1 – Premessa.
La giurisprudenza non s’era occupata, sin qui, degli effetti della cd. incandidabilità sul procedimento elettorale[1], se non con riguardo all’elezione dell’<<incandidabile>> alla carica di sindaco[2].
La vanificazione del procedimento elettorale, nel caso dell’elezione dell’incandidabile alla carica di sindaco (o, è lo stesso, alla carica di presidente della Provincia) era stata sancita come conseguenza, indiretta, dell’annullamento dell’elezione del sindaco, che porta con sé lo scioglimento del consiglio comunale. In tali ipotesi, cioè, non v’era stata una statuizione immediatamente riferibile alla legittimità del procedimento elettorale ed alla sua validità (meglio, alla sua invalidità)[3], giacché lo “scioglimento” del Consiglio Comunale era conseguenza delle norme che disciplinano il funzionamento, e non l’elezione, degli organi rappresentativi delle comunità locali, che prevedono lo scioglimento quando, per qualsiasi ragione, venga a cessare il Sindaco[4], o il Presidente[5].
La sentenza in commento, invece, prende in esame e risolve la questione inerente alle conseguenze della partecipazione al procedimento elettorale (per il rinnovo del consiglio comunale e del sindaco) dei cosiddetti incandidabili; di quei soggetti, cioè, che <<non possono essere candidati alle elezioni regionali, provinciali, comunali e circoscrizionali>>. Questione, questa, che non ha soluzione nel testo legislativo e che perciò necessita la considerazione della funzione della norma che l’ha introdotta nel sistema e, prim’ancora, una lettura sistematica della norme che disciplinano l’accesso al procedimento elettorale.
L’art. 15 della legge 19.3.1990 n° 55 –nel testo modificato dalla L. 16.1.1990 n° 16[6]- che statuisce che <<non possono essere candidati>> alle elezioni amministrative coloro che hanno riportato condanne per alcuni reati contro l’ordine pubblico e contro la pubblica amministrazione o nei cui confronti il tribunale ha applicato una misura di prevenzione (v. infra), non si occupa, infatti, delle conseguenze sul procedimento elettorale della partecipazione dell’<<incandidabile>>; ma, soltanto, delle conseguenze (recte: degli effetti) della <<incandidabilità>> sull’elezione o, anche, sulla nomina ad alcune cariche di coloro che sono colpiti da quella “sanzione”: il 4° comma sanziona di nullità l’elezione o la nomina di coloro che si trovano nella “situazione” di incandidabilità[7].
Gli effetti della partecipazione dell’incandidabile sul procedimento elettorale, così, sono stati considerati, per la prima volta dal Tar catanese[8], e, ora, dal C.G.A[9], sotto una diversa ottica. La questione sottoposta a quei giudici, infatti, riguardava –oltre, ovviamente, alla nullità dell’elezione dell’incandidabile, sottoposta al vaglio dell’A.g.o.[10]- la legittimità del procedimento elettorale.
Le questioni poste, prima, al Tar catanese, e, poi, in appello, al C.G.A. erano, infatti, sostanzialmente tre e possono, così, riassumersi:
a) è legittimo (o illegittimo) il risultato elettorale determinato dalla partecipazione dell’incandidabile?
b) e, risolta negativamente la prima questione, sono nulle le schede contenenti il voto di preferenza per l’incandidabile, ed il risultato va, quindi, corretto depurandolo dell’apporto di chi non poteva essere candidato e, quindi, votato?
c) oppure, in quanto l’illegittimità del risultato non può essere rimediata con la correzione, vanno annullate le elezioni?
Nell’occasione –offerta dall’<<incandidabilità>> di un candidato al Consiglio Comunale- è stata possibile una riflessione sulle conseguenze della partecipazione dell’incandidabile sul procedimento elettorale, oltre ché sulla elezione dell’incandidabile -questa, sì, normativamente considerata- capace di espandersi, oltre i confini del caso pratico e d’investire, direttamente, il criterio tradizionalmente affermato in riguardo al riparto di giurisdizione in materia elettorale.
2 – L’incandidabilità: una nuova ipotesi di incapacità giuridica speciale.
L’importanza della sentenza in rassegna è data, non tanto dal fatto che non esistono precedenti giurisprudenziali, quantomeno pubblicati, ma, soprattutto, dalla “nuova” soluzione data alle questioni sottoposte a quei giudici, che ha avuto, ed ha, come presupposto la sistemazione dogmatica della cd. incandidabilità.
Ciò che si coglie, immediatamente, nella sentenza del Tar catanese è, infatti, la percezione e l’affermazione della diversità della figura dell’<<incandidabilità>> rispetto a quelle altre “situazioni”, già note all’ordinamento, sanzionate con la nullità dell’elezione o della nomina (ineleggibilità) o della decadenza (incompatibilità): <<l’accertamento, … della condizione di non candidabilità … rifluisce indubbiamente a ritroso nel procedimento elettorale sin dal momento in cui tale qualità doveva essere accertata, vale a dire sin dal momento del controllo sui candidati delle liste ammesse alla competizione. A sua volta, poi, la nullità di un atto del procedimento si comunica agli atti successivi quando questi come nel caso in specie, si trovano in un rapporto di dipendenza causale e necessaria con l’atto nullo … l’illegittima partecipazione, perchè non candidabile ab initio, di un candidato in una competizione elettorale inficia e travolge tutti gli atti successivi (a quello che lo inserisce fra i candidati della competizione), che in quello annullato trovano il loro antecedente necessario determinando la necessità di ripristinare la situazione anteatta>>[11].
L’importanza di tali affermazioni, confermate dal giudice d’appello[12], sta nel fatto che si è riconosciuta nell’incandidabilità una nuova figura di incapacità giuridica (speciale), una situazione, cioè, che, a differenza dell’ineleggibilità e dell’incompatibilità, che come essa afferiscono al diritto di elettorato passivo, incide direttamente quel diritto (meglio, sulla legittimazione rispetto ad a quel diritto) e non, semplicemente, l’esercizio dello stesso.
Un contributo importante per la sistemazione del concetto di incandidabilità, sconosciuto all’ordinamento nazionale fino all’emanazione della L. n° 16/92[13], era venuto dalla Corte Costituzionale che l’ha, dapprima, ricondotto nella figura della ineleggibilità e, poi, ne ha sottolineato la specialità e specificità.
