Il lungo e tormentato dibattito che ha condotto alla stesura dell’art. 18 della L. 349 del 1986 è stato cagionato dal fatto che la nostra Costituzione, nata in un periodo nel quale non era compiutamente avvertita la rilevanza delle problematiche ambientali, non ha ad esse riservato particolare attenzione.
L’unico riferimento ai temi di carattere ambientale è, infatti, quello contenuto nella seconda parte dell’art. 9 ("la Repubblica ……… tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione") che, in considerazione della sua scarsa incisività, mal si prestava a configurare un vero e proprio "diritto all’ambiente salubre", di rilevanza costituzionale, in capo all’uomo ed alla comunità cui egli appartiene.
La lacuna venne, tuttavia, colmata, seppure in modo parziale e limitato, dalla giurisprudenza.
Invero, la Corte di cassazione a sezioni unite, con la nota sentenza n. 5172 del 6 ottobre 1979, utilizzando come punto di riferimento l’art. 32 della Costituzione (anziché il citato art. 9), ebbe ad affermare che il diritto alla salute "si presenta non solo come mero diritto alla vita ed all’incolumità fisica, ma (anche) come vero e proprio diritto all’ambiente salubre…".
In questo modo venne ampliata la portata dell’art. 32, sì da consentire la tutela di situazioni varie e complesse, aventi, tuttavia, come denominatore comune gli effetti negativi che determinate attività esplicano sulla salute del singolo; non va infatti dimenticato che l’importante affermazione delle Sezioni Unite è stata resa in una fattispecie (azione di danno temuto intrapresa da alcuni soggetti nei confronti della cassa del mezzogiorno che aveva intrapreso la costruzione di un depuratore di rifiuti dal quale provenivano esalazioni e rumori) in cui l’insalubrità dell’ambiente si prestava ad arrecare "nocumento al benessere biologico e psichico" dei privati che avevano intentato il giudizio.
Ragguardevole è stato lo sforzo operato dalla giurisprudenza della Corte dei Conti che, invero, quale giudice deputato a valutare gli illeciti posti in essere da funzionari ed impiegati pubblici che cagionano danni patrimoniali all’erario (artt. 82, 10 comma, L. contenz. St. e 52 T.U. imp. civ.) ha indubbiamente ricevuto maggiori sollecitazioni ad affrontare la tematica del danno ambientale.
Nello specifico, la Corte ha operato un interpretazione estensiva del "danno erariale", non più inteso come diminuzione patrimoniale rilevabile dalle scritture contabili (c.d. danno computistico e/o ragionieristico), ma anche come un danno pubblico alla collettività, ove questo sia suscettibile di valutazione economica(Corte dei Conti, Sez. I, 15-5-1973 n. 39, in Foro amm. 1973, I, 3, 247).
E’ in questo quadro normativo che viene introdotta dall’art. 18, l. 8 luglio 1986, n. 349 (Istituzione del Ministero dell’Ambiente e norme in materia di danno ambientale) una disciplina generale per il risarcimento del danno all’ambiente: “Qualunque fatto doloso o colposo in violazione di disposizioni di legge o di provvedimenti adottati in base a legge che comprometta l’ambiente, ad esso arrecando danno, alterandolo, deteriorandolo o distruggendolo in tutto o in parte, obbliga l’autore del fatto al risarcimento danni nei confronti dello Stato (comma 1).
Secondo la giurisprudenza costituzionale l’ambiente è “un bene immateriale unitario a varie componenti, ciascuna delle quali può costituire oggetto di cura e di tutela; il fatto che l’ambiente possa essere fruibile in varie forme e in differenti modi, così come possa essere oggetto di varie norme che assicurano la tutela dei vari profili in cui si estrinseca, non fa venire meno e non intacca la natura di bene unitario che l’ordinamento prende in considerazione” (C. Cost. 641/1987).
Su questa scia la Corte di cassazione civile ha di recente qualificato l’ambiente come "un insieme che, pur comprendendo vari beni o valori – quali la flora, la fauna, il suolo, le acque, ecc. – si distingue ontologicamente da questi e si identifica in una realtà, priva di consistenza materiale, ma espressiva di un autonomo valore collettivo, costituente, come tale, specifico oggetto di tutela da parte dell’ordinamento, con la L. 8-7-1986 n. 349" (Cass., 9 aprile 1992, n. 4362, inedita).
Ancora oltre è andata di recente la Corte di cassazione penale (sez. III) la quale, dopo aver confermato che l’ambiente costituisce una bene "unitario", ha sviluppato lo spunto delle Sezioni unite – che, come visto, avevano considerato "il valore estetico – culturale" del paesaggio come uno dei molteplici profili in cui è scomponibile il bene "ambiente" – giungendo così ad affermare che in esso sono ricomprese non solo le risorse naturali ma anche "il patrimonio storico – artistico … sicché ambiente è il contesto qualificato dalle risorse naturali e dalle stesse opere dell’uomo più significative giuridicamente protette …" (Cass., sez. III penale, 15-6-1993, in Riv. giur. amb. 1995, 481; in senso conforme, sia pure sulla scorta di diverse argomentazioni, Pret. Forlì, Sez. Cesena, 18-1-1992, inedita, cit. da Verardi, Raccolta di massime in materia di risanamento del danno ambientale e ruolo delle associazioni ambientaliste nel giudizio penale, in Quaderni C.S.M., n. 79/1995, pp. 710 – 711).
