(Riferimenti normativi: Cod. proc. pen., art. 275, c. 3; Cod. pen., art. 416-bis.1)
Il fatto
Il Tribunale di Messina confermava la misura degli arresti domiciliari applicata dal Gip dello stesso Tribunale in danno di un indagato gravemente indiziato dei reati di cui agli artt. 110 e 416 bis cod. pen. oltre che di sei diverse ipotesi di truffa ex art 640 bis cod. pen. (due solo tentate) tutte aggravate dall’agevolazione o dal metodo mafioso ex ad 416 bis.l. dello stesso codice.
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I motivi addotti nel ricorso per Cassazione
Avverso il provvedimento summenzionato proponeva ricorso l’indagato per il tramite dei difensori di fiducia adducendo tre diversi motivi così formulati: 1) violazione di legge e difetto di motivazione in relazione alla gravità indiziaria riferita a tutti i reati ascritti al ricorrente; 2) contestazione circa la ritenuta sussistenza dei profili costitutivi della contestata aggravante ex art 416 bis. 1 cod. pen. anche in relazione alla motivazione che, rilevava il ricorrente, deve sostenere il dolo specifico proprio della stessa ove contestata, come nella specie, anche sotto il versante dell’agevolazione mafiosa; 3) eccezione di nullità del provvedimento genetico con riguardo alla assoluta mancanza di motivazione in ordine alle esigenze cautelari che il Tribunale, una volta riscontrata, secondo l’impugnante, non poteva integrare in ragione di quanto espressamente previsto dall’art 309, comma 9, cod. proc. pen..
Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione
Veniva reputato fondato l’ultimo motivo di ricorso relativo, come appena visto, alla riscontrata, integrale, assenza di motivazione in punto di esigenze cautelari nel provvedimento genetico e tanto imponeva, per la Suprema Corte, l’annullamento sia dell’ordinanza impugnata, sia del provvedimento del Gip, senza procedere allo scrutinio dei motivi di ricorso inerenti la gravità indiziaria; giudizio, quest’ultimo, logicamente antecedente la verifica del periculum sotteso all’intervento cautelare contestato ma privo di una autonoma ragion d’essere se riferito ad una misura caratterizzata da un vulnus argomentativo così radicale sul tema delle esigenze cautelari da non poter essere emessa ab origine in ragione di quanto si desume dal combinato disposto di cui agli artt. 292, comma 1, lettera c), e 309, comma 9, cod. proc. pen..
In particolare, gli Ermellini ritenevano come la motivazione addotta in sede di merito si fosse risolta una serie di indicazioni generiche e apodittiche prive di alcuna immediata ed effettiva riferibilità alla specifica posizione dell’indagato in questione non essendovi traccia di riferimenti, anche nominali, ai reati ascritti al ricorrente e alle diverse connotazioni, ontologiche e specifiche, che li caratterizzavano, lette e orientate in direzione del giudizio sul rischio di reiterazione che si era inteso neutralizzare con l’intervento cautelare adottato così come non vi era neppure un cenno esplicito alle presunzioni relative di sussistenza delle esigenze cautelari che si correlavano ai titoli di reato contestati (anche per le truffe, aggravate ex art. 416.bis.1 cod. pen.) atteso che l’unico riferimento in tal senso veniva fatto unicamente in relazione ai soggetti intranei.
A fronte di tale censura in punto de facto, per quanto attiene il profilo più prettamente giuridico, i giudici di piazza Cavour evidenziavano come, secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità, se è vero che anche per il concorso esterno in associazione di stampo mafioso scatta la presunzione relativa di pericolosità prevista, dall’art. 275 comma 3, cod. proc. pen., in ordine alle esigenze cautelari in quanto esso integra, pur sempre, una partecipazione nel reato associativo e, comunque, persegue, quanto meno, “il fine di agevolare l’attività” di quel genere di sodalizi (Sez. 6, n. 42922 del 21/10/2010); è altrettanto però incontrovertibile che siffatta presunzione, oltre ad avere carattere relativo, al pari di quella prevista per il reato alla quale accede il concorso, va giudicata secondo parametri diversi da quelli dettati per l’associato atteso che l’assenza dell’affectio societatis consente di escludere, in termini certamente meno rigorosi sul piano della relativa valutazione prognostica, il ripetersi della situazione che ha dato luogo al contributo dell’extraneus alla vita della consorteria tenuto conto altresì del fatto che tali considerazioni vanno estese anche ai reati aggravati ex art 416 bis. 1 cod. pen..
