Indice
- Il fatto
- I motivi addotti nel ricorso per Cassazione
- Le questioni prospettate nell’ordinanza di rimessione
- La posizione assunta dalla Procura generale presso la Corte di Cassazione
- Le valutazioni giuridiche formulate dalle Sezioni Unite
- Conclusioni
1. Il fatto
La Corte di Appello di Ancona, in parziale riforma della sentenza emessa dal giudice di prime cure, dichiarava la responsabilità dell’imputato in ordine al delitto di violenza privata continuata, sostituendo la pena detentiva di giorni venti di reclusione irrogatagli nel primo grado di giudizio, con la corrispondente pena pecuniaria di euro 5.000, confermando nel resto la decisione impugnata.
2. I motivi addotti nel ricorso per Cassazione
Avverso il provvedimento emesso dai giudici di seconde cure proponeva ricorso per Cassazione il difensore dell’imputato, deducendo i seguenti motivi: 1) erronea applicazione della legge penale in relazione all’art. 131-bis cod. pen., e la mancanza di motivazione in ordine alla sussistenza dell’elemento dell’abitualità, per avere la Corte di Appello considerato, quale ragione ostativa alla declaratoria di non punibilità per la particolare tenuità del fatto, il vincolo della continuazione tra le condotte poste in essere dell’imputato, sebbene le stesse, connotate dall’occasionalità e da modesti effetti lesivi, fossero state da lui realizzate nell’arco di soli tre giorni e nel ristretto lasso temporale di un mese, nel medesimo luogo e nei confronti della stessa persona; 2) erronea applicazione della legge penale in relazione all’art. 610 cod. pen. per avere la Corte di Appello ritenuto la sussistenza degli elementi costitutivi del delitto, nonostante il ricorrente, persona invalida, si fosse limitato a mantenere l’abitudine, che risaliva ad una fase temporale antecedente l’apertura dell’area di servizio, di parcheggiare i veicoli da lui usati in prossimità della propria abitazione, senza alcuna volontà di ostruire le corsie di accesso al distributore e di limitare il gestore dell’area nel regolare esercizio della sua attività lavorativa.
3. Le questioni prospettate nell’ordinanza di rimessione
La Quinta Sezione Penale, sezione assegnataria del ricorso, lo rimetteva alle Sezioni Unite, prospettando l’esistenza di un contrasto di giurisprudenza.
In particolare, nel richiamare preliminarmente la natura giuridica, i presupposti applicativi e le finalità legate alla previsione della causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, introdotta dal legislatore con la disposizione di cui all’art. 131-bis cod. pen., la Sezione illustrava i principi affermati dalle Sezioni Unite in ordine alle diverse ipotesi di abitualità della condotta ivi contemplate (Sez. U, n. 13681 del 25/02/2016) osservando che, nel fare ricorso ad un concetto diverso da quello di “occasionalità“, la volontà del legislatore sembra essere stata quella di adottare un criterio più ampio, in modo che la presenza di un precedente giudiziario non fosse di per sé sola ostativa al riconoscimento della particolare tenuità del fatto.
Al riguardo, in particolare, l’ordinanza di rimessione rilevava come, con la richiamata decisione, le Sezioni Unite non abbiano affrontato la questione relativa all’eventuale applicabilità della causa di esclusione della punibilità al reato continuato, sebbene la compatibilità della particolare tenuità del fatto con la continuazione fosse stata indicata come uno dei profili maggiormente problematici sin dai primi commenti alla riforma legislativa, così lasciando sostanzialmente aperta la questione, sulla quale si era formato un contrasto fra due opposti orientamenti della giurisprudenza di legittimità.
Ebbene, a fronte di ciò, era osservato che, secondo un primo indirizzo interpretativo, essenzialmente fondato sul tenore letterale della formulazione di cui all’art. 131-bis cit., la causa di non punibilità non è applicabile nel caso di più reati esecutivi di un medesimo disegno criminoso (ex multis, Sez. 1, n. 55450 del 24/10/2017; Sez. 5, n. 48352 del 15/05/2017; Sez. 2, n. 28341 del 05/04/2017; Sez. 5, n. 4852 del 14/11/2016; Sez. 2, n. 1 del 15/11/2016; Sez. 3, n. 43816 del 01/07/2015; Sez. 3, n. 29897 del 28/05/2015), evidenziandosi al contempo che, nelle decisioni che si richiamano a tale indirizzo ermeneutico, si afferma, in particolare, che «lo sbarramento di cui al menzionato comma deve ritenersi operante non solo nel caso di pregresso accertamento giudiziario dell’abitualità, ma anche con riferimento a condotte prese in considerazione nell’ambito di un medesimo procedimento e, quindi, anche con riferimento ai reati avvinti dal vincolo della continuazione» (Sez. 3, n. 29897 del 28/05/2015) e, dunque, il riconoscimento della continuazione, secondo tale tesi interpretativa,, pur comportando un trattamento sanzionatorio di maggior favore per la valorizzazione dell’unicità del disegno criminoso, «non elide la circostanza che osta al riconoscimento del beneficio, ovvero “l’oggettiva” reiterazione di condotte rilevanti» (Sez. 2, n. 1 del 15/11/2016).
Muovendo da tale impostazione esegetica, di conseguenza, i reati esecutivi di un medesimo disegno criminoso, pur unificati al fine del trattamento sanzionatorio, «appaiono espressione di un “comportamento abituale”, di una “devianza non occasionale”, ostativa al riconoscimento del beneficio in quanto priva di quel carattere di trascurabile offensività che, invece, deve caratterizzare “il fatto” ove lo si voglia sussumere nel paradigma normativo di cui al citato art. 131-bis» (Sez. 6, n. 3353 del 13/12/2017).
Secondo un diverso orientamento giurisprudenziale è possibile, invece, il riconoscimento della particolare tenuità del fatto in caso di reato continuato purché questo non sia ritenuto espressivo di una tendenza o inclinazione al crimine (Sez. 5, n. 5358 del 15/01/2018; Sez. 5, n. 35590 del 31/05/2017; Sez. 2, n. 19932 del 29/03/2017) e, al riguardo, l’ordinanza di rimessione osservava che, al fine di escludere il connotato dell’abitualità, tale indirizzo interpretativo ritiene necessario valorizzare una pluralità di elementi, quali la gravità del fatto, la capacità a delinquere, i precedenti penali e giudiziari, la durata della violazione, il numero delle disposizioni di legge violate, gli effetti della condotta antecedente, contemporanea e susseguente al reato, gli interessi lesi e perseguiti dal reo, oltre alle motivazioni, anche indirette, sottese alla condotta: elementi, questi, che possono contribuire ad escludere il connotato della “abitualità” della condotta nel caso della mera continuazione, sicché la non punibilità per particolare tenuità del fatto può essere dichiarata anche in presenza di più reati legati dal vincolo della continuazione, giacché quest’ultima, non individuando comportamenti di per sé stessi espressivi del carattere seriale dell’attività criminosa e dell’abitudine del soggetto a violare la legge, non si identifica automaticamente con l’abitualità nel reato, ostativa come tale al riconoscimento del beneficio.
Nella prospettiva seguita da tale orientamento giurisprudenziale, pertanto, il solo fatto che un reato sia stato posto in continuazione con altri reati non è di ostacolo, in astratto, all’operatività dell’istituto, dovendosi valutare, in concreto, se “il fatto“, inteso nella sua globalità, sia meritevole di un apprezzamento in termini di speciale tenuità.
Orbene, sulla base di tali considerazioni, la Quinta Sezione Penale rimetteva il ricorso alle Sezioni Unite con riferimento alla questione concernente il carattere ostativo o meno della continuazione tra i reati ai fini dell’applicazione della causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen., osservando che la soluzione di tale questione ne includeva anche una subordinata, relativamente alla individuazione delle condizioni la cui ricorrenza possa consentire di applicare in concreto l’istituto della particolare tenuità del fatto a fronte di un reato continuato, nel caso in cui non lo si reputi in sé ostativo alla configurabilità della predetta causa di non punibilità.
4. La posizione assunta dalla Procura generale presso la Corte di Cassazione
Nella sua requisitoria, il Procuratore generale, dopo aver esaminato la sfera dei rapporti fra l’istituto della continuazione e la nozione di abitualità del comportamento all’interno della previsione di cui all’art. 131-bis cit., illustrava una serie di argomentazioni a sostegno della non ostatività della continuazione all’applicazione della causa di esclusione della punibilità, concludendo per il rigetto del ricorso con l’affermazione dei principi di diritto di seguito indicati: a) «ai fini dell’applicazione della causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen., non è di per sé ostativa la continuazione tra i reati, ad eccezione del caso della commissione di tre reati della stessa indole, attesa l’espressa previsione di cui al comma terzo dell’art. 131-bis cod. pen.»; b) «il giudice, nel valutare la particolare tenuità dei reati unificati dal vincolo della continuazione, deve tenere in particolare considerazione il numero dei reati commessi, l’unicità o pluralità delle disposizioni di legge violate, l’identità della persona offesa, la síncronicità delle condotte, elementi in base ai quali può negare il beneficio, anche in presenza di episodi caratterizzati singolarmente da particolare tenuità dell’offesa».
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5. Le valutazioni giuridiche formulate dalle Sezioni Unite
Le Sezioni Unite, dopo avere delimitato la questione sottoposta al loro vaglio giudiziale nel senso di rispondere a se sia possibile ritenere la continuazione tra i reati di per sé sola ostativa all’applicazione della causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, ovvero lo sia solo in presenza di determinate condizioni, e dopo avere citato gli orientamenti nomofilattica contrapposti formatisi in subiecta materia, ritenevano prima di tutto opportuno analizzare il fondamento e gli elementi strutturali dell’istituto in esame al fine di inquadrarne i punti di intersezione e gli eventuali profili di incompatibilità nelle ipotesi in cui i fatti oggetto del giudizio rientrino nella disciplina del reato continuato, il che era compiuto nei seguenti termini: “Con il d.lgs. 16 marzo 2015, n. 28, recante «Disposizioni in materia di non punibilità per particolare tenuità del fatto, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera m), della legge 28 aprile 2014, n. 67», il legislatore ha introdotto nel codice penale la nuova disposizione dell’art. 131-bis, inserendovi «una generale causa di esclusione della punibilità che sì raccorda con l’altrettanto generale presupposto dell’offensività della condotta, requisito indispensabile per la sanzionabìlità penale di qualsiasi condotta in violazione di legge» (Corte cost., sent. n. 120 del 2019). Siffatta disposizione individua una «soglia massima di gravità» correlata ad una pena edittale non superiore nel massimo a cinque anni di reclusione, stabilendo, per i titoli di reato che non eccedono tale soglia, una «linea di demarcazione trasversale», che esclude la punibilità delle condotte aventi «in concreto» un tasso di offensività marcatamente ridotto (Corte cost., sent. n. 120 del 2019; Corte cost., sent. n. 30 del 2021).
