La particolare tenuità del fatto non si applica in materia di responsabilità amministrativa degli enti

Il fatto

La Corte d’Appello di Milano, con sentenza del 17 maggio 2018, parzialmente riformava la decisione con la quale, il 29 giugno 2017, il Tribunale di quella città aveva affermato la responsabilità penale G.D.R. e della B. s.p.a., assolvendo il primo del reato di cui al capo b) dell’imputazione a norma dell’art. 131-bis c.p., ritenuto il fatto di particolare tenuità e confermando, nel resto, la sentenza impugnata.

L’imputazione concerneva, al capo a), la violazione del D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 137, comma 5, primo periodo, perchè il G., in qualità di procuratore delegato ambientale della società B. s.p.a, nell’effettuazione di uno scarico di acque reflue industriali in pubblica fognatura, generata dal attività di concia, tintura e finitura di pelli, superava il valore limite fissato nella Tabella 3 dell’Allegato 5 alla Parte Terza del predetto decreto in relazione alla sostanza “cromo totale“, compresa tra quelle di cui alla Tabella 5 dell’Allegato 5 alla Parte Terza dello stesso decreto, concentrazione accertata 29,2 mg/l, come da campionamento in data 15 marzo 2012 (fatto commesso in (OMISSIS). Reato dichiarato estinto per prescrizione nel giudizio di primo grado).

Il capo b), sempre riferito al G., riguardava la violazione di cui all’art. 137, comma 2 in relazione al comma 1 del D.Lgs. n. 152 del 2006 perchè costui, nelle medesime qualità, effettuava uno scarico di acque reflue industriali in pubblica fognatura, contenenti sostanze pericolose comprese tra quelle di cui alla Tabella 5 dell’Allegato 5 alla Parte Terza del predetto decreto, generate dell’attività di concia, tintura e finitura pelli esercitata nel suddetto impianto, in assenza della prescritta l’autorizzazione (fatto commesso in (OMISSIS), in permanenza fino al (OMISSIS), data di rilascio del titolo).

Alla società B. s.p.a, erano invece ascritti, ai capi c) e d) della rubrica, gli illeciti di cui all’art. 25-undecies, comma 2, lett. a), punto 1 e D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 25-undecies, comma 2, lett. a), punto 2, per la responsabilità, in via amministrativa, di fatti commessi dal G. nell’interesse o, comunque, a vantaggio della società ed in assenza delle cause di esclusione della responsabilità di cui al D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 5, comma 2.

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La responsabilità amministrativa degli enti

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I motivi addotti nel ricorso per Cassazione

Avverso tale pronuncia G.D.R. e la B. s.p.a. proponevano separati ricorsi per cassazione tramite il comune difensore di fiducia.

In particolare, il G.D.R. adduceva le seguenti doglianze: 1) vizio di motivazione in relazione alla ritenuta insussistenza della causa di esclusione della punibilità di cui all’art. 47 c.p. assumendo che l’imputato avrebbe dovuto essere assolto in quanto incorso in un errore inevitabile e scusabile; 2) violazione di legge in relazione alla necessaria sussistenza dell’offensività della condotta, da considerarsi anche con riferimento ai reati di pericolo presunto, quali quelli contestati nella fattispecie rilevandosi come entrambe le condotte contestate all’imputato sarebbero state inidonee a porre in pericolo il bene giuridico tutelato evidenziandosi al contempo anche la violazione dell’art. 131-bis c.p. facendo rilevare come, nella fattispecie, si vertesse in ipotesi di immissione occasionale, non configurante alcuna offesa al bene giuridico tutelato, trattandosi di un evento del tutto anomalo ed eccezionale; 3) vizio di motivazione in relazione alla sussistenza dei reati contestati osservando il ricorrente che la Corte territoriale si sarebbe limitata a riproporre le argomentazioni offerte dal giudice di primo grado senza esprimere una propria posizione sulle censure proposte con l’impugnazione, segnatamente in ordine alla prova della consapevolezza, in capo all’imputato, della carenza dell’atto autorizzativo, circostanza che avrebbe escluso la sussistenza dell’elemento soggettivo e che avrebbe consentito l’assoluzione dell’imputato quantomeno ai sensi dell’art. 530 c.p.p., comma 2.