Ovviamente, lo sforzo ricostruttivo compiuto dalla Corte, siccome limitato alla considerazione delle questioni rimessegli, ed attinenti alla legittimità costituzionale della norma che ha introdotto la <<non candidabilità>>, non è giunto, e nemmeno poteva, alla definitiva sistemazione dell’istituto. La Corte Costituzionale, infatti, si è limitata ad assumere, in riguardo alla ratio legis, che il fenomeno inerisce a quello della eleggibilità (descritta come capacità di essere eletti o nominati ad alcune cariche negli enti locali) e, più, in generale alla capacità giuridica: la l. n. 16 del 1992 … per la prima volta introduce fattispecie di non candidabilità che incidono sulla costituzione delle assemblee elettive … che interferiscono sulla formazione della rappresentanza … ora, la previsione della ineleggibilità, e della conseguente nullità dell’elezione è misura che comprime, in un aspetto essenziale, le possibilità che l’ordinamento costituzionale offre al cittadino di concorrere al processo democratico[14].
L’alterità, che pure la Corte Costituzionale riconosce all’incandidabilità rispetto all’ineleggibilità –cui l’accomuna, per il fatto di inerire, entrambe, al diritto di elettorato passivo- è data, però, non soltanto dal momento, dalla fase, del procedimento elettorale, rispetto alla quale quella situazione giuridica esplica i suoi effetti; e che attiene, tutto sommato, al momento funzionale. La diversità ontologica della figura in discussione rispetto all’ineleggibilità e, ancor più, rispetto alla incompatibilità, è, infatti, costituita dalla indisponibilità della fattispecie che genera l’impossibilità di adire una carica elettiva negli enti locali o di mantenerla[15].
Come, giustamente, si afferma nelle sentenze in rassegna, l’incandidabilità è, quindi, una nuova “incapacità giuridica speciale”; come tale, ontologicamente e teleologicamente, diversa da quelle “situazioni” che, come essa, impediscono l’elezione o la permanenza in una carica pubblica, perché limitano, pongono delle condizione per l’esercizio del diritto di elettorato passivo.
Ed in ciò sta la novità. I fatti che importano l’incandidabilità, cioè, escludono il diritto di elettorato passivo (rispetto alle elezioni amministrative) e non soltanto l’esercizio dello stesso; e poiché escludono quel diritto, impediscono ai soggetti che ne sono colpiti, persino, di adire la situazione giuridica prodromica rispetto all’elezione: la candidatura.
La differenza, non è, quindi, da poco. Il non poter <<essere candidati>>, in tale prospettiva appare, com’è in effetti, la conseguenza, non la causa, della perdita del diritto di elettorato passivo; che non è, invece, riscontrabile riguardo all’ineleggibilità o l’incompatibilità. L’ineleggibilità e l’incompatibilità, infatti, se, come si diceva, limitano l’esercizio di quel diritto, discendono da situazione che l’interessato può (e deve) rimuovere prima di essere candidato o al momento in cui viene eletto, e che vanno perciò ascritte alla categoria della “incompatibilità”, che l’ordinamento pone in riguardo al possibile contrasto d’interessi tra l’eleggendo e l’ente che esso dovrebbe rappresentare[16].
A conferma di ciò è il fatto che le condanne per i reati di cui all’art. 15 della L. n° 55/90, non soltanto escludono il diritto di essere candidati, ma, anche, la permanenza nelle cariche indicate nella stessa norma.
Accade, così, che rispetto all’elezione o alla nomina ad alcune cariche può riscontrarsi come –a differenza della soggettività giuridica, che è un quid semplice (non può che esistere o non esistere)- la capacità giuridica è per sua natura un quantum, misurabile per gradi[17]. Possiamo, cioè, notare come la generale capacità <<ad essere titolari di situazioni giuridiche soggettive>>[18] possa essere graduata, tanto che, in riguardo a talune situazioni qualificanti, l’ordinamento esclude determinati soggetti (giuridici) da alcune situazioni giuridiche o da interi settori dell’ordinamento.
E la c.d. <<incandidabilità>> è proprio la manifestazione di come (della tecnica con cui) l’ordinamento opera la discriminazione fra i soggetti, cui pure riconosce la generale capacità giuridica, ponendoli in una situazione diseguale rispetto agli altri[19].
3 – La doppia giuridisdizione.
Il problema, di ordine pratico, che si pone con riguardo alla fattispecie considerate dalla sentenza in rassegna, è, innanzitutto, l’individuazione del giudice “competente” a conoscere delle controversie nelle quali sia dedotta l’illegalità del risultato elettorale, siccome determinato dalla partecipazione di chi non può essere candidato.
La riconduzione della <<non candidabilità>> nell’ambito dei fenomeni che ineriscono al diritto di elettorato passivo, ha indotto i giudici a ritenere che la giurisdizione su tale questione appartiene al giudice ordinario; e ciò perché l’art. 82 Dpr 57060 e art. 6 L. 103471 attribuiscono a quel giudice le questioni inerenti il diritto di elettorato passivo, quand’anche siano introdotte a mezzo dell’impugnazione della delibera che, ad esempio, in conseguenza dell’accertamento di quello status, ne ha decretato la decadenza dalla carica[20].
Da tale considerazione, ed in ragione del fatto che l’art. 84 del Dpr 5701960, attribuisce al giudice ordinario, così come al giudice amministrativo, il potere di correggere il risultato elettorale, potrebbe adirsi alla soluzione che il giudice ordinario, investito dell’accertamento dell’incandidabilità del componente di una lista, possa, anche, “ricondurre alla legalità” il risultato elettorale. Ciò, ovviamente, sarebbe possibile sol ché si ritenesse che le schede recanti voti per l’incandidabile, in quanto dati ad un soggetto “non candidato” sono nulli (v., però, infra)
L’individuazione dei limiti del potere del giudice ordinario in subiecta materia e, quindi, delle modalità con le quali realizzare quel risultato, dipende, infatti, dal coordinamento delle norme che attengono al riparto di giurisdizione in materia elettorale (art. 82 Dpr 57060 e art. 6 L. 103471), l’art. 5 L. n° 2248 all. E del 1865, che riconosce al giudice ordinario il potere di conoscere dei provvedimenti amministrativi allorché “si faccia questione di un diritto civile o politico, comunque vi possa essere interessata la pubblica amministrazione e ancorché siano stati emanati provvedimenti del potere esecutivo o dell’autorità amministrativa” (art. 2 L. 20.3.1865 n° 2248 all. E) e, infine, le norme che disciplinano la formazione degli organi rappresentativi degli enti locali[21].
Ovviamente, la giurisdizione del giudice ordinario dovrebbe escludersi nel caso che –com’è stato affermato dal Tar catanese, prima, e dal CGA, ora- all’illegittimità del risultato elettorale si possa rimediare, soltanto, mediante l’annullamento dell’atto che ne ha proclamato il risultato: al giudice ordinario, infatti, è normalmente precluso la pronunzia di annullamento del provvedimento amministrativo e nemmeno l’art. 84 Dpr n° 570/60 consente a quel giudice una pronunzia demolitoria: il giudice ordinario può soltanto correggere il risultato elettorale, non annullarlo.
