L’utilizzo del danno da perdita della vita-inteso quale danno riconosciuto allo stesso soggetto deceduto e trasmissibile agli eredi- quale criterio di personalizzazione della somma liquidata in base alle tabelle milanesi a titolo di danno parentale rappresenta una illogicità.
Il fatto
La sentenza in commento è interessante, anche se di non facile lettura,perché, a parer nostro, contiene discrasie nelle argomentazioni di parte ricorrente , ma non solo,che dimostrano quanto ancora si debba lavorare perché il sistema assimili il nuovo istituto del risarcimento del danno non patrimoniale.
Una prima discrasia può riscontrarsi nel fatto che non vengono indicati i titoli in base ai quali il Tribunale ha riconosciuto il risarcimento del danno, ciò che, come si vedrà in prosieguo, determinerà altra discrasia] che fa sì che da parte dei ricorrenti, nelle diverse fasi del processo, si invochi l’avvenuto risarcimento da parte del giudice di prime cure e del danno da perdita della vita e del danno da perdita del congiunto.
Per un adeguato commento sarebbe quanto mai opportuno conoscere il petitum dei ricorrenti che, viste le diverse interpretazioni dovrebbe essere stato abbastanza generico tale da giustificare sia una interpretazione che comprenda la configurazione” del danno da perdita della vita” come personalizzazione della somma liquidata a titolo di danno parentale [interpretazione del Tribunale]- ma che è stato visto dalla Corte territoriale come “errore terminologico, reputando che non vi fossero gli estremi dello stesso nel caso in esame- sia la interpretazione di un presunto riconoscimento del danno da perdita della vita trasmissibile jure hereditatis [interpretazione dei ricorrenti].
Infatti, vedi infra (quinto motivo),ivi la Corte Territoriale ritiene che in primo grado sia stato riconosciuto il solo danno parentale laddove i ricorrenti, come detto, vantano il riconoscimento del danno da perdita della vita
Anzitutto ricordiamo che gli ultimi esiti interpretativi della Suprema Corte hanno portato a precisare che fatta piazza pulita delle definizioni utilizzate (anche dalla stessa Cassazione) per il danno non patrimoniale da uccisione, quali «danno terminale», «danno tanatologico», «danno catastrofale» e «danno esistenziale», definite espressioni che «non hanno alcuna dignità scientifica» il danno non patrimoniale subito da una persona che muoia a causa delle lesioni sofferte può manifestarsi in due modi:
a) come lesione della salute; in questo caso trattasi di pregiudizio che ha fondamento medico-legale che consiste nella forzata rinuncia alle attività quotidiane durante il periodo della invalidità e sussiste anche quando la vittima sia stata incosciente;
b) come turbamento e spavento derivanti dalla consapevolezza della morte imminente; in questo caso il pregiudizio non ha fondamento medico-legale, consiste in un moto dell’animo, sussiste solo quando la vittima sia stata cosciente e consapevole. Cassazione 5 luglio 2019 n.18056.
La sudescritta fattispecie -la si chiami come si vuole- non corrisponde ,a parer nostro, al risarcimento della perdita del bene vita bensì piuttosto al risarcimento di un danno non patrimoniale – conseguente ad una lesione che dopo un periodo di sopravvivenza ha come esito il decesso –e che consiste nel risarcimento, oltre che del danno alla salute, anche del grave turbamento indotto dalla consapevolezza di dover morire e quindi in qualche modo “equipara” tale consapevolezza all’evento morte ( v.in proposito Viceconte, Malattia professionale e danno tanatologico , nota a Tribunale di Genova 15 febbraio 2016 n.122 in Giurisprudenza italiana, aprile 2016,pag.935).
C’è da chiedersi anche: se il Tribunale ha riconosciuto il danno da perdita della vita come personalizzazione del danno parentale significa che –differentemente da quanto dice la Corte territoriale- c’erano i presupposti per il riconoscimento dello stesso ma non è stato riconosciuto ai ricorrenti in quanto non era stato richiesto (in ossequio al principio della domanda-“nemo iudex sine actore- che regge i processi civilistici e anche quelli lavoristici).