Il primo comma dell’art. 131-bis cit. stabilisce, infatti, che «nei reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena, la punibilità è esclusa quando, per le modalità della condotta e per l’esiguità del danno o del pericolo, valutate ai sensi dell’articolo 133, primo comma, l’offesa è di particolare tenuità e iI comportamento risulta non abituale». La particolare tenuità dell’offesa, desunta dalle modalità della condotta e dall’esiguità del danno o del pericolo, e la non abitualità del comportamento costituiscono, dunque, i parametri fondamentali ai quali il giudizio discrezionale dell’autorità giudiziaria deve fare riferimento al fine di ritenere applicabile o meno al caso concreto la causa di non punibilità in esame.
La ratto del nuovo istituto viene generalmente individuata nell’intento del legislatore di ampliare l’ambito della non sanzionabilità di determinate condotte astrattamente integranti gli estremi di un reato, perseguendo in tal modo finalità strettamente connesse ai principi di proporzione e di extrema ratio della risposta punitiva, con la realizzazione di effetti positivi anche sul piano deflattivo, attraverso la responsabilizzazione del giudice nella sua attività di valutazione in concreto della fattispecie sottoposta alla sua cognizione. Il suo scopo primario, come affermato da questa Corte (Sez. U, n. 13681 del 25/02/2016, omissis, Rv. 266591), è infatti «[ ] quello di espungere dal circuito penale fatti marginali, che non mostrano bisogno di pena e, dunque, neppure la necessità di impegnare i complessi meccanismi del processo». Nella medesima prospettiva si è precisato, con la richiamata decisione, che «il fatto particolarmente lieve, cui fa riferimento l’art. 131-bis cod. pen., è comunque un fatto offensivo, che costituisce reato e che il legislatore preferisce non punire, sia per affermare la natura di extrema ratio della pena e agevolare la “rieducazione del condannato”, sia per contenere il gravoso carico di contenzioso penale gravante sulla giurisdizione». Ne consegue che il fatto non è punibile non perché inoffensivo, ma perché il legislatore, pur in presenza di un fatto tipico, antigiuridico e colpevole, ritiene che sia inopportuno punirlo, ove ricorrano le condizioni indicate nella richiamata disposizione normativa. Una prospettiva assiologica, questa, accolta e più volte rimarcata dalla Corte costituzionale (sent. n. 30 del 2021; sent. n. 156 del 2020; ord. n. 279 del 2017), che ha successivamente esteso l’ambito di applicazione dell’istituto (sent. n. 156 del 2020) anche ai reati puniti con la reclusione che, pur superiore nel massimo edittale a cinque anni, abbia un minimo edittale coincidente con quello generale di quindici giorni”.
In definitiva, come posto in rilievo dal Giudice delle leggi, nel delimitare l’ambito di applicazione dell’istituto il legislatore ha «da un lato compiuto una graduazione qualitativa astratta, basata sulla natura e sull’entità della pena, e vi ha aggiunto un elemento di impronta personale, pure esso tipizzato, tassativo, relativo all’abitualità o meno del comportamento» (Sez. U, n. 13682 del 25/02/2016), dall’altro, «ha demandato al giudice una ponderazione quantitativa rapportata al disvalore di azione, a quello di evento, nonché al grado della colpevolezza» (ibidem), avendo, infine, limitato «la discrezionalità del giudizio escludendo alcune contingenze ritenute incompatibili con l’idea di speciale congiunta degli indicatori afferenti alla condotta, al danno, alla colpevolezza» (ibidem).
Precisato ciò, a questo punto della disamina, gli Ermellini ritenevano altresì necessario fare presente che il problema, concernente l’applicabilità dell’art. 131-bis cit. ad una pluralità di reati avvinti dalla continuazione, ha accompagnato l’evoluzione giurisprudenziale dell’istituto sin dal momento della sua introduzione nel sistema penale, innestandosi, in particolare, sul secondo degli “indici-criteri” previsti dalla norma, quello relativo alla non abitualità del comportamento dell’autore posto che, ai fini della esclusione della punibilità, non è sufficiente la tenuità dell’offesa ma occorre, come precisato nella relazione illustrativa del decreto legislativo n. 28 del 2015, che il reato oggetto del giudizio non si inserisca «in un rapporto di seriazione con uno o più altri episodi criminosi».
Ciò posto, a sua volta l’indice-criterio della non abitualità del comportamento, che ha superato, sotto il profilo della ragionevolezza, il vaglio di compatibilità costituzionale del Giudice delle leggi con la sentenza n. 279 del 2017, poggia su una serie di contenuti che possono essere individuati solo attraverso il collegamento dell’enunciato normativo alla più ampia formulazione della disposizione racchiusa nel terzo comma dell’art. 131-bis cit. fermo restando che, al riguardo, il legislatore ha utilizzato una nozione, quella di “non abitualità” del comportamento, diversa da quella di mera “occasionalità” del fatto, ma non ne ha definito espressamente la sostanza e i contorni applicativi, rimettendo all’interprete il compito di ricavarla indirettamente dalla definizione normativa di “comportamento abituale” visto che il terzo comma della richiamata disposizione individua tre ipotesi di comportamento abituale che, sebbene considerate, nella relazione illustrativa del decreto legislativo n. 28 del 2015, di tipo meramente “esemplificativo“, sono state ritenute tassative dalle Sezioni Unite n. 13681/2016 «anche in considerazione del fatto che il legislatore non fornisce una definizione positiva di comportamento non abituale a cui ricondurre ulteriori casi di comportamento abituale».
In particolare, affinché la condotta possa essere qualificata come abituale e, quindi, ostativa all’applicazione della causa di esclusione della punibilità, occorre secondo una sequenza lessicale tracciata dal legislatore con riferimento a tre diverse situazioni progressivamente elencate in via alternativa: a) che l’autore sia stato dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza; b) ovvero che siano stati commessi più reati della stessa indole, anche se ciascun fatto, isolatamente considerato, sia di particolare tenuità; c) o, infine, che si tratti di reati che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali o reiterate.
Il dato normativo, come affermato dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 13681/2016, quindi, mira ad escludere dall’ambito della particolare tenuità del fatto i «comportamenti seriali» mentre il riferimento, poi, ai «reati» e non alle «condanne», comporta che la pluralità di reati è configurabile non solo in presenza di condanne irrevocabili, ma anche quando l’accertamento del reato non sia ancora definitivo o si tratti di reati da giudicare nel medesimo procedimento o, ancora, quando sia stata in precedenza riconosciuta la causa di esclusione della punibilità in esame.
Detto questo, i giudici di piazza Cavour ritenevano necessario, a questo punto della decisione, fare presente che, pur senza affrontare espressamente il problema della compatibilità o meno della causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis con l’istituto della continuazione, le Sezioni Unite, nella pronuncia n. 13681/2016, hanno cercato di definire i contorni dell’abitualità del comportamento quale condizione ostativa all’applicazione dell’istituto.
Invero, mentre il primo dei tre parametri presi in considerazione dall’art. 131-bis, terzo comma, cit., ossia quello relativo alla dichiarazione di abitualità, professionalità e tendenza a delinquere, non solleva particolari problemi interpretativi, essendo già definito dal legislatore con le disposizioni di cui agli artt. 102, 103, 105, 108 cod. pen., non altrettanto precisa appare, per la Corte di legittimità, la formulazione lessicale utilizzata per descrivere le altre due ipotesi che connotano in termini di abitualità il comportamento del reo, escludendo l’applicabilità della causa di non punibilità: l’aver commesso più reati della stessa indole o l’aver commesso reati aventi ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate.
Con riferimento alla locuzione “più reati della stessa indole“, la menzionata decisione, dopo aver precisato che «non si parla di condanne ma di reati», ha tra l’altro affermato che «il tenore letterale lascia intendere che l’abitualità si concretizza in presenza di una pluralità di illeciti della stessa indole (dunque almeno due) diversi da quello oggetto del procedimento nel quale si pone la questione dell’applicabilità dell’art. 131-bis» e che «i reati possono ben essere successivi a quello in esame», vertendosi in un ambito differente da quello della recidiva.
Sotto tale profilo, inoltre, la Corte di legittimità ha oltre tutto precisato che «la pluralità dei reati può concretarsi non solo in presenza di condanne irrevocabili, ma anche nel caso in cui gli illeciti si trovino al cospetto del giudice che, dunque, è in grado di valutarne l’esistenza; come ad esempio nel caso in cui il procedimento riguardi distinti reati della stessa indole, anche se tenui».
Invece, la successiva locuzione “condotte abituali e reiterate” viene presa in esame dalle Sezioni Unite osservando che il legislatore fa riferimento ai reati «che presentano l’abitualità come tratto tipico» (ad es. i maltrattamenti in famiglia) ed ai reati «che presentano nel tipo condotte reiterate» (ad es., gli atti persecutori) dato che, in tali situazioni, la serialità è un elemento della fattispecie ed è quindi sufficiente a configurare l’abitualità che esclude l’applicazione della disciplina.
Alla dimensione strutturale che di per sé connota in senso preclusivo le evocate fattispecie di cui agli artt. 572 e 612-bis cod. pen. si accompagna, per di più, il rilievo attribuibile ai rispettivi limiti edittali di pena (superiori, per entrambe, alla soglia massima dei cinque anni di reclusione), che non consentono oggettivamente di ricomprenderle nel raggio di applicazione dell’art. 131-bis cit..
Infine, con riguardo al concetto di “condotte plurime“, la Suprema Corte, una volta escluso che tale locuzione possa essere ridotta ad «una mera, sciatta ripetizione di ciò che è stato denominato abituale o reiterato», ha affermato che «l’unica praticabile soluzione interpretativa è quella di ritenere che si sia fatto riferimento a fattispecie concrete nelle quali si sia in presenza di ripetute, distinte condotte implicate nello sviluppo degli accadimenti» (ad es., nel caso di un reato di lesioni colpose commesso con violazione delle norme sulla sicurezza del lavoro e generato dalla mancata adozione di distinte misure di prevenzione).
Ebbene, dall’analisi del tenore letterale e del contenuto complessivo della disposizione in esame, per le Sezioni Unite, secondo quanto dedotto nella pronuncia qui in commento, non è desumibile alcuna indicazione preclusiva alla potenziale applicabilità della relativa disciplina al reato continuato, né sono previsti limiti di ordine temporale all’efficacia della condizione ostativa dell’abitualità del comportamento, con il logico corollario che il reato o i reati “precedenti” possono essere anche assai risalenti nel tempo rispetto a quello oggetto del giudizio.
In effetti, dal momento che la causa di non punibilità in esame ha natura sostanziale ed una portata applicativa generale, come tale riferibile a tutte le ipotesi di reato rientranti nei parametri previsti dall’art. 131-bis cit., ne discende, per il Supremo Consesso, che, al di fuori delle ipotesi tassativamente escluse (nel secondo comma) dalla sfera di applicazione dell’istituto, la regola generale è quella secondo cui, nell’ambito delle fattispecie incriminatrici rientranti nei limiti edittali di pena stabiliti dall’art. 131-bis, qualunque offesa arrecata può sempre essere ritenuta di particolare tenuità, se in tal senso viene concretamente valutata dal giudice sulla base delle modalità della condotta e del danno o del pericolo cagionato al bene giuridico protetto.