Nella controversia decisa con la sentenza in commento s’è, però, dovuta registrare una pronunzia con la quale il G.O. ha declinato la propria giurisdizione sulla domanda di correzione del risultato elettorale, che era stata posta in uno con la richiesta di accertamento dell’incandidabilità, ancor prima che fosse negata la possibilità di corregere il risultato elettorale.
Il Tribunale di Patti, che pure ne era stato richiesto, passando dall’annullamento delle schede recanti voti di preferenza in favore dell’incandidabile, trasponendo alla questione dedotta innanzi a sé, l’affermazione, tradizionale, secondo la quale “competente” a conoscere delle (recte: la giurisdizione sulle) controversie riguardanti la regolarità del procedimento elettorale è il giudice amministrativo, ha declinato la propria giurisdizione su quella domanda[22].
Seppure deve condividersi il risultato (v. infra), non può, invece, condividersi il metodo. Quel giudice, infatti, non essendosi posto il problema del modo con cui l’illegalità del risultato doveva essere rimediata, non ha colto la novità della questione, e, quindi, non è riuscito ad apprezzare le differenze rispetto a quelle altre decise con le pronunzie che, prima dell’introduzione dell’incandidabilità, s’erano imposte di delimitare la potestas iudicandi del giudice ordinario e del giudice amministrativo in materia elettorale, attribuendo a quest’ultimo le questioni inerenti la legittimità dei voti espressi dagli elettori, giacché inerivano alla regolamentazione del procedimento elettorale ed alla determinazione del risultato, piuttosto che al diritto di elettorato passivo dei candidati.
In riguardo a ciò, deve sottolinearsi come al giudice ordinario (al pari del giudice amministrativo) è dato di correggere il risultato delle elezioni e sostituire ai candidati illegalmente proclamati coloro che hanno diritto di esserlo (art. 84 Dpr 5701960). Il giudice ordinario può, cioè, intervenire con poteri sostitutivi sul risultato elettorale, e non soltanto limitatamente al candidato (o ai candidati) in relazione al quale (o ai quali) è stata sollevata la questione di ineleggibilità, incompatibilità o di decadenza.
Ad aderire alla tesi sposata da quel Tribunale, dovrebbe, al contrario, negarsi che il Giudice Ordinario possa, in nessun caso, influire sul risultato elettorale. Necessario presupposto di quell’affermazione è, infatti, l’asserita incapacità del Giudice ordinario di conoscere dei vizi del procedimento elettorale -ancorché connessi alla partecipazione al procedimento elettorale e, quindi, all’elezione di chi é incandidabile eo ineleggibile- e di correggerli.
Riconosciuto, però, al Giudice Ordinario il potere di intervenire (per correggerlo) sul risultato elettorale, con poteri sostitutivi, è ovvio riconoscergli anche il potere di conoscere delle illegittimità del risultato elettorale che deriva dalla partecipazione di chi versa nelle condizioni cui la legge riconnette una limitazione al diritto di elettorato passivo o al suo esercizio. Ed infatti, se quel potere, discende dall’art. 84 del Dpr 5701960, l’individuazione dei limiti e, quindi, delle modalità con le quali realizzarlo, dipende dal coordinamento della norma in parola con quelle che incidono (in vario modo) sul diritto di elettorato passivo e con quelle che disciplinano la determinazione del risultato elettorale, e non, semplicemente, dalle norme sul riparto della giurisdizione in materia elettorale. Queste, infatti, riguardano solo indirettamente quel potere, giacché attengono ad un momento preliminare all’introduzione del giudizio: l’individuazione del giudice “capace” di conoscere della controversia.
Il Tribunale, per declinare la propria giurisdizione, doveva, quindi, accertare che, nel caso de quo, non era possibile la correzione del risultato elettorale, e che l’illegalità dello stesso era rimediabile, soltanto, con l’annullamento delle elezioni che gli era precluso.
In tal senso l’art. 84 Dpr 57060 consente al giudice ordinario di conoscere di questioni altrimenti rimesse al giudice amministrativo. In ogni altra ipotesi, infatti, al Giudice ordinario -in quanto non può pronunziare sentenze che incidano il provvedimento amministrativo (art. 4 della L. 20.3.1865 n° 2248 all. E)- é sottratta la giurisdizione sulle controversie nelle quali sia chiesto di revocare o modificare l’atto che si assume illegittimo[23].
Ciò trova conferma nel fatto che (prima dell’entrata in vigore della L. 16/92, modificativa dell’art. 15 della L. n° 55/90) il giudice ordinario aveva, senza difficoltà, affermato il potere di sostituire il “candidato (o i candidati) in relazione al quale (o ai quali) è stata sollevata la questione di ineleggibilità, incompatibilità o di decadenza”, senza preoccuparsi dell’incidenza della pronunzia sull’atto amministrativo che, così, veniva ad essere modificato.
I limiti di quel potere erano, così, individuati in considerazione dei vizi che inficiavano il risultato elettorale e di cui poteva conoscere l’A.G.O., costituiti dalle cause di ineleggibilità e incompatibilità, per rimediare ai quali era sufficiente sostituire a chi era impedito di essere eletto, o di permanere nella carica elettiva, colui che era meglio graduato fra i non eletti della stessa lista: non essendo impedito agli ineleggibili ed agli incompatibili di partecipare alle elezioni, l’illegalità del risultato era rappresentata dall’illegittima composizione dell’organo.
Ma se ciò è vero, l’introduzione della cd. incandidabilità necessitava di riconsiderare i limiti di quel potere e del modo di attualrlo, specie nel caso in cui si ritenga che il rimedio rispetto all’illegalità così determinatasi fosse l’annullamento delle schede votate, anche, per l’incandidabile (v. infra). Infatti, il criterio di riparto della giurisdizione elaborato dalla S.C., fuori della materia che qui ci occupa, prevede il concorso di due criteri: a) il criterio c.d. della <<causa petendi>>, secondo cui é competente l’A.G.O. a conoscere delle controversie che riguardano diritti soggettivi e il G.A. conosce delle controversie in cui si dibatta su interessi legittimi; e b) il criterio del c.d. <<petitum sostanziale>>, secondo cui é competente il giudice amministrativo se si chiede l’annullamento, mentre é competente il giudice ordinario se si chiede il risarcimento del danno[24].