A sua volta B. s.p.a. articolava il proprio ricorso nei seguenti motivi: 1) vizio di motivazione della sentenza impugnata nella parte in cui motivava la sussistenza della cosiddetta colpa di organizzazione in capo alla società; 2) censurabilità della sentenza impugnata nella parte in cui motivava la sussistenza dei requisiti dell’interesse e vantaggio in capo alla società, osservando la difesa che, in mancanza di pronunce sulla specifica materia in esame, andavano considerati i principi espressi dalla giurisprudenza in tema di reati colposi derivanti da infrazioni della normativa antinfortunistica sulla base dei quali avrebbe dovuto escludersi la responsabilità dell’ente e dunque, alla luce di essi, la sentenza della Corte d’Appello sarebbe stata viziata da contraddittorietà e manifesta illogicità nella parte in cui si affermava, con riferimento al superamento del valore limite fissato per lo scarico del cromo totale, che l’interesse e vantaggio ricavato dall’ente sarebbe consistito nei cospicui risparmi conseguenti alla mancata installazione dei filtri necessari all’impianto di depurazione poichè tale affermazione sarebbe stata apodittica ed in contrasto con quanto in precedenza dichiarato dalla stessa Corte laddove si sosteneva che il superamento dei limiti fosse derivato da un evento inusuale e del tutto raro, ovviabile con accorgimenti alquanto semplici, dai costi non ingenti e certamente sostenibili dalla società; 3) violazione di legge nella parte in cui esclude il riconoscimento dell’attenuante di cui al D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 12, comma 3 per la non configurabilità dell’attenuante di cui all’art. 12, comma 2, lett. a) del medesimo decreto visto che, quanto alle condotte risarcitorie richieste dalla norma, la lesione al bene giuridico tutelato cagionata dalle condotte ascritte alla società non avrebbe dato luogo ad alcuna lesione patrimoniale o non patrimoniale economicamente risarcibile e, quindi, tale condotta non poteva ritenersi esigibile mentre, quanto alle condotte riparatorie, l’ottenimento, da una parte, dell’autorizzazione allo scarico e, dall’altra, l’installazione di un sistema di filtri a sabbia e carboni attivi, atti ad impedire il fenomeno del fenomeno del trascinamento accidentale dei fanghi non sedimentati, avrebbero dovuto pienamente ritenersi condotte riparatorie finalizzate ad eliminare il pericolo di lesioni del bene giuridico tutelato dalla norma penale, come richiesto dalla giurisprudenza di legittimità; 4) vizio di motivazione in relazione alla mancata applicazione all’ente della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto di cui all’art. 131-bis c.p.; 5) l’illegittimità costituzionale del D.Lgs. 16 marzo 2015, n. 28, art. 1, comma 2 nella parte in cui non prevede l’applicabilità della esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto ai soggetti di cui al D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 1 per violazione del principio di uguaglianza e ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost. e della finalità rieducativa della pena di cui all’art. 27 Cost., comma 3.

 

Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione

 

Il Supremo Consesso dichiarava i ricorsi inammissibili alla luce delle seguenti considerazioni.

Si osservava prima di tutto in via preliminare come i giudici dell’appello, nel dare conto delle ragioni che li avevano condotti alla decisione oggetto di ricorso per cassazione, avessero premesso un positivo apprezzamento sulla accuratezza della decisione di primo grado e sulla completa analisi, effettuata dal Tribunale, delle deduzioni difensive, pervenendo così ad un richiamo per relationem della decisione appellata pienamente legittimo.

Premesso ciò, gli ermellini facevano presente che, con riferimento al primo motivo del ricorso di G.D.R., le argomentazioni volte a sostenere l’erronea esclusione, da parte dei giudici del merito, della sussistenza della causa di non punibilità di cui all’art. 47 c.p., in ragione dell’erronea convinzione, da parte dell’imputato, dell’esistenza di un valido titolo abilitativo, risultavano, ad avviso della Corte, del tutto destituite di fondamento stante il fatto che le considerazioni svolte nel motivo di impugnazione riproponevano questioni già considerate nel giudizio di merito e correttamente risolte attraverso l’indicazione di dati fattuali inequivocabilmente indicativi della insussistenza di un errore scusabile che la Corte territoriale aveva opportunamente richiamato tenuto conto altresì del fatto che l’accertamento dei fatti valorizzati nel giudizio di merito, assistito da motivazione scevra da cedimenti logici o manifeste contraddizioni e, in quanto tale, non censurabile in sede di legittimità allorché sia stato preceduto, nel giudizio di primo grado, da un corretto esame della disciplina di settore e della giurisprudenza in tema.

