La portata applicativa dell’art. 131 bis c.p. e la responsabilità degli enti

Redazione 04/02/20
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L’istituto della particolare tenuità del fatto è stato aggiunto nel nostro ordinamento con il d. lgs. n. 28/2015. Ipotesi analoghe a quella introdotta dal legislatore ricorrevano nell’art. 34 del d.lgs. 274/2000, anch’esso prevedendo la particolare tenuità del fatto come causa di esclusione della procedibilità; e nel processo penale minorile.

Prima di definirne i contenuti, occorre stabilire i principi costituzionali ai quali la disposizione fa riferimento. Occorre dar rilievo all’art. 112 Cost, il quale assume in sé il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale ex art. 3 Cost.e della legalità di cui all’art. 25 co. 2 Cost. e all’articolo art. 27 Cost.

L’art. 112 Cost. e l’art. 131 bis c.p paio incompatibili tra loro, poiché il principio costituzionale è volto a garantire l’obbligatorietà della norma penale, mentre la disposizione codicistica è intenta a produrre un effetto deflattivo. Il P.M., dunque, nella fase investigativa, sarà tenuto ad adempiere agli obblighi di bilanciamento dei diritti con la proporzionalità della sanzione.

La ratio dell’art. 131 bis c.p. e della depenalizzazione è dunque quella di produrre un effetto deflattivo di alcune condotte penale, prima sanzionabili anche in ragione di quanto previsto dall’art. 3 Cost.

L’art. 27 Cost, d’altro canto, è volto a garantire una maggiore attinenza da parte dell’ordinamento al principio di responsabilità penale personale, in ragione di ciò è previsto che il giudice attui un giudizio ad hoc sulla base dell’ipotesi di reato e sulle circostanze che lo caratterizzano. Inoltre, sul piano rieducativo il sistema, considerato quale extrema ratio, si disinteressa dei reati esigui.

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I principi che sorreggono l’art. 131 bis c.p.

La disposizione di cui all’art. 131 bis c.p. risulta, pertanto, perfettamente in linea con il principio di offensività, per cui il ricorso alla tutela penale è ammesso solo qualora sia leso un bene tutelato dall’ordinamento.  Il principio assolve a una duplice funzione: quella dell’offensività in astratto, per cui è devoluto al legislatore il compito di creare unicamente ipotesi di reato che siano in grado di ledere beni giuridici; e l’offensività in concreto, in cui si demanda al giudice per il riconoscimento di fatti offensivi dei beni costituzionalmente tutelati.

La norma di cui all’art. 131 bis c.p. prima del suo ingresso nell’ordinamento veniva ricompresa nell’art. 49 c.p. che disciplina il reato impossibile. Tale riferimento risulta alquanto forzato, in quanto le due norme sono tra loro molto distanti, poiché mentre nell’art. 49 c.p. non vi è alcuna offesa a un bene giuridico; l’art. 131 bis c.p. produce un’offesa, benchè esigua.

Pertanto, in passato accadeva che nell’ipotesi di furto di merce di modico valore, si facesse riferimento all’art. 49 c.p., ad oggi tale circostanza ricadrebbe nella particolare tenuità del fatto di cui all’art 131 bis c.p.

Ancora, nell’ipotesi dei reati legati alle sostanze stupefacenti cosiddette leggere, si misura l’estensione o la restrizione reciproca dei due istituti. Nel caso di coltivazione domestica di poche piante di marijuana, l’offensività non ricorre soltanto se la sostanza ricavabile della coltivazione non è idonea a produrre un effetto stupefacente, pertanto, rientrerà nell’alveo del reato impossibile; all’opposto, qualora un effetto, seppur in minima parte, si ottiene ricorre l’ipotesi di cui all’art. 131 bis c.p. di lieve entità dell’offesa.

In merito alla natura giuridica dell’istituto in oggetto, si sono scontrate due distinte e accreditate tesi: da una parte quella della procedibilità dell’azione penale, avvicinando tale disciplina a quella congegnata per il giudice di pace; dall’altra le tesi sostanziali, in cui per una corrente l’art. 131 bis c.p. risulterebbe una causa di esclusione del reato e per un’altra una causa di esclusione della pena.

A prevalere è la tesi che considera l’art. 131 bis c.p. come una causa di esclusione della pena, che il legislatore affida al giudice in presenza di un fatto giuridico criminale da valutare. Tale orientamento è maggiormente condiviso anche in ragione della sua collocazione all’interno del codice, ovvero nel Titolo V, Capo I relativo alla “modificazione, applicazione ed esecuzione della pena”.