E’ il principio di proporzione, in definitiva, a costituire, per la Corte di legittimità, come osservato dalla dottrina, “il fondamento logico-funzionale e anche costituzionale dell’istituto” poiché la risposta sanzionatoria perderebbe, in assenza di un vaglio di meritevolezza della pena per i fatti di reato in concreto connotati da una speciale tenuità, la sua stessa base di legittimazione all’interno di una prospettiva costituzionalmente orientata fermo restando che, sotto altro profilo, la meritevolezza della pena, sia essa intesa con riferimento alla gravità oggettiva del fatto che alla sua adeguatezza rispetto alla finalità rieducativa che ne disvela l’essenza costituzionale, costituisce il fondamento dei principi di extrema ratio e di proporzione, giustificandone al contempo l’efficacia deflattiva che il legislatore ha inteso ricollegare alle sue concrete modalità di funzionamento.
Ciò premesso, il Collegio riteneva di condividere l’impostazione delineata dal secondo indirizzo giurisprudenziale per le seguenti ragioni.
Si evidenziava prima di tutto come il primo dei richiamati orientamenti si risolva nella sostanziale equiparazione della non abitualità del comportamento alla unicità della sua realizzazione, aggirando in tal modo le difficoltà obiettivamente legate alla definizione di una categoria concettuale, quella dell’abitualità, che sta ad indicare la persistenza in una determinata condotta, ossia la costante ripetizione di comportamenti sintomatici, nel loro reiterarsi, di una qualità ulteriore rispetto alla loro mera sommatoria, trattandosi di una conclusione che presta il fianco ad obiezioni sia di carattere testuale, che di ordine logico-sistematico posto che la nozione di abitualità si riferisce ad una qualità che progressivamente si delinea e consolida nel tempo in conseguenza della realizzazione di plurime condotte omogenee, ma che non si esaurisce nella manifestazione esterna del solo dato obbiettivo di quella ripetizione perché l’acquisizione individuale di una consuetudine costituisce il risultato di un costume comportamentale, ossia di un’abitudine intesa, secondo il senso comune del vocabolo, come «disposizione acquisita con il costante e periodico ripetersi di determinati atti», e non può essere pertanto sovrapposta ad una situazione connotata dalla mera reiterazione di azioni.
Un ulteriore dato significativo, sempre ad avviso dei giudici di legittimità ordinaria, emerge, a contrario, dal contenuto della relazione illustrativa del d.lgs. n. 28 del 2015, ove si pone in rilievo come «la presenza di un ‘precedente’ giudiziario non sia di per sé sola ostativa al riconoscimento della particolare tenuità del fatto, in presenza ovviamente degli altri presupposti».
Il legislatore, dunque, non presuppone affatto che il reo sia un autore primario od occasionale.
Oltre a ciò, era inoltre considerato, come osservato dalla dottrina, che la stessa disposizione di cui all’art. 131-bis, comma 3, cit. non avrebbe alcuna ragion d’essere se ad ostacolarne l’operatività fosse sufficiente opporgli un solo precedente.
Il rilievo assegnato alle diverse tipologie di comportamento ivi elencate giustifica, di contro, per la Corte, la diversa interpretazione secondo cui la disposizione in esame costituisce il risultato di una complessa opera di selezione normativa dell’area di incidenza della non punibilità, sicché non ogni ripetizione del comportamento criminoso preclude il beneficio, rilevando solo quelle reiterazioni di comportamenti che esprimono una particolare inclinazione a delinquere dell’agente, idonea ad evidenziarne un verosimile rischio di persistenza o di ricaduta nel reato.
Tal che se ne faceva discendere come non fossero fondate, quindi, le argomentazioni volte a ritenere di per sé preclusa la concreta operatività del nuovo istituto in presenza di qualsivoglia reiterazione di comportamenti penalmente rilevanti.
La radice semantica del lemma “abitualità“, invero, come rilevato dalla dottrina, è rinvenibile nel suo collegamento all’habitus, quale nozione esplicativa di una costante ripetizione di comportamenti, a sua volta identificativa di una qualità ulteriore rispetto al dato oggettivo della loro aggregazione numerica.
Precisato ciò, muovendo dalla prospettiva ermeneutica seguita dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 13681/2016, la Suprema Corte rilevava come la categoria dell’abitualità sia stata delimitata e posta in relazione con tutte quelle condotte che presentano «l’abitualità come tratto tipico».
Linea esegetica, questa, alla quale rimane del tutto estranea la disciplina del reato continuato ove si consideri che l’elemento unificante di tale istituto si ricollega essenzialmente all’accertamento della medesimezza del disegno criminoso, laddove nel reato abituale il momento soggettivo che permea e colora di sé la realizzazione delle diverse condotte è ritenuto idoneo ad aggravare il disvalore di ogni singolo illecito che lo compone, dando vita ad un «sistema di comportamenti offensivi».
Analoghe considerazioni, sempre ad avviso dei giudici di piazza Cavour, devono svolgersi alla luce dei passaggi motivazionali dedicati alla individuazione a titolo esemplificativo delle situazioni riconducibili alla equivoca formula delle «condotte plurime», ove la menzionata decisione non richiama affatto l’istituto della continuazione, facendo riferimento ad un’ipotesi casistica (la plurima violazione colposa di prescrizioni cautelari dettate a tutela della sicurezza nei luoghi di lavoro) che si pone, di converso, agli antipodi della forma di manifestazione del reato disciplinata dall’art. 81, secondo comma, cod. pen..
Un’evenienza storico-fattuale che la sentenza n. 13681/2016 ritiene inquadrabile nell’ambito delle «condotte plurime» solo se i comportamenti in concreto implicati “nello sviluppo degli accadimenti” possono dirsi unificati, sul piano soggettivo, da una trascuratezza strutturale rispetto all’obbligo di garantire le condizioni necessarie per un lavoro sicuro.
Nella prospettiva delineata dalle Sezioni Unite, nella decisione appena citata, pertanto, l’applicazione della causa di esclusione della punibilità deve ritenersi preclusa nelle sole ipotesi in cui il dato obiettivo della pluralità delle violazioni possa essere interpretato come espressivo di un carattere di serialità dei comportamenti, ossia di un quid pluris generato – con riferimento alla peculiare fattispecie ivi richiamata – da un “consolidato regime di disinteresse per la sicurezza” del lavoro e a sua volta esternato da un atteggiamento soggettivo idoneo a dimostrare l’effettività di un habitus di pervicace trascuratezza nei confronti degli obblighi di tutela dell’altrui incolumità.
Né pare possibile prescindere, ai fini della risoluzione del quesito posto all’attenzione di questo Collegio, dalle implicazioni sottese all’ulteriore, pregnante, passaggio argomentativo secondo cui le disposizioni contenute nell’art. 131-bis cod. pen. non hanno riguardo alla condotta tipica, bensì «alle forme di estrinsecazione del comportamento al fine di valutarne complessivamente la gravità, l’entità del contrasto rispetto alla legge e conseguentemente il bisogno di pena».
Tale premessa ha portato quindi la Corte di Cassazione a sottolineare, significativamente, quanto segue: «si è qui entro la distinzione tra fatto legale, tipico, e fatto storico, situazione reale ed irripetibile costituita da tutti gli elementi del fatto concretamente realizzati dall’agente […1. Allora, essendo in considerazione la caratterizzazione del fatto storico nella sua interezza, non si dà tipologia di reato per la quale non sia possibile la considerazione della modalità della condotta ed in cui sia quindi inibita ontologicamente l’applicazione del nuovo istituto. L’opinione contraria […] è deviata dall’impropria sovrapposizione tra fatto tipico e fatto storico; tra l’offesa e la sua entità».
Detto questo, altra considerazione svolta dalle Sezioni Unite, nella decisione qui in esame, afferiva al fatto che l’istituto della continuazione, diversamente da quanto affermato in alcune decisioni che aderiscono al primo orientamento giurisprudenziale, non può essere considerato come sinonimo della nozione di “abitualità“, né appare coincidente o necessariamente sovrapponibile all’ipotesi in cui l’autore abbia commesso “più reati della stessa indole“.
Nel dettaglio, per quel che attiene al primo profilo, era rilevato come il legislatore abbia utilizzato, in luogo del concetto di “occasionalità“, la diversa nozione di “non abitualità“, così optando per una scelta che si giustifica con la volontà di assicurare all’istituto regolato dall’art. 131-bis cit. un più esteso ambito di operatività, escludendo dal suo raggio di applicazione solo quei comportamenti che siano espressione di una serialità nell’attività criminosa e di un’abitudine a violare la legge.
Pertanto, operando in tal guisa, secondo il Supremo Consesso, si è inteso così dare rilievo a tutte quelle situazioni che, all’interno di una concezione gradualistica dell’illecito, si connotano per un apprezzamento di maggiore gravità dei comportamenti, dunque per un profilo valutativo non rinvenibile nella disciplina in favor rei del reato continuato, ove, unico essendo stato l’impulso psichico criminoso del soggetto attivo (Sez. 1, n. 6248 del 27/11/1996), ben si giustifica un trattamento sanzionatorio più mite di quello conseguente al rigido cumulo materiale delle pene, in ragione del minor grado di pericolosità sociale rivelato dal comportamento di un soggetto che, come osservato dalla dottrina, “ha superato in un’unica occasione le controspinte che l’ordinamento predispone per contrastare l’interesse a delinquere“.
Al riguardo, invero, la Corte di Cassazione (Sez. 1, n. 15955 del 08/01/2016) ha tracciato la linea di demarcazione tra l’abitualità e la continuazione, affermando che «l’identità del disegno criminoso, che caratterizza l’istituto disciplinato dall’art. 81, comma secondo, cod. pen., postula che l’agente si sia previamente rappresentato e abbia unitariamente deliberato una serie di condotte criminose e non si identifica con il programma di vita delinquenziale del reo, che esprime, invece, l’opzione del reo a favore della commissione di un numero non predeterminato di reati, che, seppure dello stesso tipo, non sono identificabili a priori nelle loro principali coordinate, rivelando una generale propensione alla devianza, che si concretizza, di volta in volta, in relazione alle varie occasioni ed opportunità esistenziali».
Nella medesima prospettiva, inoltre, ha affermato che l’abitualità presuppone un impulso criminoso reiterato nel tempo che è incompatibile con l’unitaria deliberazione criminosa che caratterizza l’ipotesi del reato continuato (Sez. 1, n. 36036 del 05/07/2018).
Da ciò se ne faceva discendere quanto segue: «la volontà di commettere più reati per scelta delinquenziale, dovuta alla generica deliberazione di persistere nella condotta delittuosa, non ha nulla a che vedere con l’unicità del disegno criminoso tra due o più reati. Questa, consistendo in un progetto delinquenziale unitario, nell’ambito del quale la consumazione dei reati sia stata ideata e programmata, con riguardo ai mezzi e alle modalità di esecuzione, anche in un arco di tempo non necessariamente breve, non può essere confusa con l’abitudine a commettere un determinato tipo di reato» (Sez. 4, n. 8897 del 26/03/1993).