A tal riguardo si sottolineava che il D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 124, prevede la necessaria, preventiva autorizzazione per tutti gli scarichi, indicando anche la procedura per il suo rilascio e tale titolo abilitativo, come è stato più volte affermato dalla giurisprudenza elaborata in sede nmofilattica, non può essere sostituito da equipollenti, quali (come pure ricordato dal Tribunale) i pareri o nulla osta dei servizi comunali, che rivestono natura meramente interna al provvedimento (Sez. 3, n. 11556 del 6/10/1994, omissis, Rv. 200521); l’autorizzazione sanitaria (Sez. 3, n. 2078 del 7/5/1996, omissis, Rv. 206812, non massimata sul punto e relativa ad attività di caseificio. V. anche Sez. 3, n. 2877 del 21/12/2006 (dep. 2007), omissis, Rv. 235880) mentre, come si desume dalla semplice lettura del D.Lgs. n. 152 del 2006, artt. 124 e 125, il rilascio del titolo abilitativo presuppone a sua volta una serie di adempimenti quali, ad esempio, alla necessità dell’indicazione delle caratteristiche, anche tecniche, dello scarico e della sua destinazione finale (art. 125, comma 1); alla possibilità di stabilire prescrizioni e limiti per particolari tipologie di scarico in presenza di determinate condizioni (art. 124, comma 8), ovvero in relazione alle caratteristiche tecniche dello scarico, alla sua localizzazione e alle condizioni locali dell’ambiente interessato (art. 124, comma 10); alla necessità del versamento della somma di cui al comma 11 dell’art. 124, nonchè alle verifiche che caratterizzano lo specifico procedimento amministrativo, sicchè non può ritenersi sostituibile da altri atti o provvedimenti rilasciati per finalità diverse ed all’esito di procedure stabilite da altre disposizioni normative.

Tal che se ne faceva conseguire, argomentando a fortiori, come non assumessero alcuna validità taciti assensi o illegittime prassi eventualmente applicate dalle amministrazioni competenti posto che scopo dell’autorizzazione è quello di consentire una preventiva verifica della rispondenza di un’attività, potenzialmente pericolosa per l’ambiente, a quanto stabilito dalla legge.

Da ciò se ne faceva discendere, come ulteriore conseguenza, che l’apertura o, comunque, l’effettuazione di uno scarico richiede il preventivo rilascio di una formale, espressa autorizzazione rilasciata dalle competenti autorità sulla base dei criteri e nelle forme indicate dalla legge e non ammette equipollenti.

Sulla base di quanto appena affermato, la Corte reputava come apparisse evidente anche la infondatezza del secondo motivo di ricorso laddove si sosteneva la mancanza di inoffensività della condotta di scarico in assenza di titolo abilitativo, il cui rilascio veniva definito un “mero adempimento burocratico” richiamandosi, a tale proposito, quanto già osservato, peraltro da lungo tempo, dalla giurisprudenza dalla Cassazione in materia di inquinamento atmosferico in relazione all’analogo reato formale di pericolo presunto di cui all’art. 25, comma 1, dell’ormai abrogato D.P.R. n. 203 del 1988, ricordando come l’autorizzazione richiesta da quella disposizione fosse finalizzata alla realizzazione di un controllo anticipato, da parte delle autorità competenti, anche per le emissioni degli impianti esistenti, con evidente scopo di prevenzione (Sez. 3, n. 2321 del 11/12/1991 (dep. 1992), omissis, Rv. 189887. V. anche Sez. 1, n. 5702 del 12/4/1996, omissis Rv. 205269; Sez. 3, n. 13143 del 28/1/2005, omissis, Rv. 231216; Sez. 3, n. 192 del 24/10/2012 (dep. 2013), omissis, Rv. 254335 e, con riferimento alla disciplina attualmente in vigore, Sez. 3, n. 28764 del 9/6/2015, P.M. in proc. omissis, Rv. 264881) e ciò in quanto la legge assume un concetto ampio di inquinamento atmosferico con la conseguenza della sottoposizione alla disciplina normativa di tutte le attività da cui derivi anche soltanto uno degli effetti contemplati: alterazione delle normali condizioni ambientali, alterazione della salubrità, pericolo o danno alla salute, alterazione di risorse biologiche ed ecosistemi, compromissione di usi legittimi da parte di terzi fermo restando che, per aversi inquinamento atmosferico, non è necessario il pericolo di danno alla salute dell’uomo, per la presenza di sostanze inquinanti o tossiche o nocive, ma è sufficiente che l’alterazione dell’atmosfera incida negativamente sui beni naturali o anche semplicemente sull’uso di essi (Sez. 3, n. 2321 del 11/12/1991 (dep. 1992), omissis, Rv. 189887, cit. V. anche).

Posto ciò, dopo aver esaminato altre pronunce con la Cassazione ha affrontato tale tematica, gli ermellini, nel caso in questione, affermavano come siffatti criteri ermeneutici fossero pienamente condivisibili ed ancora attuali, e dunque senz’altro applicabili anche alle disposizioni in materia di inquinamento idrico sottoposte anch’esse a regime autorizzatorio avente finalità analoghe a quelle perseguite dalle disposizioni dianzi richiamate atteso che, anche nel caso dello scarico di reflui, il legislatore ha effettuato una prognosi di pericolosità, assoggettando a preventiva autorizzazione, il cui rilascio presuppone la presenza di determinate condizioni, un’attività ritenuta potenzialmente pericolosa per l’integrità dell’ambiente in genere e delle risorse idriche in particolare tenuto conto altresì del fatto che l’interesse del legislatore ad un accurato controllo degli scarichi è data non soltanto dalla complessità del procedimento amministrativo finalizzato al rilascio del titolo abilitativo, ma anche dalla previsione di una efficacia temporale dello stesso e di un periodico rinnovo (D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 124, comma 8).

