La rescissione nell’appalto di opere pubbliche. Limiti e tutela giurisdizionale dell’appaltatore

Redazione 25/01/02
di Lorenzo Canullo

In linea di principio un contratto stipulato dalla P.A. secondo le regole dell’evidenza pubblica, una volta perfezionato e divenuto efficace, soggiace al diritto comune. Tuttavia, là dove il rapporto contrattuale dia luogo ad una prestazione di lavoro continuata o periodica da parte di un terzo contraente, permangono in capo alla P.A. dei particolari poteri in grado di determinare modifiche unilaterali del rapporto negoziale. Si pensi in modo particolare al potere della P.A. di “rescindere” unilateralmente il contratto, disciplinato dalla normativa generale in materia di lavori pubblici. Scopo del presente elaborato, è chiarire entro quali limiti tale potere possa essere esercitato e quali sono gli strumenti utilizzabili dal privato a difesa delle proprie posizioni giuridiche soggettive.

Tra i vari modi di estinzione del contratto di appalto di opere pubbliche vi è la risoluzione in danno dell’appaltatore o della stazione appaltante.

A fronte di un inadempimento particolarmente qualificato l’amministrazione ha di fronte a sé un’alternativa: esercitare il proprio potere di rescissione del contratto in via di autotutela (peraltro invocabile, come si vedrà, anche in caso di un comportamento fraudolento della controparte) ovvero avvalersi delle ordinarie procedure giurisdizionali per la risoluzione del contratto rivolgendosi essa stessa al giudice competente.

Secondo la legge sui lavori pubblici, 20 marzo 1865, n. 2248, All. F[2], l’amministrazione ha il potere (“diritto” secondo l’art.340, della legge sui lavori pubblici) di rescindere o, secondo una terminologia maggiormente conforme al nostro codice civile e recepita dagli artt. 118 e 119 dell’adottando Regolamento d’Attuazione della Legge Quadro in materia di Lavori Pubblici, di risolvere unilateralmente il contratto, quando l’appaltatore si renda colpevole di frode o di grave negligenza e contravvenga agli obblighi e alle condizioni stipulate; in tal caso l’appaltatore avrà diritto solo al pagamento dei lavori eseguiti regolarmente, mentre potrà essergli imputato il danno che provenisse all’amministrazione dalla stipulazione di un nuovo contratto o dall’esecuzione d’ufficio. In fase di esecuzione, dunque, solo la stazione appaltante può esercitare per legge una pretesa risolutoria in via di autotutela, là dove il privato deve necessariamente adire l’autorità giudiziaria competente, salvo il caso di clausola risolutiva espressa e di tempestivo esercizio del potere che ne deriva. Questa particolare posizione di privilegio della P.A. deriva dalla sentita esigenza di assicurare una conveniente e rapida esecuzione dell’opera pubblica, in quanto le procedure dell’evidenza pubblica consentono la mera scelta del contraente senza fornire, però, una sufficiente garanzia in fase di esecuzione del contratto di appalto.

L’istituto della risoluzione unilaterale del contratto non va confuso con quello del recesso previsto e disciplinato dagli art. 345 della legge sulle opere pubbliche. Il recesso consente alla stazione appaltante di risolvere in qualsiasi momento il contratto mediante il pagamento dei lavori eseguiti e del valore dei materiali esistenti nel cantiere, oltre al decimo delle opere non eseguite; in sostanza, il recesso costituirebbe un diritto soggettivo potestativo in grado di determinare lo scioglimento del contratto di appalto mediante una dichiarazione unilaterale di volontà libera e discrezionale, le cui ragioni giustificative sono sottratte al sindacato giurisdizionale.

La risoluzione unilaterale va, altresì, distinta dalla risoluzione obbligatoria; quest’ultima, nonostante la terminologia utilizzata dal legislatore, sarebbe, in realtà un recesso unilaterale forzoso, che non dipende dalla libera determinazione di volontà della stazione appaltante, sibbene dal verificarsi di determinati presupposti indicati dall’art.25, legge 11 febbraio 1994, n. 109[3] e successive modificazioni ed integrazioni; infatti, là dove le variazioni conseguenti ad errori od omissioni del progetto superino il quinto dell’importo originario del contratto, la stazione appaltante è tenuta a risolvere il contratto e ad indire una nuova gara, alla quale dovrà anche essere invitato il precedente aggiudicatario. A quest’ultimo dovrà corrispondersi sia il prezzo relativo ai lavori eseguiti e ai materiali presenti in cantiere, che un compenso pari al 10 % dell’importo contrattuale dei lavori non eseguiti fino a quattro quinti dell’importo del contratto.