La Corte di Cassazione, nel 2015, ha inoltre definito la causa di non punibilità come atipica, in ragione del fatto che essa esige il contradditorio e produce degli effetti pregiudizievoli per l’imputato con l’iscrizione al casellario giudiziario. Questa connotazione ibrida viene rafforzata dalla disposizione di cui all’art. 469 c.p.p. che al comma 1 bis prevede che la sentenza pronunciata per non punibilità ai sensi dell’art. 131 bis c.p. risulta quale sentenza di non doversi procedere.

Ci si è posto l’ulteriore quesito se detta causa assuma natura soggettiva od oggettiva. La questione risulta rilevante in particolar modo, nei casi di cui all’art. 119 c.p., e quindi del concorso di persone, se tale cause fosse considerata oggettiva si estenderebbe indistintamente a tutti i compartecipanti ex art. 119 co. 2 c.p., al contrario qualora fosse considerata soggettiva, sarebbe limitata all’imputato a cui viene applicata ex art. 119 co. 1 c.p..

Si conclude per la prospettiva soggettivistica, anche in ragione di richiami testuali e sostanziali dell’art. 131 bis c.p., la quale fa riferimento al comma 1 alle “modalità della condotta” di cui all’art. 133 c.p., e al comma 4, quando l’autore sia considerato “delinquente abituale, professionista o per tendenza”.

L’art. 131 bis c.p prevede un giudizio articolato in una sequenza di valutazioni progressive, di carattere sia soggettivo che oggettivo, volte alla ricerca e all’ottenimento di un bilanciamento di interessi, in una logica diretta alla proporzionalità della sanzione rispetto al fatto di reato accertato ex art. 27 Cost.

Il giudice non deve in tale indagine quindi invadere la competenza del legislatore, bensì vagliare il caso concreto garantendo un’apertura sulle vicende umane e sociali che regolano la fattispecie.

Pertanto, al fine di evitare delle possibili disparità di trattamento sono stati fissati due criteri. Gli indici criteri sono relativi alla non abitualità della condotta e alla particolare tenuità dell’offesa, quest’ultima a sua volta risulta applicando gli indici requisiti, quali modalità del comportamento ed eseguità del danno o del pericolo del 133 c.p.

Sul punto:”Sono iscrivibili nel casellario giudiziale i decreti di archiviazione emessi ai sensi dell’art. 131-bis cod. pen.?”

I requisiti della particolare tenuità del fatto

In ordine al presupposto concernente l’accertamento della responsabilità dell’imputato, il problema si pone nella fase investigativa, quella di cui è gravato il P.M. ex art. 112 Cost., il quale è al contempo vincolato all’obbligatorietà della applicazione della norma penale, mentre dall’altro è tenuto ad avanzare la richiesta di archiviazione qualora il fatto sia ritenuto di particolare tenuità. A seguito dell’accertata particolare tenuità del fatto, il P.M. inoltrerà al G.I.P. la richiesta di archiviazione.

Il P.M. dovrà quindi svolgere sempre e comunque delle attente attività di ricerca, onde evitare che alcune condotte passino inosservate. È il caso ad esempio delle truffe on-line, le quali il più delle volte risultano di modico valore, pertanto l’eventuale archiviazione de plano potrebbe non a sanzionare adeguatamente un possibile autore seriale.

Al contrario, nell’ipotesi di remissione di querela, questa prevarrà sull’accertamento della responsabilità penale.

Ulteriore questione problematica attiene all’applicabilità dell’art. 131 bis ai reati di competenza del giudice di pace di cui all’art. 34 del d.lgs. 274/2000.

Il quesito è stato risolto dalla Corte Costituzionale, a seguito di una sentenza del Tribunale di Novara che condivideva la coesistenza tra i due istituti. La Corte, intervenendo, ha chiarito che le due norme sono distanti tra loro, in quanto l’art. 131 bis c.p. ha uno scopo deflattivo, mentre l’art. 34 assume un carattere conciliativo tra le parti. Tale inquadramento è poi stato di recente accolto dalle Sezioni Unite nel 2017, le quali hanno sottolineato che le due fattispecie non vi è un rapporto di specialità, ma di interferenza.

Il secondo requisito della fattispecie oggetto di interesse attiene alla pena, e nello specifico al suo massimo edittale. La causa di non punibilità non sarà quindi applicabile ai casi che superano la cornice del massimo edittale pari a cinque anni di pena detentiva oppure di pena pecuniaria, di qualsiasi ammontare, sola o congiunta a detta pena detentiva. L’istituto lascia al giudice un ampio spazio di manovra su quelle che sono le fattispecie a cui applicare tale norma.

