La nullita’ degli “interest rate swap” stipulati da enti pubblici: i contratti derivati al vaglio delle sezioni unite

Sommario: 1. La questione giuridica – 2. La vicenda – 3. Il ricorso principale – 4. La decisione – 5. Considerazioni finali

Riferimenti normativi: art. 119, comma 6, Cost.; art. 202 T.u.e.l.; art. 41, comma 1, L. n. 448/2001; art. 30, comma 15, L. n. 289/2002; D.M. n. 389/2003; L. n. 133/2008; art. 42 T.u.e.l.; art. 1, comma 572, L. n. 147/2013; art. 1, comma 3, T.U.F; art. 35 L. n. 724/1994; art. 2 Reg. d’attuazione n. 420/1996; art. 41 L. n, 448/2001.

Precedenti giurisprudenziali: Cass. n. 10598 del 19 maggio 2005; Cass. pen. n. 47421 del 21 dicembre 2011; Cass. n. 18781 del 28 luglio 2017.

La questione giuridica

La questione oggetto di disamina da parte delle Sezioni Unite rappresenta un intervento dirompente in materia di derivati finanziari, a lungo oggetto di accese querelle in dottrina e giurisprudenza.
La sentenza svolge rilievi incisivi in tema di razionalità e causalità dei derivati, spingendosi a tracciare delle linee guida finalizzate al rispetto di standards per la tutela dei contraenti coinvolti in siffatte operazioni e, in generale, della trasparenza e stabilità del mercato finanziario.

Oltre a riordinare, sistematizzare ed esplicitare una disciplina quanto più univoca e corposa in tema di contratti derivati, il provvedimento si pone come punto d’inizio di una verosimile stagione di restituzione, ai contraenti, delle commissioni e delle perdite legate alle operazioni in questione, attesa la presa di posizione dei giudici sulla validità degli swaps in relazione alle autorizzazioni necessarie da parte degli Enti locali.

Una precisazione appare doverosa: sebbene l’intervento de qua si riferisca precipuamente alle Amministrazioni locali, che nell’ultimo decennio hanno fatto, per i motivi più disparati, incetta di tali operazioni, è innegabile che i suoi principi saranno plausibilmente suscettibili di trasposizione ed applicazione anche ai contraenti privati.

La vicenda

La vicenda fattuale trae origine dalle domande avanzate dal Comune al Tribunale di Bologna, volte all’accertamento della nullità o all’annullamento o alla pronuncia di inefficacia sopravvenuta, ai sensi del D.M. 389/2003, di alcuni interest rate swap conclusi con la Banca, oltrechè alla condanna di quest’ultima alla restituzione dei pagamenti ex art. 2033 c.c., o in subordine al risarcimento del danno da qualificarsi in relazione ai “differenziali negativi attesi”.

L’adito Tribunale respingeva le domande di parte attrice, che proponeva appello.
La Corte d’Appello di Bologna accoglieva l’impugnazione proposta dall’Ente locale, ritenendo fondata la doglianza secondo la quale i contratti di swap, in ispecie quelli includenti clausole iniziali di upfront, rappresenterebbero forme d’indebitamento per l’Ente locale, stante la loro innata aleatorietà.
I giudici del gravame, inoltre, pur rilevando che la norma che per prima ha qualificato l’upfront come indebitamento fosse postuma ad i contratti oggetto di controversia, ha sostenuto che comunque nulla vietasse di interpretare i suddetti negozi in tal senso, anche prima della sua entrata in vigore.
La Corte evidenziava poi che nessuno dei contratti in esame contenesse il cd. “mark to market” (ovvero il valore attuale dei contratti al momento della loro stipula), elemento, che secondo una consolidata giurisprudenza di merito sarebbe essenziale e integrante la causa tipica degli swaps, per cui andrebbe necessariamente esplicitato.

La Corte accoglieva, poi, la posizione del Comune relativamente alla necessità che le delibere di richiesta degli swap fossero di competenza del Consiglio comunale, ai sensi dell’art. 42 T.U.E.L., essendo queste impegnative dei bilanci per gli esercizi successivi.