La risoluzione per frode è ipotizzabile là dove il comportamento fraudolento sia tenuto dall’appaltatore non solo a danno della stazione appaltante, ma anche a danno di terzi. Discussa è la legittimità costituzionale dell’art. 26, R.D. 25 maggio 1895, n.350[4], il quale prescrive che per la pronuncia di risoluzione non occorra che sia intervenuta una sentenza passata in giudicato, ma è sufficiente che si verifichi un fatto a carico dell’appaltatore che possa dar luogo ad un procedimento penale per frode oppure che consti che questo procedimento sia stato iniziato dall’autorità giudiziaria per denunzia di terzi. Secondo la giurisprudenza[5] della cassazione l’illegittimità delle norme in questione sarebbe da escludere argomentando dalla natura fiduciaria del contratto di appalto; in pratica, la disposizione in oggetto non tutelerebbe soltanto la concreta esecuzione di un singolo contratto, sibbene la globale correttezza di un rapporto fra le parti negoziali a fronte di comportamenti fraudolenti, il cui rilevamento è frutto non di una soggettiva valutazione della stazione appaltante ma dell’autorità giudiziaria, in grado d’interrompere il rapporto fiduciario sul quale si basa il contratto di appalto. Nonostante questa autorevole presa di posizione si ritiene, tuttavia, che sussistano dei dubbi di legittimità su queste disposizioni soprattutto se paragonate con il sistema di qualificazione delle imprese che partecipano ai pubblici appalti, che postulano, per l’esclusione dalle gare, la definitività delle sentenze penali. Il dibattito è in fase di superamento in quanto l’adottando Regolamento d’Attuazione della Legge Quadro in materia di Lavori Pubblici per l’esercizio del potere di rescissione in via di autotutela postula la necessaria presenza di una sentenza di condanna passata in giudicato su reati contro il patrimonio.

Il procedimento di risoluzione per frode è notevolmente semplificato in quanto si prescinde dal compimento delle formalità previste dall’art. 27 del r.d. 25 maggio 1895, n. 350; la stessa cosa non può dirsi, però, per gli appalti di lavori di competenza del Genio militare, là dove la procedura è identica all’ipotesi di risoluzione per inadempimento o di esecuzione d’ufficio.

Si ha rescissione per inadempimento del contratto di appalto di opere pubbliche allorché l’appaltatore per negligenza grave o per contravvenzione agli obblighi o alle condizioni stipulate comprometta la buona riuscita dell’opera (art.340 della legge sui lavori pubblici, 20 marzo 1865, n.2248, All. F; art.27, R.D. 25 maggio 1895, n.350). La P.A. per poter esercitare la rescissione dal contratto in via di autotutela non deve limitarsi ad accertare soltanto l’esistenza dell’inadempimento, ma deve considerare anche se quest’ultimo presenti i requisiti della gravità ed importanza. La giurisprudenza ritiene che siano cause legittime di risoluzione, il mancato inizio dei lavori[6], la mancata ripresa degli stessi, nel termine assegnato dall’amministrazione[7], il mancato pagamento delle maestranze[8], la sospensione unilaterale dei lavori da parte dell’appaltatore[9], l’abbandono dei lavori, la chiusura del cantiere e la cessazione di ogni attività senza un’idonea motivazione[10], la chiusura del cantiere, con la conseguente interdizione al committente di accedere ai luoghi per l’esercizio del diritto di controllare lo svolgimento dei lavori e di verificarne lo stato[11]. Il giudice ha ritenuto, per contro, che ai fini della rescissione non fossero sufficienti delle semplici, generiche e non circostanziate inadempienze contrattuali[12], la mancanza di un nuovo programma lavori, a seguito delle varianti d’apportare ai lavori stessi non ancora approvate[13], il mero fallimento dell’appaltatore; in quest’ultimo caso si ritiene, infatti, che la rescissione è legittima non solo quando rilevi una grave inadempienza precedente al fallimento, ma anche quando il procedimento di risoluzione unilaterale in via di autotutela sia iniziato prima del fallimento, anche se la delibera di risoluzione sia intervenuta dopo la sentenza dichiarativa[14]. Il fallimento dell’appaltatore costituisce, comunque, causa di scioglimento del contratto di appalto di opere pubbliche con effetto ex nunc, anziché ex tunc; conseguentemente, perché le opere eseguite possano essere pagate è necessaria la prova della loro utilizzazione da parte della pubblica amministrazione ai sensi dell’art. 2041 cc, in materia di arricchimento senza causa.