Il giudice, però, non deve tenere conto, in termini negativi, delle circostanze comuni, siano esse aggravanti o attenuanti; non deve svolgere un bilanciamento delle circostanze di cui all’art. 69 c.p. Al contrario, in termini positivi deve tenere conto delle circostanze per cui, la legge prevede un’ipotesi speciale o con limiti edittali diversi da quelli previsti e delle circostanze ad effetto speciale.

Su quest’ultimo punto sono intervenute le Sezioni Unite in relazione ai reati ambientali, societari e guida in stato di ebbrezza, stabilendo che seppur vero che il legislatore ha già compiuto una graduazione della pena è rimesso al giudice il compito di valutare in concreto il caso, chiarendo che più ci si allontana dal valore soglia tanto più sarà difficile che ci si trovi davanti a una fattispecie dal valore esiguo; questo comunque non preclude la possibilità di valutare positivamente l’ammissibilità della causa di non punibilità.

Altro aspetto è quello in riferimento all’art. 56 c.p. relativo al delitto tentato, per cui la norma della non punibilità è applicabile, sempre che la pena massima prevista per il delitto consumato non superi il tetto massimo.

Ulteriore requisito attiene agli indici criteri, ovvero alla modalità della condotta e all’esiguità del danno o del pericolo.  Il giudice deve quindi valutare positivamente i presupposti previsti dall’art. 133 co. 1 c.p. e dunque: la natura, gli strumenti, i mezzi, la specie, il tempo e il luogo della condotta, nonché l’intensità del dolo e il grado della colpa; e al contempo deve valutare che non vi siano aggravanti.

Il mancato riferimento della norma all’art. 133 co. 2 c.p., ovvero delle condotte contemporanee o susseguenti al reato, fa di conseguenza escludere dal novero di applicabilità dell’art. 131 bis c.p. tutte le eventuali condotte riparatorie, risarcitorie e restitutorie.

Preme sottolineare che malgrado la fattispecie faccia espresso riferimento all’art. 133 c.p, riconosce comunque un’ipotesi limite di responsabilità oggettiva: quella degli enti.

Difatti, l’art. 8 del D.lgs. n. 231/2001 stabilisce che l’ente risulta responsabile anche qualora, l’autore del reato non risulti identificato ovvero non sia imputabile, salva l’ipotesi di amnistia. A conferma di ciò, interviene l’art. 12 del d.lgs. n. 231 che prevede “la tenuità dell’illecito dell’ente non esclude la punibilità della persona giuridica, ma al più ne riduce la sanzione”.

Sul punto, è di recente intervenuta una sentenza della Suprema Corte, la quale ha stabilito che al pari dell’estinzione del reato, anche per l’ipotesi del 131 bis c.p. non c’è un riflesso automatico per l’ente. La sentenza ha dichiarato irragionevole che il processo a carico dell’ente non proceda in caso di estinzione del reato, mentre prosegua in caso di estinzione della pena, così stabilendo l’ammissibilità dell’art. 131 bis c.p. anche per gli enti.

Il Giudice dopo aver valutato positivamente le ipotesi di cui al comma 1 dell’art. 133 c.p., deve concentrarsi sull’esiguità del danno, adoperando un giudizio in negativo. L’esiguità va stabilita prendendo come parametro di riferimento la vittima offesa o il bene leso.

Infine, deve essere valutato l’ultimo criterio dell’art. 131 bis c.p. legato alla non abitualità del comportamento. Il reato abituale, specie se costituito da recidiva specifica e reitera, ricorre qualora il soggetto dopo aver commesso il reato ne commette altri della stessa indole, per tale ragione viene qualificato come reato plurisussistente, ovvero che non si esaurisce in un’unica azione, ma in una sequenza di più attività.

Tale ipotesi è esclusa dalla fattispecie, in ordine al fatto che l’art. 131 bis c.p. si basa su un’occasionalità dell’offesa, tra l’altro esigua, per cui l’ordinamento non intende soffermarsi, onde evitare di aggravare ulteriormente il carico del contenzioso penale. Inoltre, la fattispecie penale si concentra sul fatto commesso e non sulla mera manifestazione di pericolosità sociale.

Sul punto, occorre sottolineare la problematica relativa al casellario giudiziario, difatti la norma prevede l’iscrizione dell’ipotesi di reato nello stesso anche in ragione del fatto che sia più agevole stabilire l’abitualità del comportamento.

Proprio sulla questione si sono pronunciati differenti orientamenti. Secondo, una parte della dottrina e giurisprudenza si attribuisce al provvedimento d’archiviazione la natura di “precedente”, pertanto, la mancata iscrizione nel casellario, non garantirebbe al giudice di accertare l’abitualità dell’offesa. D’altro canto, un’altra corrente si è espressa diversamente, denunciando l’illegittimità dell’iscrizione nel casellario di questa particolare ipotesi di archiviazione per esiguità del fatto.