Tale criterio, elaborato in relazione agli artt. 2 e 4 della L. 2248 all. E cit., sconta i limiti normalmente posti all’A.G.O., che può soltanto disapplicare, ma non anche revocare o modificare l’atto amministrativo[25]. L’art. 84 Dpr 57060, in quanto incide sui limiti entro cui va contenuta la decisione del giudice ordinario e, così, sul criterio c.d. del <<petitum sostanziale>>, elaborato dalla giurisprudenza[26], ricomprende nella giurisdizione del giudice ordinario le controversie in cui, ancorché si chieda la revoca o la modifica dell’atto amministrativo illegittimo (art. 84 Dpr 570), si faccia questione del diritto di elettorato passivo (art. 2 L. 2248 all. E cit. e art. 82 Dpr 57060 cit.). Con riguardo alla materia elettorale, cioè, il criterio di riparto è costituito unicamente dalla <<causa petendi>> e non, anche, dal <<petitum sostanziale>>; con esclusione, ovviamente, delle domande d’annullamento, proprio perché il potere di correggere il risultato elettorale, riconosciuto tanto al giudice amministrativo quanto al giudice ordinario, non comprende la pronunzia demolitoria.
L’art. 1 della L. 1692, nel caso si fosse assunto la possibilità di annullare le schede votate per l’incandidabile, avrebbe, così, indirettamente “ampliato” i poteri riconosciuti al giudice ordinario per la correzione del risultato elettorale (art. 84 Dpr 570 cit.), proprio perché il potere sostitutivo di quel giudice è teleologicamente orientato alla restituzione del risultato elettorale alla legalità. L’art. 84 del D.p.r. n° 570/60, cioè, ha anticipato la tendenza con la quale, recentemente[27], si tende a concentrare innanzi ad un solo giudice, per assicurare celerità alla tutela giurisdizionale, le controversie in ragione della “materia” cui esse attengono, evitando, così, la necessità di far ricorso a due diversi (ordini di) giudici. E d’altronde, le esigenze di celerità della decisione sono più dei giudizi elettorali rispetto ad ogni altro, giacché in tali ipotesi la necessità di ricorrere al giudice ordinario e poi a quello amministrativo, percorrendo tutti i gradi del giudizio, renderebbe inutile la decisione finale.
Affermare, quindi, come ha fatto il Tribunale di Patti, che l’individuazione dei limiti del potere di cui all’art. 84 Dpr 570 cit. é affidata al criterio di riparto della giurisdizione è, infatti, un’evidente petizione di principio; infatti, quel criterio, tutt’al più potrebbe escludere la giurisdizione del giudice ordinario, non, anche, segnare i limiti al potere dell’A.G.O. di intervenire sul risultato elettorale.
Affermata la giurisdizione del Giudice ordinario, il criterio per la delimitazione del potere di quel giudice di “sostituire ai candidati illegalmente proclamati quelli che hanno diritto di esserlo” va ricercato nelle norme che disciplinano l’accesso alle cariche elettive e la determinazione del risultato elettorale.
Altrimenti si finirebbe con l’affermare che al Giudice Ordinario é impedito di conoscere della legalità del risultato che esso è chiamato a correggere e, quindi, della legalità del procedimento che l’ha determinato. L’A.G.O. dovrebbe, così, limitarsi a dichiarare l’esistenza di una causa ostativa del diritto di elettorato passivo o del suo esercizio; cosicché sarebbe, sempre, devoluto al G.A., verificare le illegittimità da cui é inficiato il procedimento elettorale e, quindi, porvi rimedio. Ma una tale interpretazione -seppure mascherata dal riconoscimento al giudice ordinario di limitati poteri di intervento- é tale da rendere inutili sia l’art. 84 Dpr 57060 che l’art. 2 della L. 2247 all. E.
Altra cosa, ovviamente, è dire che le norme che disciplinano il riparto di giurisdizione in materia elettorale -e che hanno riguardo unicamente alla causa petendi- concorrono dall’esterno, a delimitare il potere del Giudice ordinario di sindacare la legittimità dell’atto di proclamazione del risultato elettorale. Il Giudice ordinario, infatti, può conoscere del provvedimento di proclamazione degli eletti solché sia in contestazione la candidabilità, l’eleggibilità o la compatibilità di taluno di essi. Di conseguenza, potrà conoscere soltanto dei vizi che la partecipazione o l’elezione di chi é incandidabile, ineleggibile o incompatibile ha determinato sul risultato elettorale; mentre, ogni altra questione che attenga alla legalità del risultato elettorale é rimessa al Giudice Amministrativo.
D’altronde, fin qui, non si é mai avuto alcun dubbio sul fatto che le questioni riguardanti le delibere in materia di incandidabilità, ineleggibilità e incompatibilità, in quanto attengono al diritto di elettorato passivo, sono devolute alla giurisdizione ordinaria[28].
Fenomeno, di certo, non nuovo né ripudiato dalla dottrina e dalla giurisprudenza é la c.d. doppia tutela, cui può farsi ricorso azionando innanzi all’A.G.O. ed al G.A., rispettivamente, posizioni di diritto soggettivo e di interesse legittimo, ove gli atti coinvolti da quelle domande incidano su entrambi tali “tipi” di situazioni[29]. Sicché, assunto che la partecipazione dell’incandidabile comporta l’illegittimità del procedimento e del risultato elettorale, ma non anche la nullità delle schede votate per l’incandidabile (v. infra), riemerge la necessità di far ricorso alla <<doppia giurisdizione>>: al giudice amministrativo va proposta la domanda di annullamento delle elezioni ed al giudice ordinario la domanda, pregiudiziale rispetto a quella, di accertamento dell’incandidabilità., che è, comunque, sottratto, anche in via incidentale, alla giurisdizione del giudice amministrativo[30], giacché l’art. 82 del Dpr 5701960 riserva la cognizione delle questioni attinenti a quel diritto al giudice ordinario[31].
Ed infatti, quantunque le cause di incandidabilità e quelle di ineleggibilità debbano ascriversi a categorie necessariamente diverse -essendo ontologicamente diversi i fatti da cui nascono ed il meccanismo con il quale il legislatore ha previsto fossero realizzati gli interessi pubblici sottesi alle norme che le individuano-, esse, comunque, afferiscono ed entrambe al diritto di elettorato passivo, come anche affermato dalla S.C. , che, allorché ha avuto modo di pronunziarsi sulle cause di incandidabilità eo di decadenza individuate dall’art. 1 della L. 16.1.1992 n° 16 ha statuito che “la giurisdizione del giudice ordinario a conoscere delle controversie in tema di eleggibilità o decadenza dalla carica … non trova limitazioni e deroghe per il caso in cui venga introdotta mediante impugnazione del provvedimento di decadenza, perché anche in tale ipotesi, la decisione verte non sull’annullamento dell’atto amministrativo, ma sul diritto soggettivo perfetto inerente all’elettorato passivo”[32].