Per la pronuncia della risoluzione per inadempimento, l’art.27 del R.D. 25 maggio 1895, n.350, detta le norme procedurali che la p.a. deve seguire al verificarsi di uno dei presupposti dell’art.340, legge 20 marzo 1865, n.2248, All. F. Nelle pubbliche amministrazioni statali il procedimento ha inizio con l’invio a cura dell’ingegnere capo di una relazione particolareggiata, opportunamente suffragata dai necessari documenti (ordini di servizio, verbali delle contestazioni) e dalla stima approssimativa dei lavori eseguiti correttamente, all’ispettore del compartimento; là dove quest’ultimo riconosca la necessità di un provvedimento incarica l’ingegnere capo di comunicare la sua relazione all’appaltatore, fissandogli un termine non inferiore a dieci giorni e non superiore a venti, per presentare all’ispettore le proprie discolpe o dichiarazioni. La giurisprudenza ritiene che la mancata osservanza dell’iter procedurale, che impone alla stazione appaltante di contestare gli addebiti e ricevere le argomentazioni a difesa dell’appaltatore, costituisca causa d’illegittimità del provvedimento di rescissione[15]. Si ritiene, comunque, che la contestazione degli addebiti non soggiaccia a particolari rigidità formali[16]. Solo a compimento del suddetto procedimento, il ministro, su proposta dell’ispettore, decreta la rescissione del contratto. Nelle pubbliche amministrazioni diverse dallo Stato il provvedimento di risoluzione è assunto direttamente dall’organo competente per la stipula del contratto, su proposta dell’ufficio tecnico (rectius del responsabile del procedimento), sentito il direttore dei lavori. Il provvedimento di risoluzione va adottato per iscritto, motivato e notificato all’appaltatore.

Risolto il contratto, l’appaltatore ha diritto soltanto al pagamento dei lavori eseguiti regolarmente, mentre la stazione appaltante per portare a termine l’opera può procedere d’ufficio[17], ai sensi degli artt. 30 e seguenti del R.D. 25 maggio 1895, n.350 ovvero stipulare un nuovo contratto di appalto. In questa seconda ipotesi, ai sensi dell’art.10, comma 1-ter, legge 11 febbraio 1994, n.109 e sue successive modificazioni ed integrazioni, il bando può prevedere che, in caso di fallimento o risoluzione del contratto per grave inadempimento dell’appaltatore, la stazione appaltante si possa riservare la facoltà d’interpellare il secondo classificato al fine di stipulare un nuovo contratto per il completamento dei lavori alle medesime condizioni economiche già proposte in sede di offerta e, in caso di fallimento del secondo classificato, possa interpellare il terzo classificato e, in tal caso, il nuovo contratto è stipulato alle condizioni economiche offerte dal secondo classificato.

Sia in caso di esecuzione d’ufficio, che di stipulazione di un nuovo contratto, l’appaltatore inadempiente è tenuto al risarcimento dei maggiori costi, che ne derivano alla stazione appaltante.

Di fronte all’esercizio del potere di rescissione del contratto l’appaltatore può difendersi promuovendo un’iniziativa di carattere giurisdizionale, volta a rilevare la presunta illegittimità dell’esercizio del potere di rescissione lesivo delle proprie posizioni giuridiche soggettive. Si ritiene che il provvedimento di rescissione possa essere considerato viziato sia d’illegittimità formale, che sostanziale; è formalmente illegittimo il provvedimento di rescissione pronunciato fuori dai casi previsti dalla legge, in presenza d’inadempienze non particolarmente gravi, in assenza di un comportamento colposo dell’appaltatore, senza rispettare l’iter procedurale, normativamente e dettagliatamente, previsto. E’, invece, sostanzialmente illegittimo quando la stazione appaltante lo adotta senza prima valutare se sia possibile pervenire ad un rapido completamento dell’opera, che giustifichi la notevole compressione della libertà imprenditoriale, costituzionalmente garantita dall’art.41 Cost.; un provvedimento di rescissione che non tiene conto di queste valutazioni è viziato di eccesso di potere, rectius di sviamento di potere[18].

Sulle modalità di difesa dell’appaltatore costituisce argomento preliminare di discussione il riparto di giurisdizione. Secondo alcuni[19], l’atto con il quale l’amministrazione committente dispone la rescissione è provvedimento amministrativo impugnabile davanti al giudice amministrativo, ma disapplicabile dal giudice ordinario a fini risarcitori, là dove possa ritenersi configurabile una responsabilità per danni della stazione appaltante. In un’impostazione di questo tipo si riconosce al giudice amministrativo il potere di sospendere cautelarmente l’efficacia, di annullare il provvedimento di rescissione e, conseguentemente, di determinare la reviviscenza del rapporto contrattuale rescisso, se necessario avvalendosi dell’ausilio di un commissario ad acta, purché adito in sede di ottemperanza.