Da ultimo, i giudici d’appello rilevavano la mancanza, nei tre negozi oggetto del contendere, di un riferimento ad hoc ai mutui sottostanti relativamente ai quali i contratti erano stati stipulati.
La Corte d’Appello di Bologna riformava pertanto la sentenza di prime cure, pronunciando declaratoria di nullità e inefficacia dei contratti oggetto di domanda giudiziale per difetto dei requisiti di cui all’art. 1346 c.c., e disponendo la reciproca ripetizione delle somme da ciascuna corrisposte all’altra sino al 30 gennaio 2010 con annessi interessi da calcolarsi dal giorno di proposizione della domanda giudiziale

 

Avverso la pronuncia della Corte d’Appello, proponeva ricorso per cassazione la Banca, a cui resisteva il Comune anche mediante ricorso incidentale condizionato.

Attese le problematiche sollevate, relative a questioni definite dalla Prima sezione civile come “cruciali per la validità dei contratti swap conclusi dai Comuni”, e la presenza di pronunce contrastanti in materia, questa, con ordinanza interlocutoria n. 493 del 10 gennaio 2019, rimetteva la causa al Primo Presidente per l’assegnazione alle Sezioni Unite, chiedendo di pronunciarsi sulla possibilità di qualificare l’impegno del Comune alla stipula del contratto derivato come indebitamento volto a finanziare spese differenti dall’’investimento, sulla competenza dell’organo chiamato ad assumere la delibera relativa a tali operazioni e, infine, se, nel periodo che interessa, fosse consentito al Comune concluderle.

Il ricorso principale

Il ricorso principale della Banca si articola in cinque doglianze.

Con il primo motivo si censura l’affermazione del giudice di gravame secondo la quale il contratto swap, a fortiori se contenente la clausola upfront, costituirebbe una modalità di indebitamento per l’ente pubblico proprio per via della sua natura aleatoria.

Il secondo motivo investe la sentenza impugnata laddove essa si pronuncia nel senso di una competenza del consiglio comunale per l’adozione delle delibere volte all’accensioni di derivati swap.
Con il terzo motivo, il ricorrente deduce la totale mancanza, nell’ordinamento italiano, di una norma che legittimi il principio, fatto proprio dai giudici d’appello, secondo il quale l’upfront avrebbe dovuto, già dall’origine (ovvero sin dai primi atti amministrativi che approvavano le operazioni), essere espressamente finalizzato a spese d’investimento.

Il quarto mezzo di cassazione è volto alla censura della declaratoria di nullità dei contratti swap, che la Corte d’Appello ha accertato per difetto di causa ed oggetto.

La quinta censura, infine, è rivolta all’affermazione, contenuta nella sentenza gravata, secondo la quale il cd. “mark to market” costituirebbe elemento essenziale ed indefettibile, a pena di nullità, dei contratti swap.

La decisione

Prima di addentrarsi in media res, le SS.UU. assumono un’importante presa di posizione, affermando che, data la notevole varietà di contratti derivati esistenti nella prassi finanziaria, non sia possibile individuare una disciplina univoca del fenomeno, il quale, pertanto, sarebbe da intendersi solo in un’ottica economica.

Alla luce di ciò, secondo gli Ermellini, l’esistenza di una delega, nell’art.1, comma 2 bis, del T.U.F., al Ministero dell’economia e delle Finanze per l’elencazione di nuovi potenziali contratti derivati, sarebbe soltanto una sorta di “presa d’atto” del legislatore circa la loro esistenza, che continuerebbe a lasciare agli interpreti il compito della “reductio ad unum”, ove possibile.
Esaurita la premessa, le Sezioni Unite intentano un dovizioso esame della materia in questione, soffermandosi sulla fattispecie degli interest rate swap.