4 – L’interesse a ricorre e la cd. prova di resistenza.
Un momento (recte: criterio) decisivo nel giudizio sull’ammissibilità dei ricorsi elettorali è, tradizionalmente, dato dalla cd. prova di resistenza, dalla verificazione, cioè, dell’incidenza dei vizi e, soprattutto, del rimedio di quelli sul risultato elettorale: l’interesse al ricorso, cioè, è affermato o negato quando, secondo un giudizio prognostico, la richiesta correzione è capace o incapace di ribaltare il risultato elettorale.
Le opinioni palesate dal Tar e dal C.G.A. riguardo alla necessità del superamento della c.d. prova di resistenza quando, com’era nel caso dedotto in giudizio, l’illegittimità del risultato elettorale è determinata dalla partecipazione dell’incandidabile sembrano essere diverse.
Infatti, il giudice di primo grado, pur affermando l’illegittimità del risultato elettorale e, quindi, la necessità del suo annullamento sulla scorta della (sola) partecipazione dell’incandidabile, s’è dato carico di dimostrare, ad abbundantiam, e quasi per giustificarsi, che, comunque, il ricorso avrebbe superato la c.d. prova di resistenza; il Cga ha ritenuto, invece, si possa prescindere da quella “prova”, perché in tali ipotesi non è in considerazione l’illegittima attribuzione del voto, l’illegittimità del risultato elettorale, ma del procedimento elettorale.
Il criterio impiegato dal giudice d’appello per la verificazione dell’interesse a ricorrere, sembra però eccessivamente formalistico, giacché, per assurdo, potrebbe essere invocato da chi, pur giovandosi dell’apporto dell’incandidabile, abbia perso le elezioni, nel mentre, come chiarito dalla Corte Costituzionale, la ratio della norma sull’incandidabilità è posta per impedire che il risultato elettorale possa essere determinato da chi è <<non candidabile>>[33].
Con ciò non si vuol certo riabilitare la c.d. prova di resistenza, la rigida applicazione della quale potrebbe condurre –come mostra di ritenere il C.G.A.- ad un risultato iniquo: l’affermazione della lista che annovera l’incandidabile non potrebbe essere scalfito quando l’apporto di quello non sia determinante.
Detto ciò si pone la necessità di verificare se, rispetto all’ipotesi in considerazione, non debba, invece, farsi ricorso ai normali criteri per giudicare dell’ammissibilità del ricorso, adattandoli alla peculiarità della stessa. E in ipotesi, il criterio che potrebbe risultare determinante per quel giudizio potrebbe essere, non tanto il computo numerico dei voti dati all’incandidabile per rapportarli allo scarto fra le liste –proprio perché la scelta di voto alla lista potrebbe non essere determinata, come ha affermato il C.G.A., unicamente, dal voto di preferenza[34], ma, anche, dalla presenza in lista dell’incandidabile- quanto dal fatto che la lista risultata vittoriosa annoveri o meno l’incandidabile.
Il problema, evidentemente, si pone in maniera diversa nell’ipotesi in cui si tratti delle elezioni in comuni con un numero di abitanti inferiore o superiore a 10.000. In quest’ultimo caso l’interesse a ricorrere potrebbe ritenersi positivamente accertato quando la lista che annovera l’incandidabile, seppure non sia risultata vittoriosa, abbia condotto il candidato sindaco ad essa collegato alla fase di ballottaggio, a detrimento di altre.
Rispetto a tale ipotesi, l’interesse alla legalità e, quindi, l’interesse a ricorrere, è dato dal fatto che, dovendo impedirsi che il risultato elettorale sia determinato dalla partecipazione dell’incandidabile, non è possibile prescindere dall’apporto di quello sulla scelte dei candidati sindaci (o presidenti) così come determinatesi nella prima fase del procedimento elettorale.
5 – La nullità dell’atto (amministrativo) che ammette l’incandidabile alle elezioni.
L’incapacità giuridica (speciale), l’incapacità ad essere candidato alle elezioni amministrative, introdotta dall’art. 1 della L. 1692, esclude, come si diceva, il diritto di elettorato passivo rispetto a quelle elezioni.
Ciò ha una corollario necessario: l’atto di ammissione di chi versa in una delle condizioni previste dall’art. 15 co. 1° L. 5590 è radicalmente nullo, e non, semplicemente, annullabile. L’atto che accerta l’esistenzainesistenza di quel requisito non può, infatti, ascriversi alla categoria dei provvedimenti amministrativi, essendo, invece, un atto meramente ricognitivo dell’esistenzainesistenza di un diritto che, per dover essere accertato da un’autorità amministrativa, non degrada ad interesse legittimo[35]. La conferma di ciò si ha nel fatto che, come affermato dalla Corte Costituzionale, la sentenza di condanna ostativa di quel diritto <<è … presa in considerazione come mero presupposto oggettivo … viene configurata quale “requisito negativo” ai fini della capacità>> di essere candidato[36].
Ed è su tale presupposto che le S.U., chiamate per regolare la giurisdizione, hanno confermato la giurisdizione del giudice ordinario, come sui ricorsi in materia di eleggibilità e compatibilità[37], anche, riguardo alle ipotesi di decadenza disciplinate dall’art. 15 L. 5590, rilevando come “la giurisdizione del giudice ordinario a conoscere delle controversie in materia di eleggibilità o decadenza dalla carica … non trova limitazioni e deroghe per il caso in cui venga introdotta mediante impugnazione del provvedimento di decadenza, perché, anche in tali ipotesi, la decisione verte non sull’annullamento dell’atto amministrativo, ma sul diritto soggettivo perfetto inerente all’elettorato passivo”[38], ed il Consiglio di Stato ha ritenuto nulla – e non semplicemente annullabile- la candidatura di chi aveva omesso di “presentare, contestualmente alla dichiarazione di accettazione della candidatura, la dichiarazione antimafia ex art. 15 comma 1 L. 19 marzo 1990 n° 55”[39], giacché non era acquisito al procedimento la certezza dell’esistenza in capo al “candidato” del requisito richiesto da quella norma: il diritto di elettorato passivo rispetto a quelle elezioni.
A tali insegnamenti sembra si siano adeguati il Tar catanese e il C.g.a.. La nullità dell’atto ammissivo della candidatura, infatti, se è determinato dalla mancata presentazione della dichiarazione antimafia, a fortiori deve ritenersi ove sia accertato in capo a chi è stato “formalmente” candidato la carenza del requisito che “la dichiarazione antimafia” è destinato a dimostrare.
6 – I vizi del procedimento: nullità dei voti o annullamento delle elezioni.