Al contrario, ad avviso del Supremo Consesso, l’ordinanza del Gip aveva omesso integralmente di prendere in considerazione siffatti aspetti essenziali, per la Cassazione, nel sostenere una motivata applicazione della misura contestata anche perché se è ben vero che, in presenza di posizioni analoghe o di imputazioni descrittive di fatti commessi con modalità “seriali“, non è necessario che il giudice ribadisca ogni volta le regole di giudizio alle quali si è ispirato, è altrettanto vero, tuttavia, che siffatta analogia di posizione e condotte deve effettivamente sussistere e che per ricorrere ad una valutazione cumulativa occorre comunque che dal contesto del provvedimento risulti evidente la ragione giustificativa della misura in relazione ai soggetti attinti ed agli addebiti, di volta in volta, considerati per essi sussistenti (Sez. 6, Sentenza n. 30774 del 20/06/2018).
Invece, nella fattispecie in esame, secondo i giudici di piazza Cavour, il Gip aveva indebitamente utilizzato un unico criterio logico valutativo pedissequamente esteso ad indagati accomunati solo da una astratta analogia di posizione ma all’evidenza diversificati soprattutto in relazione al ruolo specificamente assunto nel rendere il contributo esterno garantito alla consorteria di riferimento dato che il semplice riferimento alla identità del modulo realizzativo delle relative condotte si rilevava chiaramente inappagante occorrendo verificare, piuttosto, a tacer d’altro, per ciascuno di questi indagati, i diversi rapporti occorsi con gli intranei quale spunto argomentativo per verificare il grado di contiguità con l’associazione e poi risalire alla perdurante sussistenza del rischio di reiterazione.
Ciò posto, si evidenziava oltre tutto come la risalenza nel tempo dei fatti contestati imponesse uno specifico scrutinio, oltre che del disvalore proprio delle singole condotte, anche della personalità di ciascun indagato valutata anche in considerazione di possibili pregresse e specifiche condotte delittuose mentre, per contro, il provvedimento genetico si era rivelato integralmente privo di motivazione avendo il Giudice della misura omesso di affrontare gli aspetti sopra emarginati in mancanza dei quali doveva escludersi che nel caso fosse stata effettuata una verifica individualizzata dei presupposti utili a giustificare la misura sul versante delle esigenze cautelari da neutralizzare.
La Suprema Corte, di conseguenza, alla luce delle considerazioni sin qui esposte, una volta preso atto di come l’ordinanza del GIP risultasse ontologicamente viziata sin dalla origine mentre a sua volta il Tribunale del riesame, riscontrata detta ragione di invalidità prontamente eccepita dalla difesa coni il riesame, avrebbe dovuto annullare la misura, senza poterne integrane in via argomentativa il portato, disponeva l’annullamento senza rinvio del provvedimento impugnato e di quello genetico.
Conclusioni
La decisione in esame è assai interessante nella parte in cui precisa il fatto che la presunzione relativa di pericolosità prevista, dall’art. 275 comma 3, cod. proc. pen. in ordine alle esigenze cautelari opera in modo diverso per il concorrente esterno in associazione di stampo mafioso (oltre che per colui che commette un reato aggravato ai sensi dell’art. 416-bis.1 c.p.p.) rispetto all’intraneo.
Difatti in tale pronuncia, si postula che se è vero che anche per il concorso esterno in associazione di stampo mafioso scatta la presunzione relativa di pericolosità prevista, dall’art. 275 comma 3, cod. proc. pen., in ordine alle esigenze cautelari in quanto esso integra, pur sempre, una partecipazione nel reato associativo e, comunque, persegue, quanto meno, “il fine di agevolare l’attività” di quel genere di sodalizi, è altrettanto però incontrovertibile che siffatta presunzione, oltre ad avere carattere relativo, al pari di quella prevista per il reato alla quale accede il concorso, va giudicata secondo parametri diversi da quelli dettati per l’associato atteso che l’assenza dell’affectio societatis consente di escludere, in termini certamente meno rigorosi sul piano della relativa valutazione prognostica, il ripetersi della situazione che ha dato luogo al contributo dell’extraneus alla vita della consorteria tenuto conto altresì del fatto che tali considerazioni vanno estese anche ai reati aggravati ex art 416 bis. 1 cod. pen..
Di conseguenza, in siffatta sentenza è affermato che l’applicazione di una custodia cautelare in carcere deve essere valutata differentemente se la contestazione riguarda l’appartenenza di un’associazione a delinquere di tipo mafioso, o, invece, l’accusa riguarda un concorrente esterno in tale sodalizio criminoso ovvero l’accusato abbia commesso un reato aggravato a norma dell’art. 416-bis.1 c.p..
Il giudizio in ordine a quanto statuito in cotale provvedimento, proprio perché contribuisce a fare chiarezza su questa tematica procedurale, dunque, non può che essere positivo.
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