Secondo la tesi nettamente prevalente, invece, la controversia circa l’esercizio del potere di rescissione del contratto andrebbe proposta davanti al giudice ordinario o ad un arbitro; a questa conclusione si arriva seguendo due diversi filoni argomentativi, che muovono rispettivamente da considerazioni vertenti o sulla natura giuridica dell’atto che dispone la rescissione o sulle situazioni giuridiche soggettive rilevanti in sede di esecuzione del contratto di appalto. Secondo la prima impostazione, alla rescissione andrebbe negata la natura di provvedimento amministrativo e riconosciuta la natura di una dichiarazione di natura negoziale, facendosi da ciò discendere il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo per difetto di un atto impugnabile[20] e il riconoscimento di un diritto soggettivo perfetto in capo all’appaltatore. Il secondo filone argomentativo[21], per contro, radica la giurisdizione del g.a. su considerazioni attinenti alla natura della posizione giuridica soggettiva lesa dal provvedimento amministrativo di rescissione; si ritiene, infatti, che l’appaltatore sia titolare, nella fase successiva al perfezionamento e alla piena efficacia del contratto, di diritti soggettivi perfetti; conseguentemente, l’eventuale esercizio illegittimo del potere di rescissione si traduce nella lesione di una posizione di diritto soggettivo della controparte privata; ciò significa che delle relative controversie conosce il giudice ordinario o, in sua vece, gli arbitri, in quanto l’atto amministrativo, oltre che illegittimo, è da considerarsi anche illecito. Operativamente, l’appaltatore, a fronte di un provvedimento di rescissione illegittimo, può rivolgersi al giudice ordinario o all’arbitro per chiedere nel merito la mera disapplicazione (non all’annullamento, quindi, nel rispetto dei limiti interni delle proprie attribuzioni giurisdizionali[22]) del provvedimento amministrativo di rescissione del contratto con conseguente liquidazione dei danni ai sensi dell’art.1223 cc e restituzione delle somme trattenute in garanzia, in via cautelare ex artt. 669 e ss cpc la neutralizzazione medio tempore degli effetti della rescissione immediatamente e spesso irrimediabilmente lesivi del buon nome dell’appaltatore, come ad esempio l’escussione delle fidejussioni, il recupero delle anticipazioni e la partecipazione di altre gare[23].

La stazione appaltante può risolvere il contratto oltre che in via di autotutela (come si è appena visto), anche ricorrendo all’autorità giurisdizionale ordinaria ai sensi degli artt. 1453 ss c.c. La risoluzione giudiziale va esperita in alternativa o in via subordinata al potere di rescissione in via di autotutela; sotto il primo aspetto si ritiene che la risoluzione ex artt.1453 ss cc debba essere utilizzata dalla stazione appaltante là dove non sia possibile pervenire ad un immediato completamento dell’opera; si ritiene, infatti, che l’esercizio del potere di rescissione, gravemente lesivo delle posizioni giuridiche soggettive dell’appaltatore, in tanto è giustificato in quanto rigidamente preordinato alla spedita e rapida esecuzione dell’appalto; ogni utilizzo non conforme al fine è illegittimo per sviamento di potere. Sotto il secondo aspetto, invece, la giurisprudenza è dell’opinione che dell’azione normale di risoluzione la pubblica amministrazione possa avvalersi anche dopo che l’atto di esercizio del potere di autotutela ex art. 340 legge sui lavori pubblici sia stato riconosciuto illegittimo[24]. L’azione giudiziale di risoluzione differisce notevolmente quanto agli effetti rispetto alla rescissione in via di autotutela; in proposito si fa notare che mentre l’azione giudiziale d’inadempimento travolge retroattivamente i risultati dell’attività svolta dall’appaltatore con la conseguenza che, fermo restando il risarcimento, si è ritenuto[25] applicabile l’art.936 cc, in caso di costruzione già eseguita in tutto o in parte dall’appaltatore sul terreno del committente, la rescissione ex art. 340 legge sulle opere pubbliche opera solo ex nunc prescrivendo per le opere regolarmente eseguite la mera acquisizione previo pagamento del loro prezzo, senza potersi affatto avvalere della facoltà di scelta, prevista dal primo comma dell’art.936 cc, tra riduzione in pristino e la ritenzione di tali opere.

Il contratto di appalto può estinguersi oltre che per inadempimento dell’appaltatore, anche per un eventuale comportamento inadempiente dell’amministrazione committente in corso di esecuzione del contratto ai sensi degli artt. 1453 ss c.c. e degli artt.10, 30 e 35 del D.P.R. 16 luglio 1962, n.1063[26].

Alla stregua dei principi generali perché un contratto di appalto possa essere risolto è necessario un preventivo atto di costituzione in mora dell’amministrazione (con le forme degli atti giudiziari ovvero con raccomandata postale con avviso di ricevimento) e che l’inadempienza della stazione appaltante rivesta una certa gravità, tenuto conto dell’interesse dell’appaltatore (art.1455 cc).