La sentenza del Tar catanese aveva affermato che la nullità dell’atto di ammissione della candidatura si ripercuote, inficiandone la legittimità, su tutti gli atti che hanno in quello il loro presupposto. Dalla nullità di quell’atto, cioè, deriva l’illegittimità di tutti quelli che ad essa seguono, fino alla proclamazione del risultato. Ciò perché la <<nullità di un atto del procedimento si comunica agli atti successivi quando questi, come nel caso di specie, si trovano in un rapporto di dipendenza causale e necessaria con l’atto nullo. Si tratta, più precisamente, di un rapporto di causa ed effetto, potendosi escludere solo un eventuale nesso semplicemente occasionale o accidentale>>. Da ciò aveva tratto la necessita dell’annullamento del risultato elettorale.
L’assunto appare, però, criticabile sulla base della fondamentale considerazione che l’atto nullo, a differenza di quello annullabile, non produce effetti, cosicché, il ragionamento doveva spingersi oltre; doveva, cioè, accertarsi se non era possibile depurare il risultato elettorale dall’apporto del candidato-non candidato, che quel giudice ha riconosciuto determinante, rispetto all’affermazione della lista in cui era inserito e del candidato sindaco ad essa collegato, proprio perché, come, ora, dice il C.g.a., <<l’oggettiva indimostrabilità dei meccanismi psicologici che possono aver indotto gli elettori a votare congiuntamente il candidato [-incandidabile] Arcodia e la lista nella quale il medesimo risultava inserito>>. L’impossibilità di discernere quale fosse stata la motivazione determinante la scelta dell’elettore, infatti, avrebbe dovuto, secondo un consolidato orientamento del Cga, far ritenere nulle le schede contenenti voto di preferenza per l’incandidabile, perché, in ragione della nullità dell’atto di ammissione, esso non poteva compreso nelle liste elettorali e, quindi, i voti attribuitigli, dati ad un soggetto non compreso nelle liste elettorali[40].
E, peraltro, il Tar catanese, nel tentativo di dar giustificazione al disposto annullamento dell’elezioni, dandosi carico di ritenere superata la c.d. prova di resistenza, aveva affermato che <<la verificazione …ha permesso di accertare che …129 schede in cui l’elettore ha votato sia per la lista che esprimendo la preferenza per Arcodia …in tale ipotesi il voto si è trasferito anche al candidato sindaco per conseguenza del collegamento alla lista votata …sia la normativa elettorale che dispone il collegamento, sia la logica che il senso comune … depongono per un rapporto di stretta interdipendenza tra l’espressione della preferenza ed il voto di lista che (a sua volta) si trasmette al sindaco collegato; ciò determina la necessaria comunicazione dell’illegittimità conseguente al voto espresso per il non candidabile anche al voto alla lista cui appartiene e quindi a tutta la scheda>>. Il Tar, cioè, aveva ritenuto illegittime le schede votate per l’incandidabile, pur se poi non ne ha saputo o voluto trarne le logiche e necessarie conseguenze.
Il giudice d’appello sembra, ad una prima lettura, aver fatto un passo indietro rispetto all’affermazione della nullità dell’atto di ammissione di quella candidatura. Si legge, infatti, in sentenza che <<invero, l’espressione di un voto di preferenza in favore di un candidato che, nel momento storico in cui si svolgeva la votazione, risultava a tutti gli effetti inserito in una delle liste in competizione, ancorché sia stato successivamente dichiarato non candidabile, non può essere equiparata all’ipotesi in cui l’elettore abbia invece votato un nominativo estraneo, in quanto non compreso in alcuna delle predette liste. Mentre infatti quest’ultima espressione costituisce, per la sua anomalia, un’indicazione vietata tale da comportare la totale nullità della scheda della scheda, nel caso in esame si è invece in presenza di una normale e fisiologica espressione congiunta di voto di lista e di preferenza, con oggettiva ed assoluta impossibilità di discernere se ed in quale misura la preferenza abbia influito sulla scelta della lista, o viceversa>>. L’assunto del C.g.a. postula, così, che l’atto di ammissione dell’incandidabile non sia nullo, ma, semplicemente, illegittimo, capace perciò di produrre gli effetti suoi propri, che vengono ad essere caducati per effetto del successivo accertamento giurisdizionale[41].
A ben vedere, però, è lo stesso giudice che, confortando la linea argomentativa del Tar catanese, aveva mostrato di condividerne i risultati. Le schede votate in favore dell’incandidabile, stante l’impossibilità di individuare i <<meccanismi psicologici che possono aver indotto gli elettori a votare congiuntamente il candidato [-incandidabile] … e la lista nella quale il medesimo risultava inserito>>, potevano così essere annullate, facendo salvo, per il resto, il procedimento elettorale. Tale principio, d’altronde, come detto anche nella sentenza in rassegna, è stato più volte affermato e ribadito dal C.g.a., proprio per affermare la nullità delle schede contenenti una preferenza per chi “non era compreso nelle liste elettorali”[42], anche se, nel caso di specie, non avrebbe potuto farsi applicazione dell’art. 38, 7° co. D. P. Reg. Sic. n° 3/1960, se non dopo avere affermato la nullità dell’atto di ammissione dell’incandidabile e, quindi, l’inidoneità dello stesso a produrre effetti.
La norma da ultimo citata, infatti, anche nell’interpretazione fattane dallo stesso Cga, non ha soltanto funzione sanzionatoria rispetto alle modalità di espressione del voto, ma pone, innanzitutto, un criterio per l’attribuzione dei voti: così, ad esempio, ha consentito l’annullamento delle schede che recavano la preferenza per il candidato sindaco collegato alla lista votata, ma non candidato per il consiglio, perché era incerta la volontà dell’elettore e non perché l’elettore avesse inteso farsi riconoscere[43].
7 – Sempre sulla nullità dei voti e delle elezioni: una questione processuale.
In verità, il risultato cui è pervenuto il giudice d’appello sembra determinato dal fatto che l’incandidabile è stato riammesso al procedimento elettorale per effetto di un’ordinanza cautelare, pronunziata nel giudizio da quello promosso contro la sua esclusione dalle liste.
Il giudicato formatosi sulla sentenza che ha accertato la condizione di <<non candidabilità>> di quello, infatti, seppure ha determinato l’accertamento di un “fatto”da cui il G.a. non poteva prescindere, non era, invece, capace di effetti caducanti rispetto all’ordinanza cautelare che aveva riammesso l’incandidabile al procedimento elettorale.