Acclarato quanto sopra, va rilevato che l’art. 18 non definisce in modo rigido il tipo di danno o pregiudizio cui accenna, lasciando, senza dubbio volutamente, alla giurisprudenza ed alla dottrina un certa autonomia di elaborazione.
La legge fa riferimento, quanto alla condotta "lesiva" a "qualunque fatto doloso o colposo in violazione di disposizioni di legge o di provvedimenti adottati in base a legge……..". Inoltre, ivi non ricorre, a differenza che nell’art. 2043, il sintagma “danno ingiusto”, ma si fa semplicemente riferimento al danno inferto all’ambiente attraverso deterioramenti, alterazioni, distruzioni.
L’art. 18, infine, evidenzia che non ogni lesione del bene ambiente pur generare responsabilità; il 10 comma, infatti, prevedendo espressamente l’illiceità dei fatti (dolosi o colposi) produttivi di danno posti in essere "in violazione" di una legge o di un provvedimento, supera il generico richiamo all’"ingiustizia del danno" contenuto nell’art. 2043 c.c.
E’ stato rilevato al riguardo che l’art. 18 si appalesa, pertanto, più restrittivo dell’art. 2043 c.c. richiedendo, a differenza di quest’ultimo, l’ulteriore condizione che lo specifico profilo ambientale sia tutelato espressamente da una specifica norma di legge (o da un provvedimento applicativo di essa.
L’illecito ambientale, inoltre, sebbene chiaramente disegnato sulla falsariga dell’art. 2043 c.c. è caratterizzato (a differenza di quest’ultimo.) dalla rigida individuazione dei soggetti legittimati ad agire giudizialmente per il risarcimento (Stato ed enti territoriali) e dell’evidenziata natura pubblicistica del bene tutelato.
L’adozione di un criterio di tipicità dell’illecito ambientale traduce l’intenzione del legislatore di sottrarre al giudice, autorità non legittimata politicamente, il ruolo di integrazione dell’ordinamento in un ambito nel quale avrebbe svolto sistematicamente – cioè in via tipica – una funzione di mediazione di conflitti sociali particolarmente complessi per la concorrenza di una molteplicità pressoché indefinita di interessi, con un rischio assai elevato di arbitrarietà delle decisioni.
Problematica è apparsa la qualificazione del danno ambientale. All’uopo si registrano due correnti di pensiero contrapposte.
Da un lato, la corte costituzionale (C.Cost. 641/’87) si è pronunciata per la natura patrimoniale del danno de quo. Questa conclusione è stata avallata anche da una parte della dottrina, la quale ha argomentato che la natura patrimoniale del danno va sostenuta se si reputa che l’ente pubblico competente possa assolvere l’obbligo di recuperare l’ambiente introducendo risorse naturali equivalenti a quelle distrutte delle quali sia risultato impossibile il ripristino: è questa la regola che ha trovato applicazione nell’ordinamento statunitense e che è stata ora accolta nella già richiamata direttiva comunitaria sulla responsabilità ambientale 2004/35/CE del 21 aprile 2004.
Altra parte della dottrina ,invece, asserisce che si tratterebbe di danno non patrimoniale, argomentando dagli effetti che ad esso la legge riconnette, effetti che sembrano trovare il proprio referente nel danno non patrimoniale, per due ordini di ragioni: la valutazione equitativa, ex art. 1226 c.c., alla quale viene affidata la liquidazione del danno e la vocazione sanzionatoria che caratterizza la norma, quale emerge in misura nitida dal secondo comma dell’art. 18.
Arrivando, ora, alla questione relativa ai rapporti tra l’art. 2043 c.c. e l’art. 18, dalla diversità strutturale tra le due disposizioni normative (diverso è il bene giuridico tutelato dalle due norme: le situazioni soggettive private dalla prima, l’ambiente come bene giuridico pubblico dalla seconda) sembrerebbe potersi desumere la conclusione che le due norme concorrano nella disciplina del danno ambientale cumulando i loro effetti. All’uopo autorevole dottrina (CASTRONOVO) ha affermato che l’elemento innovativo introdotto dalla legge n. 349 del 1886 consiste nell’aver conferito giuridica rilevanza, come fonte di responsabilità civile, al danno all’ambiente, come quid pluris rispetto alla perdita concernente i singoli beni. Pertanto, i soggetti privati, i quali risultino in pari tempo offesi in uno dei diritti ad essi riconosciuti dagli ordinamenti nazionali, potranno far valere il danno che sia in pari tempo ad essi derivato dalla lesione dell’ambiente.
In ultima analisi, un’ulteriore differenza che la l. 349/’86 presenta rispetto al modello di responsabilità tracciato nel Titolo IX, libro IV c.c. è data dal fatto che il comma 7 dell’art. 18 deroga al principio fissato dall’art. 2055 c.c., allorquando, escludendo la solidarietà, prevede che nell’ipotesi di concorso di più soggetti ciascuno dei coadiutori del danno risponde nei limiti della propria responsabilità individuale.
Rosa Geraci
Dottoranda di ricerca in Diritto Comparato presso la facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Palermo
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