Le suddette operazioni, frutto dell’ingegneria economico-finanziaria, si sostanziano essenzialmente nell’assunzione di reciproche obbligazioni pecuniarie future che hanno natura d’interessi, da eseguirsi a condizione prestabilite e calcolate su una somma prestabilita (cd. “capitale nozionale”).
Essi rientrano nella nozione di contratti derivati (tali sono i contratti il cui valore deriva dall’andamento del valore di strumenti sottostanti), del genere over the counter (OCT), ovvero dal contenuto non standardizzato e non negoziati sui mercati sui mercati regolamentati, nei quali l’intermediario è la controparte diretta del suo cliente.

Ciò posto, la Suprema Corte, richiamando linee guida della giurisprudenza di merito, sintetizza gli elementi essenziali dell’interest rate swap, individuandoli nel:

1) la trade date, ovvero la data certa in cui il contratto è stato siglato;

2) il capitale nozionale, che serve da base per il calcolo degli interessi oggetto delle obbligazioni assunte dalle parti;

3) l’effective trade, intesa quale data dalla quale iniziare il calcolo degli interessi;

4)  la maturity date, ovvero la scadenza del contratto;

5) la data di pagamenti dei flussi d’interessi;

6) i tassi d’interesse (interest rate) da applicare al capitale nozionale.

I giudici di Palazzo Cavour precisano a questo punto quando uno swap vada inteso “non par”, ovvero squilibrato. Ciò accade principalmente quando sussista uno squilibrio contrattuale delle condizioni corrispettive iniziali. In tal caso, la disomogeneità è mitigabile con il pagamento, alla data di stipulazione, di un importo (chiamato upfront) nei confronti del soggetto svantaggiato, che riequilibri gli assetti.

Tuttavia, come i giudici ben rilevano, lo squilibrio può anche sopraggiungere in costanza di rapporto ed essere motivo di risoluzione contrattuale. In virtù della necessità che le parti siano messe in condizione di svolgere le loro prognosi sul destino del contratto de quo, è evidentemente necessaria la presenza del “mark to market” (MTM), il quale permette di stimare il costo al quale la parte può anticipatamente sciogliere il contratto o che un terzo estraneo, interessato, deve sostenere per subentrarvi.
Nei fatti, dunque, il MTM consiste sostanzialmente nella stima, rectius nella proiezione finanziaria del valore effettivo di una posizione contrattuale ad una certa data.

Sul punto, la Cassazione si sofferma ad esaminare la causa dei derivati interest rate swap e lo fa discostandosi nettamente da quel filone giurisprudenziale e dottrinale che vede in siffatte operazioni un’analogia con la causa delle scommesse ex art.. 1933 e ss. c.c..
A tal proposito, gli Ermellini affermano che tale qualificazione, oltrechè inesatta, sarebbe fortemente riduttiva, atteso che le operazioni di cui si discorre si formano su mercati finanziari, soggiacciono alle loro regole, attengono a rischi finanziari che possono riguardare le parti ma anche esserne estranei e concernono valori differenziali calcolati su flussi di denaro che si formano in lassi di tempo medio-lunghi. A fronte di ciò, la loro causa andrebbe rintracciata nella negoziazione e monetizzazione di un rischio.
Consequenziale alla natura della causa è la meritevolezza di tutela di siffatti contratti, ai sensi dell’art. 1322 c.c..

Invero, sostengono le Sezioni Unite, affinchè gli swaps siano validi, essi non devono solo contenere una causa ben delineata, ma debbono anche essere razionali.

La nozione di razionalità richiamata si lega, qui, al cd. rischio razionale, così definito per essere l’alea del contratto suscettibile di un’anticipata valutazione probabilistica.

Come ritenuto dagli Ermellini, infatti, ai fini della liceità degli interest rate swipes è necessario verificare se sussista un accordo tra intermediario e cliente sulla misura quantitativa e qualitativa dell’alea contrattuale e che tale accordo non si limiti alla previsione, seppur indispensabile, del mark to market, ma investa anche gli scenari probabilistici, di modo che le parti possano apprezzare pienamente la misura del rischio che stanno assumendo.