Il giudicato formatosi sulle pronuncie a contenuto processuale, e quindi anche sul capo riguardante la giurisdizione, ha, infatti, efficacia soltanto interna quando siano rese da giudici di merito[44] e non dalla Cassazione[45]. Il <<capo>> della sentenza che ha deciso, anche implicitamente, sulla giurisdizione circa la questione della legittimità dell’esclusione dell’incandidabile, pronunziata dal Tribunale di Patti, non poteva, quindi, condurre a ritenere invalidata l’ordinanza cautelare resa dal G.a. e, così, l’incandidabile <<risultava a tutti gli effetti in una delle liste in competizione>> e le schede votate in favore di quello non potevano essere annullate.
avv. Salvatore Cinnera Martino
[1] Le pronunzie dei giudici, infatti, avevano fin qui considerato ipotesi in cui le condanne per i previsti dall’art. 15 della L. n° 55/90 erano stati assunti come causa di decadenza dalla carica; e non, invece, gli effetti di quelle condanne sul procedimento elettorale al quale avevano partecipato soggetti <<incandidabili>>
[2] Una recente pronunzia del Tribunale di Patti (sent. 18.3.1998), confermata in appello (Corte d’Appello di Messina, 8.6.1998, n° 216) e dalla Cassazione
[3] Tribunale di Patti (sent. 18.3.1998), confermata in appello (Corte d’Appello di Messina, 8.6.1998, n° 216) e dalla Cassazione.
[4] art. 37 L. 8.6.1990 n° 142, art. 11 L.r. 26.8.1993 n° 7 ed art. 11. L.r. 15.9.1997 n° 35
[5] art. 37 L. 8.6.1990 n° 142, art. 11 L.r. 26.8.1993 n° 7 ed art. 11. L.r. 15.9.1997 n° 35
[6] L’art. 15 della L. 19.3.1990 n° 55 è stato modificato dalla legge 18.1.1992, n° 16, che ha sostituito i commi 1, 2, 3, 4, ed introdotto i 4-bis, 4-ter, 4-quater, 4- quinquies, 4-sexies, 4-septies e 4-octies.
[7] Importanti mutamenti ha subito la norma in esame in conseguenza dell’intervento della Corte Costituzionale, che ne ha dichiarato (sent. 6 maggio 1996, n. 141) l’incostituzionalità nella parte in cui parificava la “situazione” di chi aveva riportato condanne definitive e di chi, invece, era stato condannato in primo grado o, semplicemente, imputato o rinviato a giudizio e di coloro nei cui confronti il tribunale ha applicato una misura di prevenzione quando il relativo provvedimento non abbia carattere definitivo.
[8] Tar Sicilia, sez. Catania, II sez. int., 27.5.1999 n° 1021
[9] C.G.A. 14.3.2000 n° 113
[10] Trib. Patti, 12.10.98 n° 577
[11] Tar Sicilia, sez. Catania, II sez. int., 27.5.1999 n° 1021
[12] C.G.A. 14.3.2000 n° 113
[13] v. supra
[14] Corte Cost. n° 141 del 1996. V. anche Corte Cost. n° 280 del 1992: <<la nuova normativa, modificando in senso rigoroso le previsioni contenute in quella previgente, detta un’ampia disciplina in tema di eleggibilità e, in genere, di capacità di assumere e mantenere cariche od uffici di varia natura nelle regioni, nelle province e nei comuni ed altri enti ed organismi di autonomia locale. In particolare, viene introdotta (comma 1) la regola della <<non candidabilità>> alle elezioni regionali, provinciali, comunali e circoscrizionali …le ipotesi di <<non candidabilità>> alle elezioni previste dal comma 1 altro non sono che nuove cause di ineleggibilità … si è ritenuto, come risulta dai lavori preparatori della legge n. 16 del 1992, che … attraverso l’istituto della non candidabilità alle elezioni, ad <<impedire che persone gravemente indiziate di crimini … di stampo mafioso, proprio mediante il metus che incutono, possono pervenire a cariche elettive>> e, dall’altro, ad estenedere l’ambito dei destinatari della disciplina <<a tutta una serie di altri incarichi che spesso formano la fitta rete attraverso la quale si esprime l’intreccio mafia-poltica ed il potere clientelare>>. In definitiva, la ratio legis, come esattamente rileva l’Avvocatura dello stato, è quella di costituire una sorta di difesa avanzata dello Stato contro il crescente aggravarsi del fenomeno della criminalità organizzata e dell’infiltrazione dei suoi esponenti negli enti locali. Così anche, Corte Cost. n° 288 del 1993: << la legge 18 gennaio 1992 n. 16 … ha, in sintesi, introdotto un’ampia disciplina in tema di eleggibilità e, in genere, di capacità di assumere e mantenere una serie di cariche o incarichi di varia natura nelle regioni e negli enti locali>>. E Corte Costit. n° 118 del 1994 che chiarisce che: <<in altre parole … la condanna penale irrevocabile è stata presa in considerazione come mero presupposto oggettivo cui è ricollegato un giudizio di <<indegnità morale>> a ricoprire determinate cariche elettive: la condanna stessa viene, cioè, configurata quale <<requisito negativo>> ai fini della capacità di assumere e di mantenere le cariche medesime. Corte Cost. n° 141 del 1996, definitivamente chiarisce <<individuando la ratio della l. n. 16 del 1992 … questa Corte ha riconosciuto che, nelle sue varie disposizioni, essa tutela beni di primaria importanza, minacciati dall’infiltrazione della criminalità organizzata di stampo mafioso negli enti locali: le misure eccezionali adottate tendono a salvaguardare il buon andamento e la trasparenza delle amministrazioni pubbliche, l’ordine e la sicurezza, la libera determinazione degli organi elettivi … Proprio al fine di garantire questi valori, la l. n. 16 del 1992 integra le misure interdittive, provvisorie, già previste dalla l. n. 55 del 1990 … e per la prima volta introduce fattispecie di non candidabilità che incidono sulla costituzione delle assemblee elettive; fattispecie che, interferendo sulla formazione della rappresentanza, devono essere sottoposte ad un controllo stringente.
[15] V. art. 15 della L. 15.3.1990 n° 55
[16] Le ipotesi di incompatibilità, a differenza dell’incapacità giuridica (speciale), sono poste dall’ordinamento in ragione della incompatibilità della situazione, qualificante, in cui versano determinati soggetti rispetto agli “uffici” cui essi potrebbero essere chiamati o ad altri interessi tutelati dall’ordinamento. Sono, così, ascritti alla “incompatibilità” le limitazioni, poste dall’art. 330 c.c., ad assumere l’ufficio tutelare a chi non abbia la libera amministrazione dei propri beni, i limiti al diritto di adottare, posti dall’art. 6 della L. 4.5.1983 n° 184, in ragione della condotta dell’adottante, o, dagli artt. 348 e 393 c.c., all’assunzione dell’ufficio di tutore. Per tutti Falzea, Capacità, in EdD, cit., 28 ss..