E’ dunque necessario, per la Corte di legittimità, distinguere l’identità del disegno criminoso da altre ipotesi di collegamento tra pluralità di reati, che, come l’abitualità o la professionalità criminosa, giustificano, all’opposto, un giudizio di maggior gravità della condotta dell’agente rilevandosi contestualmente che, dovendosi definire come abituale il reato per la cui esistenza la legge richiede la reiterazione di più condotte identiche od omogenee, l’unificazione, pertanto, si fonda sulla piena capacità offensiva del bene protetto soltanto ad opera dei molteplici atti cumulativamente considerati, richiedendo al contempo la consapevolezza che la nuova condotta si aggiunga alle precedenti, dando vita con esse ad un “sistema di comportamenti offensivi” ed entro tale prospettiva, come osservato dalla dottrina, la nozione di abitualità presuppone l’integrazione di un quid pluris che, oltre a far perdere alle singole condotte la loro individualità, rileva soltanto se dimostrativo dell’esistenza di un’amplificata necessità di difesa sociale a fronte di una persona la cui consuetudo delinquendi giustifica un complessivo apprezzamento di “proclività al delitto“, trattandosi di una valutazione opposta a quella che l’ordinamento formula in presenza di una pluralità di illeciti la cui realizzazione sia riconducibile ad una finalità programmatica unitaria.
Sebbene la dimensione naturalistica della continuazione risulti caratterizzata dalla violazione di più disposizioni della legge penale, realizzate attraverso una pluralità di azioni od omissioni, tale risultato, infatti, si connota, pur sempre, per essere il “prodotto” di un’unica decisione antigiuridica che a sua volta giustifica la determinazione di un unico trattamento sanzionatorio da irrogare nei confronti del soggetto che abbia agito in continuazione poiché il medesimo disegno criminoso viene a rappresentare l’unica “spinta” in grado di legare e avvincere a sé un insieme di reati, elidendone la somma complessiva del disvalore nell’ambito della preventiva deliberazione di un programma orientato, sin dal momento della commissione del primo reato, a conseguire un determinato fine (Sez. U, n. 28659 del 18/05/2017).
Ciò posto, per quel che attiene al secondo profilo, ossia al raccordo con la nozione di “reati della stessa indole“, è per la Corte agevole rilevare che se, da un lato, il nesso della continuazione può legare fra loro condotte che violano le medesime disposizioni di legge, ben può ipotizzarsi, dall’altro lato, una continuazione fra reati di indole diversa, purché essi risultino essere il frutto di una deliberazione unitaria.
In altri termini, ciò che connota il reato continuato è la commissione di più reati unificati dal medesimo disegno criminoso i quali, per un verso, possono non essere della stessa indole, neanche sostanziale, per altro verso, non sono di per sé espressione di abitualità nel comportamento.
In presenza di reati uniti dal vincolo della continuazione che pregiudichino beni giuridici non omogenei o che vengano commessi con modalità esecutive differenti, in effetti, non ricorrono affatto quei “caratteri fondamentali comuni” che contrassegnano la tipologia dei reati della stessa indole, in ragione della non univoca spinta a delinquere o della diversa natura dei fatti: in tali evenienze, dunque, non può ritenersi configurabile il requisito della stessa indole criminosa tra i vari illeciti posti in continuazione.
La nozione di reati della stessa indole, peraltro, fa riferimento a un duplice ambito di valutazione, sia oggettivo (“la natura dei fatti“) che soggettivo (“i motivi che li determinarono“), da cui desumere la ricorrenza di quei “caratteri fondamentali comuni” che, ai sensi dell’art. 101 cod. pen., qualificano l’indole criminale di un soggetto.
Tale categoria di reati, pertanto, si estende con un raggio d’azione più ampio rispetto a quello coperto dal medesimo disegno criminoso, includendovi anche i reati colposi (ontologicamente incompatibili con il reato continuato) e quelli commessi per effetto degli stessi impulsi o motivi a delinquere, ossia di quelle “singole causali” che, ai fini dell’accertamento della unicità del disegno criminoso, costituiscono, di contro, solo uno dei molteplici indici rivelatori che il giudice deve in concreto valorizzare nell’ambito di un’approfondita e generale verifica del caso (Sez. U, n. 28659 del 18/05/2017).
Da ciò se ne fa inferire che la tesi della non applicabilità dell’art. 131-bis cit. alla continuazione non può essere fondata sul richiamo, compiuto nel terzo comma di tale disposizione, all’ipotesi ostativa della pluralità dei reati della stessa indole.
Orbene, per le Sezioni Unite, sulla base di tali considerazioni, s’imponeva una prima, sia pur provvisoria, conclusione.
Se, infatti, non è automaticamente ravvisabile alcuna identità fra il reato continuato e l’abitualità, né alcuna sovrapposizione tra la continuazione e tutte quelle situazioni in cui sia riconoscibile una pluralità di reati della stessa indole, nel senso che la prima non necessariamente si compone dei secondi, per il Supremo Consesso, ne discende con evidenza, a corollario di tali premesse argomentative, il superamento del principale ostacolo che l’orientamento giurisprudenziale qui criticato frappone alla compatibilità tra i due istituti della continuazione e della causa di esclusione della punibilità in esame, residuando l’analisi di un delicato punto d’intersezione tra le dinamiche funzionali delle rispettive discipline nei soli casi in cui vengano concretamente in rilievo almeno tre reati della stessa indole.
Chiarito ciò, la Cassazione riteneva necessario, in tale passaggio motivazionale, esaminare un ulteriore profilo di potenziale incompatibilità fra il reato continuato e la causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto.
Ebbene, si evidenziava a tal proposito innanzitutto come sia stato già rilevato che, all’interno della micro-disciplina dettata dall’art. 131-bis, terzo comma, cit., il comportamento viene definito abituale non solo nelle situazioni espressamente individuate dagli artt. 101 ss. cod. pen., ma anche nell’ipotesi in cui il reato abbia ad oggetto “condotte plurime, abituali e reiterate”.
Anche in relazione a questo specifico profilo della abitualità del comportamento, quindi, deve escludersi che il reato continuato possa farsi rientrare nell’ambito della locuzione normativa “reati che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate” e, più in particolare, del sintagma “condotte plurime” atteso che l’analisi del tenore letterale della disposizione consente di ritenere che il riferimento al carattere plurimo contraddistingue le condotte, non già i reati, come invece accade nell’ipotesi della continuazione; in altri termini, il dato testuale attribuisce rilievo alla presenza di fattispecie criminose – diverse ed ulteriori rispetto ai reati eventualmente o necessariamente abituali, di per sé riconducibili alla locuzione “condotte abituali e reiterate” – che nella loro dimensione strutturale implicano l’elemento della serialità, o che comunque presentano, nel caso concreto, una molteplicità di condotte legate allo sviluppo degli accadimenti.
Il legislatore, dunque, nell’impiegare genericamente l’espressione “reati”, ha inteso fare riferimento, nella disposizione di cui all’art. 131-bis, terzo comma, cit., non alle ipotesi di concorso di reati, quanto, invece, a determinate categorie di fattispecie, ossia a quelle situazioni concrete in cui il singolo reato viene realizzato attraverso una pluralità di modelli comportamentali, militando in tal senso, anzitutto, il raffronto con la formulazione letterale utilizzata, nello stesso terzo comma della disposizione in esame, per attribuire rilievo alla commissione di «più reati della stessa indole», dove il legislatore si riferisce evidentemente ad una pluralità di reati, non già ad un reato unico posto che, in questo caso, si utilizza esplicitamente l’espressione “più” reati, specificando, poi, che «ciascun fatto, isolatamente considerato» possa essere «di particolare tenuità» fermo restando che la mancata riproduzione di tale peculiare ipotesi e dell’espressione, certamente significativa, basata sull’impiego dell’unità sintattica “più reati“, costituisce un ulteriore elemento di conferma a sostegno del richiamato argomento secondo cui il legislatore, come osservato dalla dottrina, ha inteso propriamente riferirsi a categorie o “schemi di incriminazione“, non anche a ipotesi di concorso di reati.
Del resto, nel delineare la terza condizione preclusiva di cui all’art. 131-bis, terzo comma, cit., la novella legislativa non ha ripreso l’inciso “anche se ciascun fatto, isolatamente considerato, sia di particolare tenuità“, utilizzandolo invece con riferimento alla sola ipotesi della pluralità di reati della stessa indole: muovendo da una prospettiva esegetica orientata in senso logico-sistematico è plausibile ritenere, pertanto, che il legislatore abbia attribuito al giudice la possibilità di verificare la particolare tenuità dei singoli reati avvinti dalla continuazione, per escludere la sussistenza di quella condizione ostativa ed applicare, di conseguenza, la causa di non punibilità quando essi, in concreto, non risultino meritevoli di sanzione penale all’esito di una valutazione condotta sulla base dell’insieme dei criteri direttivi indicati nell’art. 131-bis.
Anche per tale ragione, dunque, ad avviso dei giudici di piazza Cavour, deve escludersi ogni automatica sovrapposizione tra l’istituto della continuazione e la fattispecie preclusiva derivante dalla realizzazione dei “reati che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate“.
Tale opzione esegetica, del resto, si pone in linea con la prospettiva al riguardo seguita dalle Sezioni Unite, nella pronuncia n. 13681/2016, le quali, nell’individuare il senso da attribuire alla locuzione “condotte plurime“, hanno fatto riferimento non al reato continuato, ma a «ripetute, distinte condotte implicate nello sviluppo degli accadimenti», tenuto conto altresì del fatto che, nella nozione di condotte plurime, possono farsi rientrare, come notato dalla dottrina, quelle “fattispecie astratte in cui sono tipizzate condotte diverse, per così dire, progressive“, come la promessa e la dazione nelle ipotesi di corruzione, ove tali condotte siano state entrambe realizzate, così come analogamente possono rientrarvi, a mero titolo esemplificativo, quelle situazioni di fatto caratterizzate: a) da ripetute dazioni di denaro in esecuzione di un unico accordo corruttivo che preveda una pluralità di atti da compiere (ipotesi che, in virtù del principio affermato da Sez. 6, n. 29549 del 07/10/2020, non dà luogo a continuazione, realizzandosi quest’ultima solo nel caso di una pluralità di accordi corruttivi); b) in tema di bancarotta fraudolenta patrimoniale, da molteplici condotte di distrazione verificatesi nell’ambito dello stesso fallimento (Sez. 5, n. 4710 del 14/10/2019, ove si esclude la configurabilità della continuazione sul rilievo che le singole condotte di cui all’art. 216 della legge fallimentare possono essere realizzate con uno o più atti, trattandosi di reato a condotta eventualmente plurima per la cui realizzazione è sufficiente il compimento di uno solo dei fatti contemplati dalla legge, mentre la pluralità di essi non ne fa venir meno il carattere unitario); c) da una pluralità di condotte riconducibili a quelle descritte dall’art. 73 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, qualora siano poste in essere contestualmente, ossia indirizzate ad un unico fine e senza un’apprezzabile soluzione di continuità, mentre nell’ipotesi in cui le differenti azioni tipiche (detenzione, vendita, offerta in vendita, cessione ecc.) siano distinte sul piano ontologico, cronologico, psicologico e funzionale esse costituiscono più violazioni della stessa disposizione di legge e, quindi, reati distinti, eventualmente unificati nel vincolo della continuazione (Sez. 6, n. 22549 del 28/03/2017); d) dalla pluralità delle condotte di inadempimento che integrano il delitto di frode in pubbliche forniture avente ad oggetto l’esecuzione di contratti di somministrazione di beni o servizi, trattandosi di una fattispecie la cui struttura è quella propria di un reato a consumazione post factum penalmente irrilevante (Sez. 6, n. 12073 del 06/02/2020).
