dichiarazioni non possono essere sostituite dai così detti “fatti concludenti” posteriori alla presentazione della querela stessa quali, ad esempio, la circostanza che l’avvocato abbia effettivamente assunto il ruolo di difensore nel corso del successivo giudizio dato che, se al momento dell’autenticazione della firma del querelante mancava la dichiarazione di nomina del difensore, la querela recapitata da un incaricato o spedita per posta è invalida e la successiva attività materiale compiuta dalle parti non può in alcun caso avere un effetto di sanatoria o di ratifica di quell’atto, nè dell’attività di certificazione posta in essere da chi era carente del relativo potere.
Quando invece nella querela sono contenute altre dichiarazioni della persona offesa, dalle quali può ragionevolmente desumersi che quest’ultima intendeva nominare quale difensore il legale che ha effettuato l’autenticazione della firma, si afferma invece che tale autenticazione è perfettamente valida e conseguentemente anche la querela è idonea a dispiegare tutti i suoi effetti.
Le Sezioni Unite “Scafi” hanno, poi, rinvenuto, nel caso che era stato sottoposto alla loro attenzione, un ulteriore elemento dal quale desumere la nomina del difensore attraverso la elezione di domicilio nello studio dello stesso ed hanno quindi enunciato il seguente principio di diritto: “In tema di presentazione dell’atto di querela, è valida l’autenticazione della firma del querelante effettuata dal difensore anche quando questi non sia stato nominato formalmente, sempre che la volontà di nomina possa essere ricavata da altre dichiarazioni rese dalla parte nell’atto di querela, quale l’elezione di domicilio presso il difensore che ha autenticato la sottoscrizione” e
tale principio è stato successivamente ribadito anche da questa Sezione della Suprema Corte (cfr. Sez. 2, n. 9187 del 02/02/2017).
Orbene, declinando tali criteri ermeneutici rispetto al caso di specie, poiché l’atto di querela in questione non conteneva alcuna espressa dichiarazione di nomina dell’avv. F. S. (che ebbe ad autenticare la sottoscrizione del querelante ed a depositare il relativo atto), nè risultava che lo stesso avvocato avesse difeso il querelante in una fase successiva del procedimento, la querela, ad avviso della Corte, non risultava formulata e presentata nel rispetto delle condizioni di legge il che determinava l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata per difetto di condizione di procedibilità dell’azione penale.
Conclusioni
La sentenza in questione è assai interessante in quanto, nell’affermare che la nomina del difensore non può essere desunta dalla sola circostanza che il legale abbia autenticato la firma del querelante, chiarisce invece quando può ritenersi sussistente questa nomina.
Difatti, in questa pronuncia, gli Ermellini ritengono che, ove non si sia proceduto a norma dell’art. 101, c. 1, c.p.p. (in riferimento al rinvio in esso operato all’art. 96, c. 2, c.p.p.), la parte offesa nomina un legale in querela anche quando: a) la parte lesa abbia reso nella querela altre dichiarazioni dalle quali potere ricavare la sua volontà di essere assistita dal legale che ha autenticato la firma le quali non possono essere sostituite dai così detti “fatti concludenti“; b) nella querela sono contenute altre dichiarazioni della persona offesa, dalle quali può ragionevolmente desumersi che quest’ultima intendeva nominare quale difensore il legale che ha effettuato l’autenticazione della firma; c) dalla volontà di nomina possa essere ricavata da altre dichiarazioni rese dalla parte nell’atto di querela, quale l’elezione di domicilio presso il difensore che ha autenticato la sottoscrizione.
Il giudizio in ordine a quanto statuito in siffatta pronuncia, proprio perché fa chiarezza su tale tematica processuale, di conseguenza, non può che essere positivo.
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