[17] Barbero, Sistema istituzionale del diritto privato, 6.a ed., I, Utet, Torino, 1965, 146;
[18] Falzea, Capacità, in EdD
[19] Arena, Incapacità (diritto privato), in EdD, Giuffrè, Milano, 1970, XX, 910 s.s. Le situazioni d’incapacità giuridica speciale sanciscono, quindi, una discriminazione tra i soggetti (giuridici), e quella introdotta dalla L. n° 55/90, segna un momento di ripensamento, se non di regresso, rispetto alla tendenza, riscontrabile in epoca repubblicana, verso la rimozione di tutte le cause di discriminazione, giustificate dall’Ordinamento attraverso le incapacità giuridiche che colpivano i cittadini in ragione della razza o del sesso (Si veda, ad esempio, Galoppini, Il lungo viaggio verso la parità (I diritti civili e politici delle donne dall’Unità ad oggi), Il Mulino, Bologna, 1980, 13 s.s) o di altri fatti qualificanti, come l’infermità mentale (v. Dpr 20.3.1967 n° 223 che sospendeva il diritto di elettorato per i ricoverati negli ospedali psichiatrici). Così, ad esempio, l’art. 2, co. 5° del T.U. sullo statuto degli impiegati civili dello Stato (Dpr 10.1.1957 n° 3) esclude dai pubblici impieghi i soggetti che hanno perso l’elettorato attivo.
[20] Inserire giurisprudenza.
[21] Un argomento in tal senso potrebbe ravvisarsi nell’orientamento legislativo che, di recente, mira a concentrare innanzi ad unico giudice, il giudice ordinario o il giudice amministrativo, le controversie inerenti talune materie, indipendentemente dalla (natura delle) domande proposte e dagli (dalla natura degli) atti dell’amministrazione che il giudice è richiesto di conoscere.
[22] Trib. Patti, 12.10.98 n° 577.
[23] cfr. Capozzi, Problemi di giurisdizione, in Una giustizia per la pubblica amministrazione a cura di Spagnuolo Vigorita, Jovine, Napoli, 1983, 131; Guicciardi, <<Causa petendi>> e <<petitum>> nei rapporti fra giurisdizione ordinaria ed amministrativa in Studi di giust. amm., Cedam, Padova, 1967, 24; Giannini, Discorso generale sulla giustizia amministrativa in Riv. dir. proc., 19631964 n. 23.
[24] Il citato criterio discretivo è ora compromesso, o quantomeno messo in dubbio, dalla recente sentenza n° 500 del 1999 con la quale le Sez. unite della S.C. hanno riconosciuto la risarcibilità della lesione degli interessi legittimi, dando, quindi, rilevanza o, comunque, prevalenza al criterio del c.d. petitum sostanziale, rispetto a quello della causa petendi.
[25] Scoca, Riflessioni sul criterio di riparto delle giurisdizioni ordinaria ed amministrativa, in Dir. proc. amm., 1989, 549; Vela, Questioni sul riparto di giurisdizione fra giudice ordinario e giudice amministrativo nella giurisprudenza della Corte di Cassazione, in Giust. civ., 1991, II, 110; Caramazza – Quadri, Il <<diritto civile e politico>> del cittadino nella cognizione dell’autorità giudiziaria ordinaria, in Rass. avv. Stato, 1988, II, 83; Montesano, Lezioni sulla giurisdizione, Bari, 1972, 75.
[26] da ult., Cass. civ., 17.10.88 n° 5627; Cons. St., IV, 30.1.1991 n° 58 in Cons. St., 1991, I, 121
[27] V., ad esempio, D. Legisl. n° 80/98.
[28] Anche recentemente, la S.C. ha confermato che la giurisdizione sulla legittimità delle delibere che attengono all’incandidabilità eo alla decadenza dalla carica per le cause previste dall’art. 15 L. 5590 spetta all’A.G.O. (Cass. civ., sez. un., 17.2.1994, n° 1558)
[29] Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, p. 1308 e ss; Pajano, Provvedimenti di determinazione delle tariffe telefoniche e doppia tutela giurisdizionale, in Rass. Avv. Stato, 1978, I, 408; Stipo, Le origini del riparto di giurisdizione verso la P.A. e la doppia tutela, Roma, 1979; Sandulli, Un passo indietro nella teoria della <<doppia tutela>>, in Giur. It., 1984, III, 1, 313; in giurisprudenza ex plurimis Cass. civ. 27.6.1983, n° 3497, in Giur. It., 1984, I, 1 514.
[30] cfr. Cons. St., sez. V, 26.8.1988, n° 502; Cass. civ., sez. un., 17.2.1994, n° 1558
[31] ex plurimis Cass. civ., sez. un., 14.10.1986 n° 6005; Cass. civ., sez. un., 16.10.1985 n° 5074; Cass. civ., sez. un., 17.2.1994 n° 1558; Cass. civ., sez. un., 3.8.1994 n° 7205
[32] Cass. civ., sez. un., 17.2.1994, n° 1558; Cass. civ., sez. un., 3.8.1994, n° 7205
[33] Corte Cost. n° 141/1996 e n° 280/92
[34] CGA, 14.3.2000, n° 113
[35] Corte Cost. n° 29594
[36] Corte Cost. n° 11894
[37] ex plurimis, Cass. civ., sez. un., 28.10.94 n° 10131
[38] Cass. civ., sez. un., 17.2.1994, n° 1558; Cass. civ., sez. un., 3.8.1994, n° 7205
[39] Cons. St., sez. V, 17.5.1996, n° 574, in Foro amm., 1996, 1547
[40] l’orientamento del C.g.a. in tal senso è consolidato: v. C.g.a. 30.4.1997 n° 53 e C.g.a. 30.4.96 n° 119; v. anche Tar Sicilia – Catania, II, 8.5.95 n° 1340; Tar Sicilia – Palermo, 15.10.96 n° 1180; Tar Sicilia – Catania, 17.5.94 n° 958.
[41] Contra, però, Cons. Stato, 17.5.96 n° 574, cit.
[42] v. supra, nota 40.
[43] C.g.a. 30.4.1997 n° 53
[44] Cassazione civile, sez. un., 5.2.99 n° 45; Cassazione civile, sez. un., 21.1.1988 n° 444; Cassazione civile, sez. III, 16.3.86; Cassazione civile, sez. III, 24.11.86 n° 6900; contra Cassazione civile, sez. un., 19.7.85 n° 4262; Cass. civ., sez. un. 3.7.89 n° 3188.
[45] Cassazione civile, sez. un., 5.2.99 n° 45, cit.; C.g.a., 25.5.98 n° 307; Cassazione civile, sez. un., 18.12.1985 n° 6458;
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