Di talchè, alla luce delle considerazioni sin qui esposte, i giudici di legittimità ordinaria giungevano a postulare che, anche per quanto concerne la disciplina in tema di inquinamento idrico, la finalità dell’autorizzazione non è soltanto quella di permettere l’apertura e l’effettuazione dello scarico, ma anche di porre l’amministrazione competente nelle condizioni di verificare la sussistenza delle condizioni di legge per il rilascio del titolo abilitativo ed effettuare ogni successiva attività di controllo e prevenzione con la conseguenza che l’apertura o l’effettuazione di uno scarico, in assenza dell’autorizzazione, denota una effettiva offensività della condotta in quanto determina una evidente lesione dell’interesse protetto dal precetto penale.

Chiarito ciò, analizzando la fattispecie sottoposta al suo vaglio giudiziale, il Supremo Consesso denotava come dovesse decisamente escludersi, in linea generale, che la mancanza del titolo potesse ricondursi nell’alveo di un mero inadempimento formale tenendo conto che, nel caso di specie, non soltanto era mancata una formale attestazione delle condizioni per il rilascio del titolo da parte dell’amministrazione competente, ma l’assenza dell’autorizzazione aveva precluso l’eventuale imposizione di specifiche prescrizioni, la complessiva attività di “monitoraggio ecologico” che la legge richiede circa la permanenza delle condizioni che avevano consentito il rilascio del titolo ed il rispetto dei termini di efficacia stabiliti dalla legge per il titolo medesimo e, cioè, tutti quegli adempimenti finalizzati, come si è detto, alla sottoposizione di attività potenzialmente pericolose per l’integrità dell’ambiente ad una disciplina rigorosa e puntuali controlli.

In relazione al diverso reato contestato, relativo all’effettuazione dello scarico con superamento dei limiti di legge, se il Supremo Consesso aveva rilevato come la questione della offensività della condotta in tali ipotesi fosse stata da tempo valutata, osservando, con riferimento all’ormai abrogata L. n. 319 del 1976, che in tali casi il reato è integrato dal mero sforamento tabellare in quanto un danno all’ambiente, in tali ipotesi, è presunto per legge, con la conseguenza che non è logicamente possibile – senza scardinare il sistema, aprendolo a possibili gravi oscillazioni operative con diversità di trattamento tra operatori – dedurre la non offensività della trasgressione in concreto basata sulla natura limitata o temporanea della violazione (così Sez. 3, n. 10578 del 1/10/1993, omissis, Rv. 196448), gli ermellini mettevano in risalto il fatto che, nella fattispecie in questione, il giudice del merito aveva anche escluso, con incensurabile accertamento in fatto, la dedotta assoluta non prevedibilità del superamento del limite tabellare osservando come l’impianto non abbattesse e rimuovesse la totalità della parte solida che, nello specifico, era stata particolarmente elevata, ma che l’inconveniente avrebbe potuto essere eliminato mediante l’applicazione di filtri a carboni attivi.

Alla luce delle considerazioni sopra esposte, restava assorbita la questione dell’applicabilità dell’art. 49 c.p., comma 2, pure prospettata dal ricorrente, richiamandosi alla giurisprudenza costituzionale.

Invece, risultava, ad avviso della Corte, infondata la dedotta violazione dell’art. 131-bis c.p. riferito allo scarico senza autorizzazione (avendo la Corte territoriale riconosciuto la causa di non punibilità in relazione al reato di cui al capo b) della rubrica) atteso che sul punto, il ricorrente avrebbe, ad avviso della Corte, in modo del tutto erroneo, sostanzialmente sovrapposto i due reati contestati attribuendo la riconosciuta accidentalità ed occasionalità della condotta di superamento dei limiti tabellari anche al diverso e concorrente reato di scarico in assenza di autorizzazione, che riconduce a mera immissione occasionale, ritenuta, in quanto tale, priva di rilevanza penale.