A tal proposito è intervenuto la delega contenuta nella riforma Orlando, la quale ha previsto un intervento sulla particolare ipotesi di archiviazione per particolare tenuità del fatto e nello specifico, l’eliminazione dell’iscrizione di quest’ultima nel casellario giudiziale. Il D.Lgs. 2 ottobre 2018, n. 122, intervenuto successivamente avrebbe dovuto modificare tale iscrizione, ha invece lasciato in vigore la disciplina precedente.

La particolare applicazione nel caso di reati a distanza

Occorre ora vagliare l’ipotesi di cui al comma 4 dell’art. 131 bis c.p., relativo ai “reati con condotte plurime, abituali e reiterate”, è il caso del: reato permanente, concorso formale di reati e reato continuato.

La dottrina è intervenuta sulla questione attinente al reato permanente, stabilendo l’unicità della condotta senza che si possa dividere l’azione iniziale da quella di mantenimento.  È dunque ammissibile l’applicabilità dell’art. 131 bis c.p.

Altra dottrina evidenzia una struttura bifasica nel reato permanente, ad esempio nel reato del sequestro di persona la condotta commissiva di presa del sequestrante risulta autonoma rispetto a quella omissiva di mantenimento del sequestrato, in ragione di ciò sarebbe una condotta plurima e quindi non ammissibile il 131 bis co.3 c.p.

Relativamente al concorso formale di reati di cui all’art. 81 co. 1 c.p., benchè l’azione sia unica, le violazioni commesse sono più d’una. Dal momento che la norma fa riferimento a “reati con condotte plurime” si ritiene che il concorso non vi rientri, per un mero requisito lessicale.

In merito al reato continuato di cui all’ art. 81 c.p., il soggetto, in esecuzione di un disegno di legge, commette più reati. La continuazione si distingue in omogenea ed eterogenea. La giurisprudenza nell’ipotesi di continuazione omogenea, ha ritenuto non applicabile la causa di esclusione della pena ex art. 131 bis co. 3, poiché i reati risultano della stessa indole.

La problematica relativa all’applicabile dell’art. 131 bis c.p all’art. 81 c.p. ha negli ultimi anni attanagliato la giurisprudenza, malgrado l’orientamento assolutamente maggioritario in favore di un giudizio di incompatibilità tra le due fattispecie.

Stante la prevalenza in giurisprudenza in favore delle incompatibilità, si sono susseguite un paio di pronunce di merito, in particolare del Tribunale di Milano e di Grosseto, a favore della ammissibile applicazione della tenuità del fatto alla continuazione.

Le anzidette pronunce evidenziano come non necessariamente la pluralità dei medesimi reati, tipica della continuazione, debba considerarsi come una condotta abituale.

La valutazione del giudice dovrà effettuarsi, innanzitutto sulla base delle tipologie di reato continuato, se essi, dunque siano omogenei ovvero eterogenei secondo quanto poc’anzi detto.

Inoltre, andrà valutata anche la continuità temporale tra le diverse azione azioni od omissioni.

Infine, se vi siano gli elementi soggettivi che caratterizzano l’abitualità, ovvero la pericolosità sociale del soggetto.

Occorre dar rilevo anche all’unica pronuncia di legittimità del 2017 con cui si ammetteva una compatibilità normativa tra reato continuato e causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto, sostenendo che il reato continuato non rientra tra i reati della stessa indole di cui all’art. 131-bis c.p. espressamente esclude dal beneficio.

La giurisprudenza nel 2018 è poi, tornata sul punto riaffermando il principio dell’orientamento prevalente.

In conclusione, malgrado quanto stabilito dalla giurisprudenza, è opportuno sottolineare come l’orientamento minoritario che considera la compatibilità tra le norme di cui agli artt. 131 bis e 81 c.p risulti più in linea con la natura giuridica della causa di non punibilità diretta ad assumere un carattere deflattivo nel sistema penale, giustificando le condotte illecite solo qualora siano occasionali e non compiute da un soggetto socialmente pericoloso.

L’applicabilità al D.Lgs. n. 231 del 2001

La causa di esclusione della punibilità per la particolare tenuità del fatto non trova applicazione alle ipotesi di responsabilità amministrativa degli enti di cui al D.Lgs. n. 231 del 2001.

Detta causa di esclusione della punibilità non è certamente applicabile alla responsabilità amministrativa dell’ente, essendo espressamente ed univocamente riferita alla realizzazione di un reato, la cui punibilità viene esclusa per la particolare tenuità dell’offesa e la non abitualità del comportamento, mentre quella dell’ente trova nella realizzazione di un reato solamente il proprio presupposto storico, ma è volta a sanzionare la colpa di organizzazione dell’ente.

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