Non è da sottovalutare quindi l’ambiguità della terminologia usata laddove si parla di danno da perdita della vita inteso quale danno riconosciuto allo stesso soggetto deceduto trasmissibile agli eredi e danno da perdita della vita acquisito dagli eredi jure hereditatis ( già danno tanatologico), laddove l’ambiguità sta in quel ‘riconosciuto allo stesso soggetto deceduto’ che per essere “deceduto” non può più ricevere nel suo patrimonio il risarcimento e trasmetterlo successivamente agli eredi [ che è poi l’argomento epicureo su cui fonda tutto l’impianto interpretativo, ora quasi secolare, per disconoscere il danno da perdita della vita [ v.Cassazione Sezioni Unite n.15350/2015].
Tant’è che il primo motivo d’appello, respinto, poggia proprio su tale ambiguità:” Con il primo motivo i ricorrenti, denunziando violazione e falsa applicazione degli artt. 111, comma 6, Cost. e 132, comma 2, n. 4,cod. proc. civ., sostengono che la Corte d’appello sarebbe incorsa in un difetto della motivazione laddove ha ritenuto che il riferimento al “danno da perdita della vita”, contenuto nella sentenza di prime cure, fosse da ritenersi un «errore terminologico» e, conseguentemente, che il Tribunale non avesse effettivamente riconosciuto il diritto al risarcimento del danno da perdita della vita. La Corte di appello non avrebbe, ad avviso dei ricorrenti, né chiarito né spiegato – con ciò incorrendo nella denunziata carenza della motivazione – perché il riconoscimento del diritto al risarcimento del danno iure proprio sarebbe inconciliabile con quello iure hereditario.”. In altri termini i ricorrenti riterrebbero in tal modo che il Tribunale avrebbe riconosciuto vuoi il suddetto “danno da perdita della vita”, acquisibile iure hereditatis vuoi il risarcimento del danno parentale che viene acquisito iure proprio.
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Il terzo motivo di appello conferma tale posizione dei ricorrenti. Gli stessi richiamano la violazione dei principi in materia di interpretazione delle sentenze e dei relativi canoni interpretativi che si sostanzierebbero nella violazione e falsa applicazione dell’art.12 Preleggi, applicabili in via analogica ai provvedimenti giurisdizionali. Secondo sia il criterio interpretativo letterale sia il principio della mens legis emergerebbe che il giudice di primo grado aveva inteso consapevolmente e non erroneamente) anche il danno da perdita della vita, configurato come sopra dalla cassazione ,acquisito iure hereditario dai ricorrenti.
Ulteriore conferma della suddetta interpretazione deriva dalla denuncia dell extrapetizione, nonché la violazione del principio del tantum devolutum quantum appellatum e dell’art.345 cpc. Secondo, i ricorrenti persino parti avverse avrebbero riconosciuto nei lori atti di impugnazione che tale danno fosse stato liquidato in sentenza di primo grado.
La decisione
La Corte di legittimità ritiene invece che la Corte territoriale non sia incorsa in tali vizi: la prospettazione dei ricorrenti si ridurrebbe esclusivamente a “una diversa interpretazione”. Contraddicendosi i ricorrenti deducono che la società assicuratrice aveva eccepito che già il Tribunale aveva pronunciato ultra petita-e di qui l’utilità di conoscere il petitutm.
Con il quinto motivo- sempre diretto a corroborare ancor più la loro posizione- i ricorrenti richiamando un brano della sentenza di appello dove si enuncia che ”il percorso logico seguito dal giudice di prime cure ha condotto a riconoscere agli interventori il solo diritto al risarcimento del danno da perdita del rapporto parentale Posto che non sarebbe stato avanzato alcun appello incidentale sul punto il relativo capo di decisione appare intangibile”. A questa enunciazione i ricorrenti oppongono che tale affermazione sarebbe errata e che essi non avrebbero potuto proporre appello incidentale, poiché sussisteva espressa statuizione loro favorevole sul punto dell’esistenza del danno da perdita della vita. Respinto anche tale motivo.
Infine la Corte di legittimità conferma la mancanza di allegazione e prova del danno da perdita parentale. Nella specie la Corte di merito ha ritenuto, valutando le risultanze istruttorie e in base ad un giudizio di fatto, non censurabile in questa sede, non provato o specificato alcunché, evidenziando la mancata indicazione, in particolare, di una eventuale convivenza con la vittima, di una specifica e costante frequentazione con la stessa, o di un legame
affettivo diverso da quello meramente parentale. Di conseguenza la Corte di Cassazione ha rigettato in toto il ricorso.
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