Si faceva presente a tal riguardo che, come prima dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 258 del 2000, l’originario testo del previgente D.Lgs. n. 152 del 1999 prevedesse anche la nozione di “immissione occasionale” contemplata nelle disposizioni relative alle sanzioni e dunque, contrariamente a quanto avveniva per il concetto di “scarico“, del quale il D.Lgs. n. 152 del 1999 forniva una definizione, nulla si diceva in merito alle immissioni occasionali (di cui non fa peraltro menzione neppure il D.Lgs. n. 152 del 2006) sicchè si riteneva, in un primo tempo, che l’immissione occasionale non fosse più contemplata come reato con riferimento alla mancanza di autorizzazione assumendo, al contrario, rilevanza penale in relazione al superamento dei limiti di immissione, come espressamente previsto dall’art. 59, comma 5; invece successivamente veniva tuttavia affermato che la disciplina delle acque dovesse trovare applicazione in tutti quei casi nei quali si è in presenza di uno scarico di acque reflue (liquide o semiliquide) in uno dei corpi recettori individuati dalla legge (acque superficiali, suolo, sottosuolo, rete fognaria) effettuato tramite condotta (ovvero tramite tubazioni, o altro sistema stabile) anche se soltanto periodico, discontinuo o occasionale mentre, in ogni altro caso, nel quale venga a mancare il nesso funzionale e diretto delle acque reflue con il corpo recettore, restava applicabile la disciplina in tema di rifiuti, ove configurabile (Sez. 3, n. 14425 del 21/1/2004, omissis, Rv. 227781) e pertanto, ancora sotto la vigenza del D.Lgs. n. 152 del 1999, era stata riconosciuta la rilevanza penale anche dello scarico occasionale e tale concetto era stato ribadito pure in relazione al vigente D.Lgs. n. 152 del 2006 sostenendo la irrilevanza, in ordine alla nozione di scarico, di considerazioni attinenti alla accidentalità dello scarico stesso o alla sua episodicità (Sez. 3, n. 47038 del 7/10/2015, omissis, Rv. 265554. Conf. Sez. 3, n. 5239 del 15/12/2016 (dep. 2017), omissis, Rv. 268989).

Si osservava oltre tutto come nel caso di specie, inoltre, non si trattasse affatto di scarico occasionale avendo i giudici del merito accertato che lo stesso, derivante da stabile attività produttiva, era in uso da diversi anni.

Veniva infine stimato come inconferente il richiamo all’art. 131-bis c.p. il quale, come già affermato dalla giurisprudenza della Cassazione, opera su un piano distinto, rispetto al principio di offensività, presupponendo, il primo, un reato perfezionato in tutti i suoi elementi, compresa l’offensività, benchè di consistenza talmente minima da ritenersi “irrilevante” ai fini della punibilità ed attenendo, il secondo, al caso in cui l’offesa manchi del tutto, escludendo la tipicità normativa e la stessa sussistenza del reato (così Sez. 6, n. 5254 del 10/11/2015 (dep. 2016), omissis, Rv. 265642, ma v. anche Sez. U, n. 13681 del 25/2/2016, omissis, Rv. 266589).

Veniva infine considerato manifestamente infondato il terzo motivo di ricorso reputandosi la motivazione contestata con questa doglianza certamente adeguata.

Venendo viceversa a trattare l’altro ricorso proposto, e segnatamente il primo motivo ivi enunciato, i giudici di legittimità ordinaria evidenziavano come il ragionamento svolto dai giudici del merito apparisse in linea con la giurisprudenza della Cassazione la quale aveva specificato che il sistema normativo introdotto dal D.Lgs. n. 231 del 2001, coniugando i tratti dell’ordinamento penale e di quello amministrativo, configurasse un “tertium genus” di responsabilità, compatibile con i principi costituzionali di responsabilità per fatto proprio e di colpevolezza e, nell’affermare tale principio, si era anche chiarito che, in tema di responsabilità dell’ente derivante da persone che esercitano funzioni apicali, grava sulla pubblica accusa l’onere di dimostrare l’esistenza dell’illecito dell’ente mentre a quest’ultimo incombe l’onere, con effetti liberatori, di dimostrare di aver adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione del reato, modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi (Sez. U, n. 38343 del 24/4/2014, omissis, Rv. 261112).

Anche il secondo motivo di ricorso veniva reputato manifestamente infondato in quanto la motivazione della sentenza impugnata non presentava, a detta della Corte, i vizi denunciati.

In particolare, una volta preso atto come la società ricorrente aveva richiamato quanto affermato dalla giurisprudenza riguardo ai presupposti previsti dal D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 5 per l’imputazione della responsabilità, sostenendo che, alla luce di tali principi, la motivazione della sentenza impugnata sarebbe affetta da contraddittorietà e manifesta illogicità, gli ermellini rilevavano per contro che, anche in questo caso, i giudici del gravame, facendo proprie le argomentazioni già efficacemente formulate dal Tribunale, avessero adeguatamente spiegato come l’esercizio dello scarico in assenza di autorizzazione avesse consentito alla società di continuare a percepire utili dall’attività aziendale la quale, altrimenti, avrebbe dovuto essere ritardata o interrotta in attesa dell’autorizzazione ed, inoltre, che il superamento del limite tabellare, dovuto al trascinamento di fanghi, era conseguenza della precisa scelta aziendale, basata su un calcolo di costi e benefici, come dimostrato dalle dichiarazioni di un teste, di non adottare accorgimenti idonei ad evitare un simile accadimento.

