La prolungata convivenza come coniugi impedisce la delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità

Redazione 21/07/14

 Anna Costagliola

Nell’ipotesi in cui la convivenza tra i coniugi si sia protratta per almeno tre anni dalla data di celebrazione del matrimonio diviene impossibile delibare in Italia la sentenza ecclesiastica definitiva di scioglimento del matrimonio concordatario. Più precisamente, il matrimonio potrà comunque essere dichiarato nullo ai fini strettamente religiosi attraverso le sentenze dei Tribunali ecclesiastici regionali della Sacra Rota, ma non lo sarà anche per la legge italiana, ponendosi la prolungata convivenza quale causa ostativa alla delibazione della sentenza ecclesiastica, ovvero a quell’atto con il quale la Corte d’Appello ammette, anche agli effetti civili, la sentenza di un Tribunale religioso. E’ questo il principio affermato dalle Sezioni Unite civili della Cassazione con la sentenza n. 16379 del 17 luglio scorso, che risolve un contrasto giurisprudenziale in materia.

Come spiegano le Sezioni Unite, la convivenza «come coniugi» deve intendersi, secondo la Costituzione, le Carte europee dei diritti, come interpretate dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, ed il codice civile, quale elemento essenziale del matrimonio-rapporto, che si manifesta come consuetudine di vita coniugale comune, stabile e continua nel tempo. Questa si rende esteriormente riconoscibile attraverso specifici atti e comportamenti dei coniugi ed è fonte di una pluralità di diritti inviolabili, di doveri inderogabili, di responsabilità genitoriali nei confronti dei figli e di aspettative legittime.

Così intesa, la convivenza “come coniugi”, protrattasi per almeno tre anni dalla data di celebrazione del matrimonio concordatario, diviene costitutiva di una situazione giuridica disciplinata da norme costituzionali, convenzionali e ordinarie di “ordine pubblico” e, pertanto, è ostativa alla dichiarazione di efficacia nel nostro ordinamento delle sentenze definitive di nullità di matrimonio pronunciate dai Tribunali ecclesiastici per qualsiasi vizio genetico del matrimonio accertato e dichiarato dal giudice ecclesiastico nell’ “ordine canonico”. Nell’ordinamento giuridico della Repubblica, infatti, possono essere riconosciute solo le decisioni che non sono contrarie all’ “ordine pubblico italiano”.

Specificano ancora le Sezioni Unite come ad eccepire la questione della prolungata convivenza debba essere esclusivamente il coniuge convenuto nel giudizio di delibazione che è interessato a farla valere, non anche dal P.M. interveniente nel giudizio di delibazione, né rilevata d’ufficio dal giudice della delibazione o dal giudice di legittimità. Il soggetto legittimato a sollevare l’eccezione ha inoltre l’onere sia di allegare fatti e comportamenti dei coniugi specifici e rilevanti che sono in grado di integrare la situazione giuridica d’ordine pubblico, sia di dimostrarne la sussistenza in caso di contestazione mediante la deduzione di pertinenti mezzi di prova, anche presuntiva, nel qual caso il giudice della delibazione può ben disporre un’apposita istruzione probatoria ad hoc.

Si tratta di una sentenza certamente rivoluzionaria che, in nome della laicità dello Stato, afferma il principio per cui, in presenza degli indicati presupposti, permangono specifici diritti e doveri in capo ai coniugi anche dopo una sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio, soprattutto agli effetti del mantenimento. In sostanza, alla base della pronuncia, è l’esigenza di tutelare gli interessi economici della parte più debole, proprio considerando che, normalmente, chi richiede la delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità, lo fa per evitare di essere tenuto al pagamento del mantenimento, con la ratifica, anche da parte della legge italiana, del riconoscimento che il matrimonio non è mai esistito.

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