Vieppiù. Le Sezioni Unite fanno un ulteriore passo in avanti, proseguendo nel richiedere, sempre ai fini della liceità di tali operazioni, che l’intermediario, in qualità di mandatario del cliente/controparte, adempia a tutti obblighi informativi ed alle raccomandazioni necessarie prescritti ex lege.

Tali obblighi informativi devono includere anche i cd. costi impliciti.

Come si vede, i doveri imposti dall’art.21 T.U.F. su tutti gli intermediari finanziari a tutela dell’integrità dei mercati, acquistano delle connotazioni peculiari nella stipulazione di contratti over the counter come gli swap, stante il naturale stato di conflittualità che in essi si configura tra intermediario e cliente.

Per tutti questi motivi, tenendo conto che gli interest rate swap possono perseguire tanto finalità assicurative, tanto finalità di copertura dei rischi sottostanti, secondo la Cassazione essi vanno intesi come negozi a causa variabile.

Ogni affare andrà dunque valutato nel caso concreto e, in mancanza di una causa determinata o determinabile, esso dovrà dichiararsi nullo.

Nell’ultima parte della pronuncia, dopo aver doviziosamente delineato l’inquadramento normativo ed assiologico degli istituti al suo vaglio, la Suprema Corte si sofferma sulle domande poste in sede di Ordinanza interlocutoria.

Riguardo alla questione circa la capacità dell’Ente locale di sottoscrivere contratti swap, la Cassazione ha affermato che, sino al 2008, quando il legislatore ha imposto limiti più stringenti, agli Enti locali era comunque vietato concludere derivati speculativi, potendo essi siglare solo derivati di copertura.
Inoltre, pur essendo gli Ente locali legittimati a concludere derivati di copertura con qualificati intermediari finanziari, ai fini della loro validità era però necessaria una precisa misurabilità dell’oggetto del contratto, inclusiva del criterio del mark to market, degli scenari probabilisitici e dei costi occulti, così da ridurre al minimo e da rendere consapevole l’Ente dell’alea assunta con l’affare, per definizione in contrasto con i principi generali di contabilità pubblica.
A conclusione della pronuncia di totale rigetto del ricorso principale, i giudici di Piazza Cavour sostengono che, se l’interest rate swap siglato dal Comune incide sull’entità totale del suo indebitamento, la delibera sull’operazione è, a pena di nullità, di competenza del Consiglio Comunale.

Conclusioni

Il complesso quadro di coordinate fornite dalla Suprema Corte con tale pronuncia è senza dubbio pregevole di plauso, essendo stato tentato lo sforzo immane di riordinare, o quanto meno nelle intenzioni dei giudici, di chiarificare una disciplina troppo complessa e variegata.
Essendo i contratti derivati frutto di geniali intuizioni di matrice squisitamente finanziaria ed essendo gli stessi serventi a pratiche finanziarie delle più varie, è difficile immaginare di tracciare linee guida valevoli per tutte le categorie.

Suscettibile di qualche critica, a parere di chi scrive, è però la presunzione della sentenza di voler spiegare una sorta di effetto retroattivo, ponendo in dubbio la validità di contratti stipulati quando le prescrizioni da essa fornite non erano ancora positivizzate.

Qualche lacuna, inoltre, sembra essere stata lasciata in tema di “scenari probabilistici” che non vengono in alcun modo esplicitati.

Ciononostante, la dirompenza della pronuncia risiede comunque nell’aver indubbiamente aperto una stagione di “revisione”, da parte dei Comuni, dei contratti derivati siglati verosimilmente dalle Amministrazioni precedenti al fine di esperire, ove possibile, le adeguate azioni di tutela volte al recupero di preziose risorse finanziarie sottratte alla collettività.

Sarà, pertanto, interessante seguire l’operatività che le corti territoriali daranno in sede contenziosa alle linee guide ivi tracciate ed eventuali interventi, verosimilmente contrastanti con la sentenza, della CONSOB in materia.

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Dott.ssa Camilla Cellupica

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