Per la Corte, d’altronde, nelle situazioni finora considerate, peraltro, quand’anche la pluralità delle condotte fosse in concreto unificabile nel vincolo della continuazione, occorrerebbe comunque verificare, ai fini dell’eventuale applicazione della causa di esclusione della punibilità, il rispetto dei limiti edittali di pena e degli ulteriori fattori ostativi, in linea generale, contemplati dall’art. 131-bis cit. visto che la previsione di un limite edittale superiore nel massimo a cinque anni di pena detentiva esclude la possibilità di applicare l’istituto in relazione ad alcune delle ipotesi di reato dianzi richiamate [quelle di cui alle lett. a), b), c)], così come analoghe considerazioni devono svolgersi nell’ipotesi inversa, ossia quando, nonostante il carattere plurimo delle condotte, sia possibile ravvisare in concreto l’unicità dell’azione, muovendo dal rilievo attribuibile alla continuità temporale di un’azione delittuosa finalisticamente rivolta all’offesa del medesimo bene giuridico (Sez. 5, n. 41141 del 19/05/2014, nel caso in cui una pluralità di sottrazioni di beni risulti essersi verificata in un medesimo contesto spaziotemporale riconducibile ad un unico detentore; Sez. 5, n. 13836 del 11/12/2013, qualora vi sia contestualità cronologica tra la sottrazione e la conseguente distruzione di documenti e l’azione sia stata compiuta all’unico scopo di eliminare la prova del diritto; Sez. 6, n. 46498 del 16/09/2004, in tema di lesioni personali realizzate nel corso di una aggressione caratterizzata da più colpi contestualmente sferrati ai danni della stessa vittima; Sez. 6, n. 6754 del 12/03/1985, con riferimento ad una fattispecie di reiterazione dello stesso mendacio nel corso della medesima deposizione, anche se assunta frazionatamente in una o più udienze dibattimentali) giacché, anche in tali situazioni, la configurabilità della causa di esclusione della punibilità potrebbe essere negata, nonostante l’unicità dell’azione, all’esito della verifica relativa alla previsione di limiti edittali di pena superiori alla soglia massima stabilita dalla su richiamata disposizione, ovvero nella accertata ricorrenza delle ulteriori condizioni ostative ivi espressamente contemplate.
Al riguardo, per i giudici di legittimità ordinaria, un criterio direttivo utilizzabile, in linea generale, al fine di una corretta individuazione dei caratteri di unità o pluralità delle diverse fattispecie concrete, può ricavarsi dalle argomentazioni svolte sempre in sede nomofilattica per definire – con riferimento all’ipotesi del concorso formale di più reati di resistenza a pubblico ufficiale – il concetto di azione unica, nella quale vanno ricompresi tanto i casi in cui l’azione si risolva in un “atto unico” (conforme alla condotta normativamente prevista), quanto i casi in cui l’azione si realizzi attraverso il compimento di una “pluralità di atti” che siano contestuali nello spazio e nel tempo ed abbiano un fine unico, purché l’apprezzamento di tali caratteri (ossia la contestualità degli atti e la unicità del fine) venga effettuato in concreto, attraverso un rigoroso raffronto della fattispecie astratta descritta dalla norma (Sez. U, n. 40981 del 22/02/2018).
Entro la medesima prospettiva, infine, un’ulteriore linea di demarcazione rilevante al fine qui considerato, per la Cassazione, è quella tracciata fra i reati necessariamente abituali (ad es., il delitto di maltrattamenti in famiglia o il delitto di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti di cui all’art. 260, dlgs. 3 aprile 2006, n. 152) e quelli eventualmente abituali (ad es., l’esercizio abusivo di una professione o quelli di cui agli artt. 659 e 660 cod. pen.) poiché, nel caso di un reato eventualmente abituale realizzato con un’unica condotta, si afferma che, diversamente da quelli caratterizzati dalla reiterazione della condotta tipica, la causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis cit. può trovare piena applicazione (Sez. 1, n. 1523 del 05/11/2018; Sez. 3, n. 30134 del 05/04/2017; Sez. 3, n. 48318 del 11/10/2016).
Orbene, per le Sezioni Unite, dalla rilevata necessità che il reato si manifesti nelle forme di una condotta multipla discende, quale logico corollario, la conseguenza che nessuna valenza recessiva può attribuirsi, nella complessa configurazione strutturale della causa di esclusione della punibilità in esame, all’applicazione delle regole generali che, ai sensi dell’art. 81 cod. pen., definiscono sul piano normativo i presupposti e le condizioni per la valutabilità in termini unitari di una condotta che, nella sua dimensione naturalistica, risulti plurale.
Difatti, nei casi di concorso formale, ossia nell’ipotesi in cui, ai sensi dell’art. 81, primo comma, cod. pen., con un’unica azione od omissione siano state violate diverse disposizioni di legge, ovvero commesse più violazioni della medesima disposizione di legge, la circostanza che l’azione o l’omissione siano uniche, ha portato la giurisprudenza (Sez. 3, n. 47039 del 08/10/2015) ad escludere, in mancanza di una reiterazione della condotta, che si versi nelle ipotesi di comportamento abituale, sia perché non vengono in rilievo reati che hanno ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate, sia perché non sempre quell’unica azione od omissione importa la commissione di più reati della stessa indole (specie se non si versi nel caso del concorso di reato “omogeneo“, che ricorre nella diversa ipotesi in cui con un unico episodio comportamentale ovvero in un medesimo contesto spazio-temporale si verifichino più violazioni della medesima disposizione di legge).
Nelle situazioni in cui rilevi il concorso formale di reati, pertanto, non sussistono ragioni ostative all’applicazione della causa di non punibilità in esame, quanto meno con riferimento all’indice-criterio della “non abitualità del comportamento“, anche se in tale ipotesi il giudice dovrà comunque accertare le caratteristiche specifiche della vicenda in esame e valutare in concreto l’eventuale ricorrenza di tutti i presupposti rilevanti ai fini dell’applicazione dell’istituto (non solo quello della “non abitualità del comportamento“, ma anche quello della “particolare tenuità dell’offesa“).
Muovendo, infatti, dalla premessa secondo cui l’istituto del concorso formale è caratterizzato dalla “unicità” di azione o di omissione, la Cassazione ne ha escluso la collocazione sia tra le ipotesi di “condotte plurime, abituali e reiterate“, sia all’interno della categoria dei “reati della stessa indole“, affermando il principio secondo cui il concorso formale di reati non consente dl considerare operante lo sbarramento dell’abitualità del comportamento che impedisce l’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto (Sez. 3, n. 47039 del 08/10/2015,).
La valorizzazione del profilo normativo inerente alla unicità della condotta, in altri termini, ne disvela il carattere antitetico rispetto ai comportamenti connotati dall’abitualità.
Pur tuttavia, rilevavano le Sezioni Unite nella pronuncia in oggetto, siffatta impostazione ermeneutica, però, se esclude, per un verso, l’incompatibilità strutturale tra il concorso formale e la disposizione di cui all’art. 131-bis cod. pen., per altro verso, non consente di ritenere preclusa la possibilità di ricondurre in concreto il reato continuato alla categoria della particolare tenuità del fatto quale presupposto logico-giuridico per la configurabilità della relativa causa di esclusione della punibilità: ragioni di coerenza logico-sistematica e di unicità della direzione teleologica impressa alle singole azioni od omissioni esecutive del medesimo disegno criminoso impongono di considerare anche l’ipotesi disciplinata nell’art. 81, secondo comma, cod. pen. come “unitaria” dato che la regola della unitarietà del reato continuato, generalmente individuata nella prospettiva di una più ampia estensione applicativa del principio del favor rei, conosce delle eccezioni, come posto in rilievo dalla dottrina, solo quando la considerazione monolitica delle condotte possa determinare in concreto delle conseguenze contra reum, così come analoghe indicazioni, sotto tale profilo, possono trarsi da una, sia pur sintetica, disamina della costante elaborazione giurisprudenziale della Cassazione in ordine alla individuazione della connotazione di “unitarietà” nella continuazione tra i reati.
Invero, con la sentenza emessa dalle Sezioni Unite di cui n. 14 del 30/06/1994, che ha fissato il principio della scindibilità, nel corso dell’esecuzione, del cumulo giuridico delle pene irrogate per il reato continuato, ai fini della fruizione dei benefici penitenziari, queste Sezioni hanno affermato che la unitarietà del reato continuato deve affermarsi là dove vi sia una disposizione apposita in tal senso o dove la soluzione unitaria garantisca un risultato favorevole al reo, non dovendo e non potendo dimenticarsi che il trattamento di maggior favore per il reo è alla base della ratio, della logica, appunto, del reato continuato.
Non vi è, quindi, una struttura unitaria da assumere come punto di partenza di rilievo generale.
Al contrario, la considerazione unitaria del reato continuato richiede due condizioni: deve essere espressamente prevista da “apposita disposizione” o, comunque, deve garantire un risultato favorevole al reo.
Ne deriva che, al di fuori di queste due ipotesi, non vi è alcuna unitarietà di cui tener conto e, di conseguenza, vige e opera la considerazione della pluralità dei reati nella loro autonomia e distinzione che, pertanto, costituisce la regola.
Orbene, si prendeva altresì atto come tale orientamento sia stato altresì ribadito dalle Sez. U, nella decisione n. 18775 del 17/12/2009, (in tema di computo dei termini di durata massima della custodia cautelare) e nella pronuncia n. 3286 del 27/11/2008, la cui motivazione reca un passaggio ove si è ribadito che «può allora concludersi, e in tale senso è altresì orientata l’unanime dottrina, che il reato continuato si configura quale particolare ipotesi di concorso di reati che va considerato unitariamente solo per gli effetti espressamente previsti dalla legge, come quelli relativi alla determinazione della pena, mentre, per tutti gli altri effetti non espressamente previsti, la considerazione unitaria può essere ammessa esclusivamente a condizione che garantisca un risultato favorevole al reo».
Successivamente, anche altre decisioni (Sez. U, n. 22471 del 26/02/2015) hanno affermato, nella medesima prospettiva, che la realtà normativa costituita dall’istituto della continuazione è di carattere duttile, che può prestarsi, a seconda delle esigenze, a una lettura unitaria, ovvero ad una analisi frammentata, a seconda delle prospettive che si intendono perseguire.
In sintesi: in vista del perseguimento dell’obiettivo del favor rei, coesistono nella figura del reato continuato profili giuridici, tanto di unitarietà, quanto di pluralità.