Per ciò che concerne, poi, il terzo motivo di ricorso, si sottolineava come il Tribunale avesse applicato alla società l’attenuante di cui al D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 12, comma 2, lett. b) avendo la società dimostrato, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento, di aver adottato e reso operativo un modello organizzativo idoneo a prevenire reati della specie di quelli verificatisi mentre aveva invece escluso la sussistenza dell’ipotesi di cui alla lettera a) del medesimo comma, non risultando alcuna condotta riparatoria posta in essere dall’ente.

Tal che la concorrenza delle due condizioni, che avrebbe consentito, ai sensi del comma 3 dell’art. 12, di applicare una riduzione della sanzione dalla metà a due terzi, era stata esclusa dalla Corte territoriale per le medesime ragioni evidenziate dal primo giudice.

Orbene, il Supremo Consesso reputava siffatta decisione corretta poiché l’attenuante di cui al D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 12, comma 2, lett. a) presuppone che l’ente abbia risarcito integralmente il danno ed abbia eliminato le conseguenze dannose o pericolose del reato, ovvero si sia comunque efficacemente adoperato in tal senso mentre nulla di ciò risultava accertato in fatto nel giudizio di merito dato che, come rilevato dal Tribunale prima, e dalla Corte di appello poi, nessuna delle condotte poste in essere, e valutate ai fini della lettera b) del medesimo art. 12, comma 1, poteva essere ricondotta nell’alveo delle condotte risarcitorie e riparatorie di cui alla lettera a).

Per ciò che concerne il quarto motivo di ricorso, veniva osservato che lo stesso prendesse spunto dal contenuto di una decisione di questa Corte (Sez. 3, n. 9072 del 17/11/2017 (dep. 2018), omissis, Rv. 272447) i cui contenuti erano ricordati richiamando anche il principio di diritto affermato, giungendo tuttavia alla errata conclusione, frutto della personale lettura della decisione richiamata, secondo la quale con essa si sarebbe implicitamente riconosciuta al giudice del merito la possibilità di ritenere il fatto addebitato all’ente di particolare tenuità escludendone la punibilità ai sensi dell’art. 131-bis c.p. e, in ragione di ciò, si censurava la mancata pronuncia, sul punto, da parte dei giudici del gravame, in tal senso sollecitati dalla difesa, la quale, nel rassegnare le proprie conclusioni in sede di discussione, aveva posto la questione, che non avrebbe potuto esporre nell’atto di appello, depositato prima della decisione richiamata.

Orbene, una volta fatto presente che la citata pronuncia aveva affermato il seguente principio di diritto: “in tema di responsabilità degli enti ai sensi del D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, qualora nei confronti dell’autore del reato presupposto sia stata applicata la causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, ai sensi dell’art. 131-bis c.p., il giudice deve procedere all’autonomo accertamento della responsabilità amministrativa della persona giuridica nel cui interesse e nel cui vantaggio l’illecito fu commesso, che non può prescindere dalla verifica della sussistenza in concreto del fatto di reato, non essendo questa desumibile in via automatica dall’accertamento contenuto nella sentenza di proscioglimento emessa nei confronti della persona fisica”, si denotava che, in motivazione, dando conto del fatto che, a seguito dell’introduzione dell’art. 131-bis c.p., nessuna modifica è tata apportata al D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 8, venivano prospettate due diverse soluzioni interpretative, tra loro alternative e, segnatamente, la prima, fondata sul tenore letterale del citato art. 8, propende per l’esclusione della responsabilità dell’ente poichè tale disposizione non considera espressamente le cause di non punibilità (quale quella prevista dall’art. 131-bis c.p.) tra le ipotesi che la lascerebbero sussistere, la seconda, invece, ritiene non ragionevole il fatto che l’ente non sia esente da responsabilità nelle ipotesi, indicate dall’art. 8, lett. b) di estinzione del reato per cause diverse dall’amnistia e non anche quando il reato sia accertato ma non punibile, come nei casi stabiliti dall’art. 131-bis c.p., la cui applicazione comporta conseguenze anche pregiudizievoli quali l’iscrizione della sentenza nel casellario giudiziale e l’effetto di giudicato quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso nel giudizio civile o amministrativo di danno ai sensi dell’art. 651-bis c.p.p..

Pertanto, dal momento che la richiamata decisione, che aveva optato per la seconda tra le soluzioni prospettate, non aveva affatto implicitamente riconosciuto, come si sosteneva in ricorso, l’applicabilità dell’art. 131-bis c.p. che aveva invece escluso per le ragioni indicate in motivazione.