Il Capitolato generale di appalto per le opere pubblico approvato con D.P.R. 16 luglio 1962, n.1063, agli artt. 10, 30 e 35, da parte sua, predetermina i requisiti di risoluzione contrattuale per colpa della stazione appaltante in tre diverse fattispecie. Mentre, però, l’art. 35 del Capitolato, da coordinare con quanto disposto dall’art.26, legge 11 febbraio 1994, n.109 e successive modifiche ed integrazioni, non esclude l’applicabilità dei principi generali in materia di risoluzione, gli artt. 10 (ritardata consegna dei lavori) e 30 (prolungata sospensione dei lavori) costituiscono ipotesi di risoluzione consensuale, caratterizzati da una disciplina speciale diretta a temperare un inadempimento dell’amministrazione.

Là dove si voglia promuovere azione di risoluzione del contratto per ritardato pagamento degli acconti secondo i principi generali, puntualmente richiamati dagli artt. 35 del Capitolato generale e dall’art.26 della legge 11 febbraio 1994, n.109, è necessaria la messa in mora della stazione appaltante con le forme degli atti giudiziari ovvero con raccomandata postale con avviso di ricevimento; una volta scaduti i sessanta giorni dal momento della costituzione in mora dell’amministrazione, qualora il debito della stessa sia ancora superiore ad un quarto dell’importo contrattuale netto, può essere adita l’autorità giudiziaria competente per la risoluzione del contratto.

La risoluzione in danno della stazione appaltante è soprattutto ravvisabile dalla giurisprudenza e, in particolare, dai lodi arbitrali nella mancata cooperazione dell’ente pubblico nell’esecuzione del contratto di appalto; sono state considerate ipotesi di mora accipiendi (artt.1206 ss c.c.) la mancata e tempestiva adozione di un nuovo progetto nel caso di progetto originario errato[27], il pretestuoso esercizio dello jus variandi al fine di sopperire ad errori di progettazione[28].

Là dove ricorrano i presupposti per la risoluzione del contratto, l’appaltatore può rivolgersi all’A.G.O. per chiedere lo scioglimento dal contratto e il conseguente risarcimento del danno; l’appaltatore non può instare per l’esecuzione del contratto, ossia per il compimento dell’opera[29]. Va, comunque, tenuto presente che la risoluzione per inadempienza dell’amministrazione costituisce un estremo rimedio; data la qualità del committente, meglio percorribile sarebbe la via della richiesta degli indennizzi.

In caso di risoluzione giudiziale spetta all’appaltatore il risarcimento dei danni, determinato secondo il criterio della valutazione del lucro cessante e del danno emergente.

Sotto il primo aspetto, si discute in giurisprudenza se la perdita per il mancato guadagno debba essere calcolata ai sensi dell’art. 41 del capitolato generale in misura del dieci per cento dei lavori rimasti ineseguiti, da computarsi considerando l’intero valore del contratto, e non già dei quattro quinti di esso[30], ovvero vada considerata pari al guadagno netto che l’appaltatore avrebbe ricavato dall’esecuzione completa del contratto. Accoglie la prima tesi chi sostiene che l’imprenditore nell’economia dell’affare si sia ripromesso un guadagno almeno pari alla decima parte del corrispettivo[31]; la seconda, per contro, chi ritiene che il lucro cessante vada determinato in concreto e, se necessario, in sede di valutazione equitativa[32].

Il risarcimento del danno emergente è costituito dal pagamento dei lavori eseguiti, dal valore dei materiali esistenti nel cantiere, dalle spese sostenute dall’appaltatore per l’esecuzione dell’intero contratto, che ai sensi dell’art.16 del Capitolato sono comprese nel prezzo dell’appalto, dal rimborso delle spese contrattuali, ove i lavori non siano stati ancora iniziati.

Le somme dovute all’appaltatore a titolo di risarcimento costituiscono debito di valore[33].

Si discute se l’inadempienza dell’amministrazione possa essere fatta valere dall’appaltatore anche in via di eccezione (exceptio inadimpleti contractus). Opta per una soluzione negativa chi ravvisa nelle difficoltà di natura tecnica e nelle cause di forza maggiore le uniche e tassative ragioni che giustificano il ritardo[34]; opta per la soluzione positiva chi per contro ravvisa nell’eccezione d’inadempimento un principio civilistico generalmente applicabile anche al di là delle specifiche ipotesi previste dalla normativa sulla contabilità pubblica[35].