Tale linea interpretativa, infine, è stata confermata dalla Corte anche in relazione alla individuazione delle modalità di calcolo degli aumenti di pena per i reati satellite (Sez. U, n. 47127 del 24/06/2021) là dove si è stabilito il principio secondo cui il giudice, ove riconosca la continuazione tra reati, nel determinare la pena complessiva deve, oltre ad individuare il reato più grave e stabilire la pena base per tale reato, calcolare e motivare in modo distinto anche l’aumento di pena per ognuno dei reati satellite.
Le implicazioni di tale impostazione ermeneutica, peraltro, per la Suprema Corte, assumono ancor maggiore pregnanza ove si prendano in esame due ulteriori profili di ordine logico-sistematico, sovente valorizzati sia dalla dottrina che dall’orientamento giurisprudenziale qui condiviso.
In primo luogo, la radicale esclusione del reato continuato dall’ambito applicativo della non punibilità per la particolare tenuità del fatto rischierebbe di generare incongruenze sistematiche nel raffronto con la linea interpretativa che pacificamente riconosce la configurabilità del nuovo istituto nelle ipotesi di concorso formale di reati: non si è in presenza, evidentemente, di due fattispecie identiche, ma è altrettanto indubbio, alla luce delle su esposte considerazioni, che, ai fini della valutazione del requisito della abitualità del comportamento, una eventuale disparità di trattamento fra le ipotesi del concorso formale e del reato continuato non potrebbe ritenersi improntata al canone della ragionevolezza, così come analoghi rilievi emergono alla luce della ratio ispiratrice che governa i presupposti per la configurabilità del nesso della continuazione, in considerazione del minor grado di riprovevolezza della condotta posta in essere da colui che cede all’impulso criminoso una sola volta, ossia al momento della ideazione del disegno criminoso: incoerente risulterebbe, sul piano logico-sistematico, uno sbarramento derivante da un’eventuale preclusione assoluta all’applicazione della causa di esclusione della punibilità in esame, rispetto ad un istituto, quello della continuazione, tradizionalmente plasmato sulla regola del favor rei.
Sotto altro, ma connesso profilo, la razionalità della tesi seguita dall’indirizzo qui condiviso e la complessiva “tenuta” logico-sistematica del congegno normativo regolato dall’art. 131-bis cit. per la Corte di legittimità, possono essere saggiate anche rispetto alle implicazioni della linea interpretativa che esclude, in generale, la presenza di fattori ostativi all’eventuale operatività della causa di non punibilità con riferimento al reato permanente, essendo stato a tale riguardo affermato che il reato permanente è caratterizzato non tanto dalla reiterazione della condotta, quanto, invece, da una condotta persistente, cui consegue la protrazione nel tempo dei suoi effetti e, pertanto, dell’offesa del bene giuridico protetto (Sez. 3, n. 47039 del 08/10/2015).
Entro tale prospettiva, del resto, sempre la Cassazione ha precisato che il reato permanente non è riconducibile nell’alveo del comportamento abituale come individuabile ai sensi dell’art. 131-bis cit. (v., in motivazione, Sez. 6, n. 17679 del 31/03/2016) sebbene possa essere certamente oggetto di valutazione con riferimento all’indice-criterio della particolare tenuità dell’offesa, la cui sussistenza sarà tanto più difficilmente rilevabile quanto maggiore sia la protrazione della condotta (Sez. 3, n. 47039 del 08/10/2015; Sez. 6, n. 17679 del 31/03/2016,).
La permanenza della condotta è, quindi, per le Sezioni Unite, ostativa all’applicazione del nuovo istituto in ragione della perdurante compressione del bene giuridico da essa derivante (Sez. 2, n. 16363 del 13/02/2019; Sez. 3, n. 30383 del 30/03/2016; Sez. 3, n. 50215 del 08/10/2015).
L’esclusione di profili di incompatibilità strutturale tra il reato continuato e la particolare tenuità del fatto, pertanto, comporta, per il Supremo Consesso, la necessità di valutare caso per caso le condizioni e i presupposti di compatibilità di tale interrelazione sulla base di una complessiva analisi della vicenda in concreto sottoposta al vaglio dell’autorità giudiziaria; il giudice, in altri termini, deve accertare se, in concreto, la ricorrenza di una pluralità di condotte illecite frutto della medesima risoluzione criminosa presenti, o meno, i caratteri della particolare tenuità alla luce dei criteri direttivi stabiliti dalla disposizione di cui all’art. 131-bis cit. dal momento che un eventuale diniego di applicazione della causa di non punibilità si giustifica solo all’esito di una valutazione discrezionale complessivamente incentrata sia sulle «modalità della condotta» – a loro volta comprensive dell’elemento soggettivo del reato, che «penetra nella tipicità oggettiva», come affermato dalla sentenza n. 13681/2016 – sia sulla «esiguità del danno o del pericolo»: valutazione, questa, che il giudice deve svolgere, in relazione ad entrambi i profili ora considerati, assumendo quali parametri di riferimento i criteri direttivi previsti dall’art. 133, primo comma, cod. pen., in quanto espressamente richiamati dalla disposizione di cui all’art. 131-bis, primo comma, cit..
Non ricorrono, dunque, per i giudici di piazza Cavour, i presupposti della causa di esclusione della punibilità nell’ipotesi in cui i reati in concorso materiale, pur unificati dal vincolo della continuazione, siano in concreto caratterizzati da peculiari note modali, ritenute idonee a disvelare – in ragione, ad es., di una “pervicacia nell’illecito assolutamente preponderante» o della stabile assunzione di un determinato modello comportamentale, se non di un vero e proprio stile di vita – una particolare attitudine del soggetto a violare in forma seriale la legge penale secondo i paradigmi delineati nel terzo comma dell’art. 131-bis: connotazioni della condotta, quelle dianzi richiamate, che non necessariamente, ma solo eventualmente, possono caratterizzare in concreto la realizzazione dei reati in continuazione, né l’offesa cagionata al bene giuridico può ritenersi di particolare tenuità in presenza delle situazioni ostative tassativamente individuate nel secondo comma dell’art. 131-bis, che esclude l’operatività dell’istituto con riferimento: a) a specifiche fattispecie di reato (come, ad es., quelle di cui agli artt. 336, 337, 341-bis, 343 cod. pen.); b) a determinate motivazioni e circostanze della condotta (ad es., i motivi abietti o futili; l’aver agito con crudeltà o l’aver approfittato delle condizioni di minorata difesa della vittima); c) ad alcune conseguenze, anche non volute, che ne siano derivate (la morte o le lesioni gravissime di una persona).
Dunque, entro tale prospettiva, per la Corte di legittimità, deve essere correttamente impostato il rapporto fra i due istituti escludendo la possibilità, pur in astratto configurabile, che la rilevata assenza di profili di incompatibilità strutturale comporti, in concreto, l’assoluta e incondizionata applicabilità della disciplina dell’art. 131-bis cit. al reato continuato visto che tale diversa ipotesi ricostruttiva si porrebbe in contrasto con la ratio ispiratrice e il perimetro letterale della richiamata disposizione normativa, poiché l’istituto della continuazione non può prescindere dal necessario raccordo con il complesso quadro degli elementi che compongono la dimensione strutturale e funzionale della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto.
La disciplina del reato continuato, quale unificazione normativa di condotte naturalisticamente plurime, deve pertanto inserirsi all’interno di un micro-sistema governato dai principi di proporzione e finalismo rieducativo in relazione alla valutazione discrezionale di un “bisogno reale” di pena dove essenzialmente rileva, come sottolineato dalla sentenza n. 13681/2016, “la caratterizzazione del fatto storico nella sua interezza” e l’esiguità del disvalore penale costituisce il “frutto di una valutazione congiunta degli indicatori afferenti alla condotta, al danno e alla colpevolezza“.
Conclusione, questa, a sostegno della quale convergono, per la Corte, una serie di argomenti testuali, sistematici e teleologici che, nel loro insieme, la rendono preferibile rispetto all’orientamento contrario, atteso che, nella sua dinamica funzionale, la continuazione assume fisionomie tra loro sensibilmente diverse, potendo variare, di volta in volta, la tipologia del bene giuridico protetto, il numero dei reati avvinti dal medesimo disegno criminoso, lo spazio temporale che distanzia i singoli episodi illeciti, l’omogeneità o la eterogeneità delle violazioni, la loro gravità in astratto, le forme e modalità di realizzazione dei diversi segmenti storico-fattuali in cui si articola nel tempo il disegno criminoso e così via, e ciò sta a significare che, in relazione alla disciplina del reato continuato, l’eventuale connotazione di “abitualità” del comportamento deve essere necessariamente valutata in concreto in modo da evitare automatismi preclusivi che irragionevolmente ostino al riconoscimento della causa di esclusione della punibilità nei confronti di persone per le quali non sia effettivamente individuabile alcuna esigenza special-preventiva, tenuto conto altresì del fatto che il giudice è tenuto a motivare in maniera adeguata sulle forme di estrinsecazione del comportamento incriminato, al fine di valutarne la gravità, l’entità del contrasto rispetto alla legge e, conseguentemente, il bisogno di pena, dovendosi ritenere insufficiente il richiamo a mere clausole di stile (Sez. 6, n. 18180 del 20/12/2018).
I reati avvinti dal nesso della continuazione, pertanto, per la Cassazione, devono essere oggetto di un complessivo apprezzamento discrezionale da parte del giudice che dovrà soppesarne la concreta incidenza nella prospettiva della meritevolezza o meno della pena secondo i parametri fissati dall’art. 131-bis cit., svolgendo un’adeguata verifica sulla base di una serie di indici rappresentati, in particolare: a) dalla natura e dalla gravità degli illeciti unificati; b) dalla tipologia dei beni giuridici lesi o posti pericolo; c) dall’entità delle disposizioni di legge violate; d) dalle finalità e dalle modalità esecutive delle condotte; e) dalle relative motivazioni e dalle conseguenze che ne sono derivate; f) dall’arco temporale e dal contesto in cui le diverse violazioni si collocano; g) dall’intensità del dolo; h) dalla rilevanza attribuibile ai comportamenti successivi ai fatti.
Orbene, in relazione a tale ultimo indice di valutazione, si rilevava come, nell’attuale formulazione dell’art. 131-bis cod. pen., non compaia alcun riferimento ai comportamenti successivi alla consumazione del reato, essendo richiamato solamente il primo comma dell’art. 133 cod. pen. e non il secondo comma, che al n. 3 consente al giudice di valutare ai fini della determinazione della pena le condotte susseguenti al reato.
Sulla base del dato letterale della disposizione in esame, pertanto, la medesima Cassazione ha escluso la rilevanza del comportamento tenuto dall’agente post delictum atteso che la norma di cui all’art. 131-bis cit. correla l’esiguità del disvalore ad una valutazione congiunta delle modalità della condotta, del grado di colpevolezza da esse desumibile, dell’entità del danno o del pericolo, da apprezzare in relazione ai soli profili di cui all’art. 133, primo comma, cod. pen., e non invece con riguardo a quelli, indicativi di capacità a delinquere, di cui al secondo comma, includenti la condotta susseguente al reato (Sez. 5, n. 660 del 02/12/2019), rilevandosi al contempo che, nella medesima prospettiva, si è inoltre precisato che l’eliminazione delle conseguenze pericolose del reato non integra di per sé una lieve entità dell’offesa atteso che l’esiguità del disvalore deriva da una valutazione congiunta degli indicatori afferenti alla condotta, al danno e alla colpevolezza (Sez. 3, n. 893 del 28/06/2017, dep. 2018).