Si ribadiva dunque, anche in questa occasione, l’esclusione di ogni automatismo tra l’eventuale riconoscimento della particolare tenuità del fatto nei confronti dell’autore del reato e l’accertamento della responsabilità dell’ente, la cui autonomia è stabilita dal già citato D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 8, nel quale, come è noto, si afferma che la responsabilità dell’ente sussiste anche quando l’autore del reato non è stato identificato o non è imputabile, nonchè quando il reato si estingue per una causa diversa dall’amnistia.

Sull’ambito di operatività dell’art. 8, si faceva al contempo presente come la giurisprudenza della Corte di Cassazione si fosse già pronunciata affermando che, all’assoluzione della persona fisica imputata del reato presupposto per una causa diversa dalla rilevata insussistenza di quest’ultimo, non consegue automaticamente l’esclusione della responsabilità dell’ente per la sua commissione poichè tale responsabilità, ai sensi del richiamato articolo, deve essere affermata anche nel caso in cui l’autore del suddetto reato non sia stato identificato (Sez. 5, n. 20060 del 4/4/2013, omissis, Rv. 255414; Sez. 1, n. 35818 del 2/7/2015, omissis, non massimata), ovvero in presenza di una declaratoria di prescrizione del reato presupposto (Sez. 6, n. 21192 del 25/01/2013 – dep. 17/05/2013, omissis, Rv. 255369. Conf. Sez. 4, n. 22468 del 18/4/2018, omissis, Rv. 273399), riconoscendo, quindi, la necessità di un accertamento autonomo della responsabilità dell’ente.

Le ragioni della autonomia della responsabilità dell’ente rispetto alle vicende che riguardano il reato (la cui commissione la legge comunque presuppone) ed il suo autore persona fisica, ad avviso della Corte, possono individuarsi, in linea generale, nel fatto che il reato è stato commesso nell’interesse dell’ente o da esso l’ente ha comunque tratto un vantaggio e che, come emerge anche dalla relazione ministeriale al D.Lgs. n. 231 del 2001, il sistema così impostato consente di contenere gli effetti negativi di eventuali accorgimenti adottati da soggetti aventi struttura organizzativa interna complessa tali da rendere difficoltosa, se non impossibile, l’individuazione dell’autore del reato tenuto conto altresì del fatto che la disposizione in esame, inoltre, evidenzia dal suo contenuto come si sia considerata l’esistenza di un reato completo di tutti i suoi elementi (oggettivi e soggettivi) per il quale l’autore persona fisica non risulti punibile (perchè non imputabile o non identificato) ovvero che per varie ragioni si estingua (per una causa diversa dall’amnistia).

Considerando ancora i contenuti della relazione ministeriale, si rilevava come la riconosciuta autonomia tenesse conto anche della possibilità di adozione di diverse strategie processuali da parte dell’ente e dell’autore del reato presupposto e che non sembrasse inoltre di ostacolo alla interpretazione prospettata nella sentenza 9072/2018 la circostanza che l’art. 8 in esame prenda in considerazione solo le cause di estinzione del reato e non anche le cause di esclusione della punibilità poichè, come è stato da più parti osservato in dottrina, nella relazione ministeriale viene testualmente specificato: “è appena il caso di accennare al fatto che le cause di estinzione della pena (emblematici i casi grazia o di indulto), al pari delle eventuali cause non punibilità e, in generale, alle vicende che ineriscono a quest’ultima, non reagiscono in alcun modo sulla configurazione della responsabilità in capo all’ente, non escludendo la sussistenza di un reato. Se la responsabilità dell’ente presuppone comunque che un reato sia stato commesso, viceversa, non si è ritenuto utile specificare che la responsabilità dell’ente lascia permanere quella della persona fisica. Si tratta infatti di due illeciti, quello penale della persona fisica e quello amministrativo della persona giuridica, concettualmente distinti, talchè una norma che ribadisse questo dato avrebbe avuto il sapore di un’affermazione di mero principio”.

In ogni caso, sempre ad opinione della Corte, se pure si sarebbe dovuto propendere per una interpretazione letterale dell’art. 8, escludendo anche ogni rilievo dei contenuti della relazione ministeriale, veniva da chiedersi come, in concreto, potesse ritenersi applicabile l’art. 131-bis c.p. alle ipotesi di responsabilità degli entri di cui al D.Lgs. n. 231 del 2001 ferma restando l’esclusione di ogni automatismo di cui si è già detto.