 

[1] Per contributi dottrinali specifici e recenti sull’argomento vedi A. PIAZZA “Rescissione d’ufficio del contratto di appalto di opere pubbliche. Problemi di tutela giurisdizionale dell’appaltatore”, in Rivista trimestrale appalti, 1987, 719-727; A. TURCO LIVERI, “Rescissione, recesso e risoluzione del contratto di opere pubbliche”, in Amministrazione italiana, 1987, 924-929; F. ANCORA, La rescissione del contratto di appalto di opere pubbliche. Autotutela e potere negoziale della Pubblica Amministrazione, Giuffrè, Milano, 1993; M. FRONTONI, “Brevi note in tema di rescissione d’ufficio del contratto di opere pubbliche”, in Rivista Trimestrale Appalti, 1994, 415-429. Per una trattazione di portata più generale vedi A. CIANFLONE, L’appalto di opere pubbliche, Giuffrè, Milano, 1999. Per la ricerca bibliografica ci si è avvalsi delle strutture e dei mezzi presenti all’interno della Biblioteca del Dipartimento di Scienze Giuridiche dell’Università di Modena e Reggio Emilia; si ringrazia, in modo particolare, il personale della biblioteca per la preziosa collaborazione fornita.

[2] Legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. F (in Gazz. Uff., 27 aprile 1865) – Legge sulle opere pubbliche.
[3] Legge 11 febbraio 1994, n. 109 (in Gazz. Uff., 19 febbraio 1994, n.41). — Legge quadro in materia di lavori pubblici, come modificata dalla Legge 2 giugno 1995, n.216 (Circolare Min.LL.PP. 4488/UL) e dalla Legge 18 novembre 1998, n.415 (Circolare Ministero LL.PP. prot.n.2100 UE).

[4] Regio decreto 25 maggio 1895, n. 350 (in Gazz. Uff., 8 giugno 1895, n. 135). — Regolamento per la direzione, la contabilità e la collaudazione dei lavori dello Stato che sono nelle attribuzioni del Ministero dei lavori pubblici.

[5] CORTE DI CASSAZIONE, 8 aprile 1976, n. 1224, in Massimario annotato della Cassazione, 1976, p.530: “E’ manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata, per contrasto con l’art.27 Cost., nei confronti degli art. 340 della l. 20 marzo 1865, n.2248 all. F e 26 del r.d. 25 maggio 1895, n.350, che regolano il diritto della P.A. committente di rescindere il contratto di appalto, qualora si sia verificato, a carico dell’appaltatore un fatto che possa dar luogo ad un procedimento penale per frode anche se non vi sia stata condanna dell’imputato. Tali norme, infatti, assicurando al soggetto passivo del provvedimento di rescissione il diritto di promuovere il sede giurisdizionale il controllo di legittimità di tale provvedimento e di chiedere il risarcimento del danno, non contrastano con il citato art.27 cost., che si limita ad enunciare soltanto il principio fondamentale che vieta di considerare colpevole ad ogni effetto l’imputato prima della condanna penale”. Cfr CIANFLONE, cit., 1007.

[6] CORTE DI CASSAZIONE, sezioni unite, 26 luglio 1985, n.4342, in Archivio giuridico opere pubbliche, 1985, 1497-1502: “La controversia relativa alla giustificabilità o meno del rifiuto dell’appaltatore di opera pubblica di dare inizio ai lavori (nella specie motivato in relazione alla necessità di acquisire anche l’appalto di lavori strettamente collegati) e, correlativamente, alla legittimità della rescissione del rapporto da parte della P.A. appaltante a fronte di detto rifiuto in applicazione dell’art.340 l. 20 marzo 1865, n. 2248, all. F, concerne, in costanza di un rapporto regolarmente concluso ed approvato nelle forme di legge, diritti e obblighi di natura contrattuale e spetta quindi alla giurisdizione dell’A.G.O.”; COLLEGIO ARBITRALE, 15 maggio 1987, lodo n.50, in Archivio giuridico opere pubbliche,1988, 684-697: “I numerosi e pretestuosi indugi opposti dall’appaltatore all’inizio dei lavori legittimano il committente all’esercizio del potere di rescindere il contratto ai sensi dell’art.340 l. 20 marzo 1865, n.2248, all.F, integrando il descritto comportamento la fattispecie della contravvenzione agli obblighi ed alle condizioni stipulate espressamente prevista dalla richiamata normativa”.

[7] T.A.R. LAZIO, sezione II, 30 aprile 1980, n.290, in Archivio giuridico opere pubbliche, 1980, II, 106: “Il provvedimento con il quale l’Amministrazione committente dichiara la rescissione del contratto per non aver l’appaltatore ripreso i lavori nel termine all’uopo assegnato, non costituisce un atto amministrativo, sibbene estrinsecazione di poteri di natura privatistica, e pertanto, è impugnabile davanti all’Autorità giudiziaria ordinaria”.