Al riguardo, tuttavia, è necessario, per la Corte di legittimità, considerare che l’art. 1, comma 21, della legge 27 settembre 2021, n. 134, recante “delega al Governo per l’efficienza del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari”, stabilisce che, nell’esercizio della delega di cui al comma 1, i decreti legislativi recanti modifiche al codice penale in materia di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto sono adottati nel rispetto di una serie di principi e criteri direttivi, tra i quali assume particolare importanza il criterio indicato nella lett. b), ove si attribuisce rilievo “….alla condotta susseguente al reato ai fini della valutazione del carattere di particolare tenuità dell’offesa”.
Ebbene, la valorizzazione da parte del legislatore di tale specifico criterio di delega comporta, per il Supremo Consesso, la necessità di superare l’indirizzo al riguardo seguito dalla giurisprudenza della Cassazione includendo, nel catalogo degli indicatori dianzi richiamati, anche il profilo di valutazione inerente alla “condotta susseguente al reato“.
Entro tale prospettiva, dunque, le condotte successive al reato ben possono integrare nel caso concreto un elemento suscettibile di essere preso in considerazione nell’ambito del giudizio di particolare tenuità dell’offesa, rilevando ai fini dell’apprezzamento della entità del danno, ovvero come possibile spia dell’intensità dell’elemento soggettivo.
Nell’esaminare, inoltre, la natura dei reati in continuazione e del bene giuridico leso, per le Sezioni Unite, potrebbe oltre tutto venire in rilievo una situazione caratterizzata dalla presenza di una pluralità di reati della stessa indole, con la conseguente necessità di verificarne il dato numerico, in applicazione del principio al riguardo affermato dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 13681/2016 poiché la serialità ostativa, come tale idonea ad integrare l’abitualità del comportamento, si realizza «quando l’autore faccia seguire a due reati della stessa indole un’ulteriore, analoga condotta illecita», e ciò sta a significare che i reati della stessa indole devono essere almeno tre, ricomprendendosi nel numero anche quello per il quale si procede fermo restando che siffatto principio di diritto, applicabile anche alla disciplina del reato continuato, a sua volta, presuppone, sul piano naturalistico, una pluralità di violazioni riconducibili ad una dimensione unitaria, dunque non occasionale, in ragione di un disegno operativo unitario che salda fra loro le diverse azioni illecite considerato che la richiamata decisione muove dalla duplice premessa argomentativa secondo cui, da un lato, i reati idonei ad integrare un comportamento abituale possono non essere stati oggetto di condanne irrevocabili ed essere sottoposti, al contempo, alla cognizione dello stesso giudice che procede, dall’altro lato, ciascuno dei fatti singolarmente considerato può essere a sua volta caratterizzato da profili di particolare tenuità.
Ne discende, per la Corte, che, a fronte di tali evenienze, l’applicazione della causa di non punibilità dovrà ritenersi preclusa nel momento in cui risultino a carico dell’autore almeno tre reati della stessa indole, avvinti fra loro dal nesso della continuazione, mentre, nelle diverse ipotesi in cui il nesso della continuazione avvinca solo due reati della stessa indole, ovvero i reati non siano della stessa indole (in quest’ultimo caso prescindendo anche dal dato numerico), non scatterà alcuna preclusione applicativa e il giudice dovrà conseguentemente verificare la ricorrenza o meno degli ulteriori indici previsti dall’art. 131-bis, operando un giudizio complessivo sulla concreta vicenda oggetto della sua cognizione.
Muovendo dalla prospettiva delineata nella richiamata decisione delle Sezioni Unite, non emergono, pertanto, elementi ostativi di natura testuale all’applicabilità della causa di esclusione della punibilità al reato continuato, ad eccezione della su indicata ipotesi in cui i tre diversi segmenti attraverso i quali si articola la sequenza comportamentale oggetto del medesimo disegno criminoso siano ascrivibili, all’esito di una valutazione discrezionale operata dal giudice nel caso concreto, alla categoria normativa dei reati della stessa indole atteso che l’identità dell’indole deve essere valutata dal giudice in relazione al caso esaminato, verificando se in concreto i reati presentino caratteri fondamentali comuni (Sez. 5, n. 53401 del 30/05/2018).
Ora, secondo una costante linea interpretativa, nella nozione di reati della stessa indole rientrano non soltanto quei reati che violano una medesima disposizione di legge, ma anche quelli che, pur previsti da testi normativi diversi, presentano, nei casi concreti, caratteri fondamentali comuni per la natura dei fatti che li costituiscono o dei motivi che li hanno determinati.
Sulla base di tali criteri direttivi e della correlata valutazione discrezionale del giudice, del resto, la stessa Corte di Cassazione ha già affermato che più reati possono considerarsi omogenei per comunanza di caratteri fondamentali quando siano simili le circostanze oggettive nelle quali si sono realizzati, quando le condizioni di ambiente e di persona nelle quali sono state compiute le azioni presentino aspetti che rendano evidente l’inclinazione verso un’identica tipologia criminosa, ovvero quando le modalità di esecuzione, gli espedienti adottati o le modalità di aggressione dell’altrui diritti rivelino una propensione verso la medesima tecnica delittuosa (Sez. 3, n. 49717 del 20/09/2019; Sez. 3, n. 38009 del 10/05/2019; Sez. 3, n. 3362 del 04/10/1996).
La nozione di “stessa indole“, pertanto, risulterà per lo più sovrapponibile, nei casi concreti, all’ipotesi in cui venga in rilievo la forma della cd. “continuazione omogenea“, caratterizzata dalla plurima violazione della stessa disposizione di legge.
L’istituto della continuazione e la nozione di “reati della stessa indole“, viceversa, si pongono, di contro, in un rapporto di reciproca autonomia nella diversa ipotesi in cui il medesimo disegno criminoso abbracci la realizzazione di reati del tutto eterogenei, venendo meno, in siffatta evenienza, qualsiasi preclusione operativa all’istituto previsto dall’art. 131-bis.
Ne discende che, nel suo concreto manifestarsi, la continuazione, da un lato, può abbracciare una serie di reati con caratteristiche corrispondenti a quelle descritte dall’art. 101 cod. pen., dall’altro lato, può avere ad oggetto, come si è già rilevato, una pluralità di condotte delittuose le cui specifiche note modali non consentono di ricomprenderle nella categoria di reati individuati sulla base dei criteri stabiliti dalla su indicata disposizione normativa.
Chiarito ciò, si faceva inoltre presente che un’ulteriore questione problematica può porsi all’attenzione del giudice in considerazione della esigenza di verificare in concreto i profili di rilevanza del fattore temporale all’interno della continuazione.
Secondo alcune decisioni, infatti, assume un particolare rilievo, ai fini dell’applicabilità della causa di esclusione della punibilità prevista dall’art. 131-bis cod. pen., l’esigenza di individuare una linea di demarcazione tra le ipotesi di continuazione “diacronica” o “sincronica” (ex multis v. Sez. 3, n. 35630 del 13/07/2021; Sez. 5, n. 30434 del 13/07/2020; Sez. 4, n. 10111 del 13/11/2019; Sez. 6, n. 18192 del 20/03/2019; Sez. 4, n. 4649 del 11/12/2018; Sez. 3, n. 19159 del 29/03/2018).
La continuazione “diacronica“, in particolare, si verifica quando vengano in rilievo delitti commessi all’interno di sequenze spazio-temporali distanti tra loro, sicché risulta difficile, in concreto, individuare possibili margini di applicazione per la particolare tenuità del fatto, in quanto la reiterazione di condotte delittuose in distinte occasioni, presupponendo singole volizioni a sostegno di ciascuna azione, dimostrerebbe una pervicacia criminale che non consentirebbe di stimare il fatto come occasionale.
Nella diversa ipotesi in cui la continuazione risulti “sincronica“, ossia tra delitti realizzati nelle medesime circostanze di tempo e di luogo, all’opposto, la particolare tenuità del fatto non potrebbe ritenersi con essa incompatibile, in ragione della estemporaneità dell’azione illecita perché, nella continuazione sincronica, sarebbe l’unitarietà del contesto in cui sono poste in essere le diverse condotte a conferire unità sostanziale alla volontà criminosa che le sorregge, esprimendo sotto tale profilo un minor coefficiente di disvalore del fatto, dal momento che l’agente si pone una sola volta contro l’ordinamento.
La rilevata compatibilità fra la disciplina della continuazione e la causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, per la Corte, non consente, tuttavia, di rilevare la presenza di particolari limiti applicativi al di là dei casi di continuazione diacronica sinora venuti in rilievo nella elaborazione giurisprudenziale visto che nulla osta all’applicazione della disposizione prevista dall’art. 131-bis cod. pen. rispetto a reati che – pur verificatisi, in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, in contesti spazio-temporali del tutto differenti – rechino in sé un’offesa di particolare tenuità al bene protetto e non risultino contrassegnati da una stessa indole, ma appaiano in concreto il frutto di una deliberazione estemporanea o, comunque, solo occasionale.
La disciplina legale dell’istituto della continuazione prevede l’applicazione di un regime sanzionatorio favorevole anche quando i reati sono stati commessi in tempi diversi.
Al riguardo, infatti, la formula utilizzata dal legislatore («anche in tempi diversi») consente espressamente di riconoscere la continuazione anche in relazione ad accadimenti che si collocano in tempi assai lontani fra loro.
Ne consegue per le Sezioni Unite che l’ampiezza, più o meno rilevante, dell’arco temporale entro cui si distendono le diverse condotte delittuose, non costituisce, di per sé, un criterio idoneo a scalfire il giudizio di meritevolezza del trattamento di favore che l’ordinamento riserva all’autore che abbia agito nell’ambito, e in esecuzione, di un medesimo disegno criminoso.
Entro tale prospettiva, dunque, per la Corte, non può essere condivisa l’affermazione secondo cui l’applicazione dell’art. 131-bis cit. sarebbe possibile solo in presenza di condotte occorse nelle «medesime circostanze di tempo e di luogo» (Sez. 3, n. 35630 del 13/07/2021; Sez. 4, n. 47772 del 25/09/2018, omissis, cit.; Sez. 5, n. 5358 del 15/1/2018) dal momento che, in tali casi, come posto in rilievo dalla dottrina, si è dinanzi ad elementi di fatto (come quello temporale) che il legislatore non considera di per sé ostativi al riconoscimento della continuazione, ovvero a situazioni (come la collocazione spaziale dei fatti) addirittura estranee alla disciplina e alla ratio del reato continuato, trattandosi, invero, di elementi circostanziali che, ai fini del riconoscimento della continuazione, possono concretamente rilevare in diverse direzioni, rientrando, assieme a numerosi altri indicatori (Sez. U, n. 28659 del 18/05/2017), nella più ampia cornice storico-fattuale oggetto del prudente apprezzamento discrezionale del giudice.