Per una risposta negativa a questo quesito, si pone, secondo la Cassazione, la concreta natura della responsabilità degli enti disciplinata dal D.Lgs. n. 231 del 2001, oggetto di ampio dibattito in dottrina e giurisprudenza del quale hanno dato conto le Sezioni Unite (Sez. U, n. 38343 del 24/4/2014, omissis, Rv. 261115, cit.) considerando il sistema, come si è detto in precedenza, “un corpus normativo di peculiare impronta, un tertium genus, se si vuole” valorizzando i contenuti della relazione ministeriale che come tale lo qualifica posto che, nella relazione, la responsabilità è prudentemente definita “amministrativa” dal legislatore delegante in quanto “conseguente da reato e legata (per espressa volontà della legge delega) alle garanzie del processo penale, diverge in non pochi punti dal paradigma di illecito amministrativo ormai classicamente desunto dalla L. n. 689 del 1981. Con la conseguenza di dar luogo alla nascita di un tertium genus che coniuga i tratti essenziali del sistema penale e di quello amministrativo nel tentativo di contemperare le ragioni dell’efficacia preventiva con quelle, ancor più ineludibili, della massima garanzia” trattandosi quindi di un sistema sostanzialmente differente il quale, rispetto alle diverse discipline dell’illecito penale e di quello amministrativo, si pone in un rapporto di limitata permeabilità, dipendente dalle sue specifiche caratteristiche.

Si evidenziava a tal proposito come le stesse Sezioni Unite, implicitamente ribadendo quanto in precedenza affermato circa la peculiarità del sistema, parlassero di “contiguità” con l’ordinamento penale in ragione, sopratutto, “della connessione con la commissione di un reato, che ne costituisce il primo presupposto, della severità dell’apparato sanzionatorio, delle modalità processuali del suo accertamento” fermo restando che tale particolarità, peraltro, caratterizza anche le modalità di accertamento della responsabilità dell’ente in precedenza descritta.

Ciò posto, i giudici di legittimità ordinaria osservavano come la dedotta applicabilità dell’art. 131-bis c.p. al caso di specie, oltre che errata, traesse spunto dalla diffusa tendenza a non considerare l’effettivo ambito di operatività della disposizione codicistica che il legislatore aveva puntualmente delineato attraverso una lettura della norma che, privilegiando le finalità deflattive perseguite dal legislatore, ne determina l’applicazione anche al di fuori dei casi consentiti dai precisi limiti imposti posto che la rispondenza ai limiti di pena indicati dalla norma costituisce solo la prima delle condizioni per l’esclusione della punibilità essendo infatti richiesti (congiuntamente e non alternativamente, come si ricava dal tenore letterale della disposizione), gli “indici criteri” della particolare tenuità dell’offesa e della non abitualità del comportamento, il primo dei quali si articola, a sua volta, nei due “indici-requisiti“, della modalità della condotta e dell’esiguità del danno o del pericolo, apprezzate ai sensi dell’art. 133 c.p. trattandosi in sostanza di una verifica che attiene alla concreta manifestazione del reato anche attraverso la considerazione di aspetti precipuamente soggettivi quali: il comportamento non abituale e le modalità della condotta, con un richiamo espresso ai criteri direttivi di cui all’art. 133 c.p., comma 1 che si riferisce, tra l’altro, alle modalità dell’azione ed alla intensità del dolo ed al grado della colpa.

Una volta quindi considerati i criteri così individuati per l’applicazione dell’art. 131-bis c.p. con riferimento allo specifico sistema delineato dal D.Lgs. n. 231 del 2001 per la responsabilità degli enti, la Corte di Cassazione addiveniva alla conclusione secondo cui dovesse escludersi la possibilità di applicare la causa di non punibilità pervenendo per l’appunto alla conclusione giuridica secondo la quale l’eventuale declaratoria di non punibilità per particolare tenuità del fatto nei confronti dell’autore del reato presupposto non incide sulla contestazione formulata nei confronti dell’ente, nè ad esso può applicarsi la predetta causa di non punibilità.

Chiarito ciò, il Supremo Consesso, alla luce di quanto sin qui esposto, affermava come questo motivo di ricorso fosse manifestamente infondato ed, in ogni caso, nessuna carenza motivazionale potesse rilevarsi nella decisione impugnata in quanto la richiesta formulata dalla difesa riguardava una questione che ben poteva essere prospettata con i motivi di appello e rispetto alla quale non vi era nessun obbligo di pronuncia da parte della Corte territoriale.

Conclusioni

La sentenza in commento è assai interessante specialmente nella parte in cui affronta la problematica se sia applicabile la particolare tenuità del fatto in materia di responsabilità amministrativa degli enti.

Orbene, la conclusione negativa a cui la Corte di Cassazione è pervenuta in questa pronuncia si basa sulla scorta di un’articolata motivazione frutto di un’attenta lettura della normativa di riferimento, con particolar riguardo alla relazione governativa al d.lgs. n. 231.

Il giudizio in ordine a quanto statuito in questa pronuncia, dunque, non può che essere positivo fermo restando che, per evitare l’insorgere di diversi indirizzi giurisprudenziali in relazione a tale argomento, sarebbe forse opportuno che su tale tematica intervenissero le Sezioni Unite.

 

 

 

Sentenza collegata

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Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

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