[8] CORTE DI CASSAZIONE, sezione I, 20 marzo 1987, n. 2769, in Archivio giuridico opere pubbliche, 1987, 769-770: “Costituisce grave negligenza contrattuale e, quindi, giusto motivo di rescissione del contratto da parte della P.A. ai sensi dell’art.340 l. 20 marzo 1865, n.2248, all. F, il mancato pagamento della retribuzioni alle maestranze che abbia causato l’interruzione dei lavori; né può ritenersi il contrario argomentando dall’art.357 st. legge, che prevede, in tali circostanze, la possibilità che l’amministrazione provveda direttamente al pagamento della retribuzione stessa trattenendone l’importo sul prezzo del contratto, posto che l’ipotesi contemplata nella predetta norma dà luogo ad una mera facoltà dell’amministrazione committente e non certo ad un suo obbligo nei confronti dell’appaltatore, l’inosservanza del quale valga ad eliminare la colpa di questi e giustificare l’interruzione della sua prestazione”.

[9] COLLEGIO ARBITRALE, 2 luglio 1979, lodo n. 55, in Archivio giuridico opere pubbliche, 1979, III, 439-448: “E’ legittima la rescissione del contratto, in applicazione dell’art. 340 L. 20 marzo 1865, n. 2248, all. F, da parte della stazione appaltante, allorquando l’appaltatore abbia sospeso unilateralmente l’esecuzione dei lavori (affermando, nella specie, la non remuneratività del prezzo corrispostogli).

[10] COLLEGIO ARBITRALE, 4 luglio 1981, lodo n.39, in Archivio giuridico opere pubbliche, 1981, III, 103-111: “Il contratto di appalto deve intendersi risolto per inadempimento imputabile all’appaltatore quando questi, senza idonea motivazione, abbia abbandonato i lavori, chiuso il cantiere e cessato ogni attività”.

[11] COLLEGIO ARBITRALE, 10 agosto 1984, lodo n.48, in Archivio giuridico delle opere pubbliche, 1985, 1039-1044:”La chiusura del cantiere da parte dell’appaltatore, con la conseguente interdizione al committente di accedere ai luoghi in esercizio del diritto a quest’ultimo attribuito dall’art.1662 c.c. di controllare lo svolgimento dei lavori e di verificarne lo stato a proprie spese, integra gli estremi di un inadempimento contrattuale, non potendosi in alcun modo configurare un tal comportamento come esercizio del diritto di ritenzione da parte dell’appaltatore”.

[12] COLLEGIO ARBITRALE, 6 dicembre 1983, lodo n. 39, in Archivio giuridico delle opere pubbliche, 1984, 1044-1063:”Il generico riferimento a inadempienze contrattuali, a sospensione dei lavori per mancanza di materiale e ad un andamento dei lavori che non ha avuto un ritmo accettabile non è in grado di integrare il presupposto per l’applicazione dell’art.340 della l. 20 marzo 1865, n. 2248 all.F, il quale, in tema di rescissione del contratto da parte della Pubblica Amministrazione in danno dell’appaltatore, esplicitamente richiede che si siano verificati fuori dall’ipotesi di frode fatti da qualificarsi come grave negligenza o grave inadempienza”.

[13] COLLEGIO ARBITRALE, 11 luglio 1991, lodo n. 58, in Archivio giuridico delle opere pubbliche, 1992, 1034-1059:”La mancanza di un nuovo programma lavori, a seguito delle varianti d’apportare ai lavori stessi non ancora approvate, non è motivo sufficiente per configurare un’ipotesi d’inadempimento così grave da condurre alla rescissione del contratto di appalto ai sensi dell’art.340 L. 20 marzo 1865, n.2248, all. F”.

[14] APPELLO PALERMO, 30 marzo 1999, in Il Fallimento, n.2/2000, pp. 181-188.

[15] COLLEGIO ARBITRALE, 11 luglio 1991, lodo n. 58, cit.: “Al fine di pronunciarsi la rescissione del contratto ai sensi dell’art. 27 r.d. 25 maggio 1895, n.350, il quale prevede la rescissione quando l’appaltatore comprometta la buona riuscita dell’opera, è necessario che l’Ente contesti gli addebiti e riceva la prospettazione delle difese dell’appaltatore”.; COLLEGIO ARBITRALE, 6 febbraio 1985, lodo n. 11, in Archivio giuridico delle opere pubbliche, 1986, 96-111:”L’art.27 del r.d. 25 marzo 1895, n.350 stabilisce l’iter procedurale da seguire per poter decretare la rescissione del contratto, per cui la mancata osservanza dello stesso comporta l’illegittimità del provvedimento di rescissione”.