Al riguardo, infatti, la Cassazione ha affermato che il breve lasso di tempo intercorso fra le molteplici violazioni della stessa o di diverse disposizioni di legge non è un elemento dal quale possa di per sé desumersi l’unicità del disegno criminoso, così come non è sufficiente il mero riferimento alla contiguità cronologica degli addebiti ovvero all’identità o analogia dei titoli di reato, in quanto indici sintomatici non di attuazione di un progetto criminoso unitario quanto di una abitualità criminosa e di scelte di vita ispirate alla sistematica e contingente consumazione di illeciti (Sez. 5, n. 21326 del 06/05/2010).
Sotto altro, ma connesso profilo, si è del resto affermato (Sez. 1, n. 11359 del 03/04/2020) che è legittima l’esclusione della sussistenza del vincolo della continuazione in considerazione del notevole lasso di tempo registrabile tra i vari fatti criminosi, qualora tale elemento non sia contrastato da positive e contrarie risultanze probatorie, così come, nella medesima prospettiva, si è altresì chiarito che «l’elevato arco di tempo all’interno del quale sono stati commessi più reati (nella specie, dieci anni) non esime il giudice dall’onere di verificare se la continuazione possa essere riconosciuta con riferimento a singoli gruppi di reati commessi, all’interno di tale arco, in epoca contigua, tenuto conto degli ulteriori indici rappresentati dalla similare tipologia, dalle singole causali e dalla contiguità spaziale» (Sez. 1, n. 7381 del 12/11/2018; Sez. 1, n. 14348 del 04/02/2013).
Eventuali preclusioni, dunque, non risulterebbero affatto compatibili, sul piano applicativo, con l’ampiezza e la varietà dei criteri che, anche in relazione al momento soggettivo, devono orientare la valutazione giudiziale del requisito della particolare tenuità del fatto.
Ciò non di meno, è evidente che, nelle circostanze del caso concreto, risulterà più agevole individuare l’elemento di raccordo fra la continuazione e la causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis cit. nelle vicende connotate da un significativo grado di concentrazione spazio-temporale delle condotte, ossia nei «casi in cui emerga una unitaria e circoscritta deliberazione criminosa», versandosi in situazioni che, di regola, rispetto alla diversa ipotesi di una pluralità di reati commessi entro un orizzonte spazio-temporale assai dilatato, risultano incompatibili, in presenza degli ulteriori requisiti normativi, con forme e modalità di condotta sintomatiche di una abitudine del reo a violare la legge (Sez. 5, n. 30434 del 13/07/2020; Sez. 4, n. 10111 del 13/11/2019; Sez. 4, n. 4649 del 11/12/2018).
D’altronde, sempre ad avviso delle Sezioni Unite, l’unificazione normativa delle condotte avvinte dal medesimo disegno criminoso non esclude, peraltro, la possibilità di attribuire rilievo, in concreto, all’autonomia delle sue diverse componenti, quando la regola della unitarietà si riverberi in un danno o in una situazione di svantaggio per l’imputato, potendosi verificare al riguardo delle situazioni in cui la valutazione autonoma dei singoli fatti risulti in concreto più aderente alla diversa connotazione di gravità dei reati in continuazione, alcuni soltanto dei quali potrebbero costituire oggetto del giudizio di particolare tenuità dell’offesa, così come analoghe considerazioni possono svolgersi nelle ipotesi in cui alcuni dei reati in continuazione siano oggettivamente esclusi dall’ambito di operatività della causa di esclusione della punibilità, per effetto di una specifica previsione ostativa ai sensi dell’art. 131-bis, secondo comma, cit., o perché astrattamente puniti con pene detentive superiori nel massimo edittale al limite dei cinque anni fissato nel primo comma.
A fronte di tali evenienze, quindi, per la Suprema Corte, nulla impedisce di “sciogliere” la continuazione tra la pluralità delle condotte illecite ai fini dell’applicazione del più favorevole istituto previsto dall’art. 131-bis, riconoscendo la causa di non punibilità, in presenza di tutte le condizioni previste dalla legge, anche in relazione ad uno solo dei fatti riuniti sotto la disciplina della continuazione, avuto riguardo, per un verso, al comune principio del favor rei che permea di sé la dinamica funzionale di entrambi gli istituti, per altro verso, alla formulazione letterale della clausola normativa prevista dall’art. 131-bis, terzo comma, cit., ove il legislatore, nell’individuare la terza ipotesi di abitualità ostativa (relativa alle «condotte plurime, abituali e reiterate»), non ha replicato l’inciso utilizzato con riferimento alla precedente ipotesi dei reati della stessa indole («[….]anche se ciascun fatto, isolatamente considerato, sia di particolare tenuità[….]»), in modo da consentire al giudice la possibilità di verificare in concreto la particolare tenuità delle singole condotte legate dalla continuazione.
Non ricorrono, in definitiva, ostacoli di ordine logico-sistematico all’applicabilità al reato continuato della causa di esclusione della punibilità prevista dall’art. 131-bis cit., trattandosi di istituti ispirati entrambi al principio del favor rei, che rispondono ad esigenze e finalità sostanziali diverse, ma fra loro pienamente conciliabili, del sistema penale.
Da un lato, l’ordinamento mira ad attenuare il rigore sanzionatorio del cumulo materiale, sostituendo ad esso il diverso regime del cumulo giuridico nell’ipotesi in cui i reati commessi con più azioni od omissioni siano il frutto di un’unica determinazione del soggetto attivo.
Dall’altro lato, si persegue la finalità di mandare esenti da pena quei fatti che, nella loro concreta realizzazione, appaiano caratterizzati da un grado minimo di offensività e, dunque, non meritevoli di applicazione in concreto della sanzione, in ossequio ai principi di extrema ratio e proporzionalità della reazione punitiva da parte dell’ordinamento.
Nelle vicende concrete poste all’attenzione del giudice, pertanto, può ben darsi l’ipotesi che un reato continuato, inquadrato nell’alveo semantico e nel perimetro letterale delimitato dall’art. 131-bis, terzo comma, cit., abbia cagionato, per le sue particolari forme di realizzazione o per la particolare esiguità del danno o del pericolo, un’offesa particolarmente tenue ai beni giuridici tutelati, senza mostrare, al contempo, quelle note modali espressive di un’intensa refrattarietà ai comandi della legge, tipica della nozione di abitualità ostativa al riconoscimento della causa di non punibilità mentre, al di fuori delle ipotesi espressamente escluse dal raggio di azione della causa di esclusione della punibilità, qualunque ipotesi di reato rientrante nei parametri fissati dall’art. 131-bis può essere ritenuta di particolare tenuità, se in tal senso viene concretamente valutata dal giudice, dovendosi infatti al riguardo considerate, non solo la natura sostanziale e la portata generale della richiamata disposizione, ma anche la sua peculiare collocazione sistematica all’interno del titolo V del libro I del codice penale, ove è stata inserita ancor prima delle disposizioni (artt. 132 ss.) che regolano l’esercizio del potere discrezionale del giudice nell’applicazione della pena: una collocazione, questa, sintomatica, come osservato dalla dottrina, della volontà del legislatore di sollecitare il giudice ad accertare l’eventuale ricorrenza dei presupposti di applicazione della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto in ossequio ai principi di proporzionalità e di extrema ratio della sanzione penale.
In conclusione, la questione posta dall’ordinanza di rimessione veniva risolta enunciando i seguenti principi di diritto: 1) «La pluralità di reati unificati nel vincolo della continuazione non è di per sé ostativa alla configurabilità della causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto prevista dall’art. 131-bis cod. pen., salve le ipotesi in cui il giudice la ritenga idonea, in concreto, ad integrare una o più delle condizioni tassativamente previste dalla suddetta disposizione per escludere la particolare tenuità dell’offesa o per qualificare il comportamento come abituale»; 2) «In presenza di più reati unificati nel vincolo della continuazione, la causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto può essere riconosciuta dal giudice all’esito di una valutazione complessiva della fattispecie concreta, che, salve le condizioni ostative previste dall’art. 131-bis cod. pen., tenga conto di una serie di indicatori rappresentati, in particolare, dalla natura e dalla gravità degli illeciti in continuazione, dalla tipologia dei beni giuridici protetti, dall’entità delle disposizioni di legge violate, dalle finalità e dalle modalità esecutive delle condotte, dalle loro motivazioni e dalle conseguenze che ne sono derivate, dal periodo di tempo e dal contesto in cui le diverse violazioni si collocano, dall’intensità del dolo e dalla rilevanza attribuibile ai comportamenti successivi ai fatti».
6. Conclusioni
La decisione in esame è assai interessante in quanto, dopo un lungo e articolato ragionamento giuridico, le Sezioni Unite giungono ad affermare come la continuazione, di per sé considerata, non può rappresentare una condizione ostativa ai fini del riconoscimento della particolare tenuità del fatto.
Difatti, in tale pronuncia, si afferma, da una parte, che la pluralità di reati unificati nel vincolo della continuazione non è di per sé ostativa alla configurabilità della causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto prevista dall’art. 131-bis cod. pen., salve le ipotesi in cui il giudice la ritenga idonea, in concreto, ad integrare una o più delle condizioni tassativamente previste dalla suddetta disposizione per escludere la particolare tenuità dell’offesa o per qualificare il comportamento come abituale, dall’altra, che, in presenza di più reati unificati nel vincolo della continuazione, la causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto può essere riconosciuta dal giudice all’esito di una valutazione complessiva della fattispecie concreta, che, salve le condizioni ostative previste dall’art. 131-bis cod. pen., tenga conto di una serie di indicatori rappresentati, in particolare, dalla natura e dalla gravità degli illeciti in continuazione, dalla tipologia dei beni giuridici protetti, dall’entità delle disposizioni di legge violate, dalle finalità e dalle modalità esecutive delle condotte, dalle loro motivazioni e dalle conseguenze che ne sono derivate, dal periodo di tempo e dal contesto in cui le diverse violazioni si collocano, dall’intensità del dolo e dalla rilevanza attribuibile ai comportamenti successivi ai fatti.
Tale provvedimento, quindi, deve essere preso nella dovuta considerazione al fine di considerare se il giudice abbia correttamente ritenuto la continuazione, nel valutare l’applicabilità (o meno) della causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen., quale sua causa ostativa ovvero l’abbia invece stimata ininfluente rispetto al suo riconoscimento.
Il giudizio in ordine a quanto statuito in tale sentenza, proprio perché fa chiarezza su codesta tematica giuridica, dunque, non può che essere positivo.
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Il testo è aggiornato a: D.Lgs. 75/2020 (lotta contro la frode che lede gli interessi finanziari dell’Unione); D.L. 76/2020 (c.d. decreto semplificazioni); L. 113/2020 (Disposizioni in materia di sicurezza per gli esercenti le professioni sanitarie e socio-sanitarie nell’esercizio delle loro funzioni) e D.L. 130/2020 (c.d. decreto immigrazione). Fabio PiccioniAvvocato del Foro di Firenze, patrocinante in Cassazione; LL.B., presso University College of London; docente di diritto penale alla Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali; coordinatore e docente di master universitari; autore di pubblicazioni e monografie in materia di diritto penale e amministrativo sanzionatorio; giornalista pubblicista.
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