[16] CORTE DI CASSAZIONE, 30 luglio 1996, n.6908, in Il Foro italiano, 1997, I, 891-902: “La comunicazione del provvedimento di risoluzione del contratto di appalto di opera pubblica, adottato ai sensi dell’art. 27 r.d. 350/1895, non esige le forme e le modalità delle notificazioni degli atti giudiziari, essendo sufficiente che avvenga con qualunque mezzo idoneo a portare a conoscenza dell’interessato l’adozione del provvedimento rescissorio”. COLLEGIO ARBITRALE, 17 luglio 1985, lodo n.55, in Archivio giuridico delle opere pubbliche, 1986, 1290-1301:”L’esigenza di tutela dell’interesse dell’appaltatore in ordine alla preventiva contestazione degli inadempimenti contrattuali ai fini della rescissione del contratto ad opera della pubblica amministrazione può ritenersi soddisfatta tutte le volte in cui l’appaltatore sia messo in grado di conoscere gli inadempimenti addebitategli e di prospettare le proprie deduzioni in proposito; pertanto, la comunicazione della relazione particolareggiata prevista dall’art.27 del r.d. 25 marzo 1895, n.350 non può considerarsi una formalità essenziale che non ammetta equipollenti, essendo sufficiente che l’appaltatore venga informato con qualunque mezzo idoneo degli addebiti mossigli dall’Amministrazione committente”

[17] Per l’inapplicabilità dell’art. 2041 c.c. cfr CORTE DI CASSAZIONE, Sez. I, sent. n. 2769 del 20-03-1987, in Gist. Civ. Mass, fasc. 3:“In materia di appalto di opere pubbliche, quando il contratto viene rescisso in danno dell’impresa, la richiesta di indennità avanzata dall’appaltatore per i lavori eseguiti è regolata non già dall’art. 2041 cod. civ., in materia di arricchimento senza causa (tal che per il suo accoglimento sia necessaria la prova dell’utilizzazione dell’opera da parte della Pubblica Amministrazione), ma dall’art. 340, secondo comma, della legge 20 marzo 1865 n. 2248, all. F, che prevede il diritto dell’appaltatore al pagamento dei lavori eseguiti regolarmente”.

Sez. I, sent. n. 2769 del 20-03-1987, Soc. Impresa Costruzioni Lemme c. Ministero dei lavori pubblici (rv 451882).

[18] FRONTONI, cit., 427.
[19] T.A.R. LAZIO, sez. III, 7 novembre 1984, n.557, in I Tribunali Amministrativi Regionali, 1984, I, 3602: “Rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo la controversia avente per oggetto l’atto con cui l’amministrazione appaltante ha disposto la rescissione del contratto ai sensi dell’art. 340 l. 20 marzo 1865, n.2248, all. F”; T.A.R. PUGLIA, sez. Lecce, 12 febbraio 1986, n.23, in Archivio giuridico delle opere pubbliche, 1986, p.1443: “In tema di contratti di appalto, nonostante che la normativa che disciplina, in materia, i poteri di autotutela della p.a. non appaia interpretabile nel senso di attribuire alla p.a. appaltante una posizione di supremazia nei confronti dell’appaltatore, la corte di cassazione, tuttavia, sulla base di un orientamento ormai consolidato, qualifica come amministrativo l’atto con il quale la stazione appaltante rescinde il rapporto, ai sensi dell’art.340, l. 20 marzo 1865, n. 2248, all. F, e come interesse legittimo la connessa posizione giuridica dell’appaltatore. Quest’ultimo deve quindi agire dinanzi al giudice amministrativo per l’annullamento dell’atto illegittimo, mentre deve proporre davanti al giudice ordinario la conseguente ed eventuale azione risarcitoria”; TURCO, cit., 925.

[20] CONSIGLIO DI STATO, sez. IV, 28 febbraio 1956, n.281, in Il Consiglio di Stato, 1956, p.148: “L’atto unilaterale con cui la P.A. rescinde un contratto di appalto di un’opera pubblica, ai sensi dell’art.340 l. 20 marzo 1865, n.2248, All. F per inadempienza dell’appaltatore, non ha natura di atto amministrativo; pertanto il ricorso che lo impugna esula dalla giurisdizione del C.d.S”.

[21] PIAZZA, cit., 723.
[22] Dal divieto di annullamento degli atti amministrativi, secondo il principio di cui all’art. 4 della legge abolitrice del contenzioso amministrativo, deriva, tuttavia, che l’efficacia risolutoria del provvedimento di rescissione del contratto non può essere messa in discussione nel processo civile e, quindi, non potrà mai essere ricostituito dal giudice il vincolo contrattuale. Cfr A. CIANFLONE, cit., p.1005; CORTE DI CASSAZIONE, sezioni unite civili, 22 settembre 1984, n. 4819, in Il Foro Italiano, 1985, I, 132, con nota di C.M. BARONE: “Il giudice ordinario, cui l’appaltatore di opere pubbliche, destinatario del provvedimento di rescissione del contratto adottato nei suoi confronti dalla p.a. ai sensi dell’art.340 l. 20 marzo 1865, n.2248, all.F, chieda la dichiarazione di risoluzione dell’appalto per inadempimento dell’amministrazione e la condanna stessa ai danni, pur non potendo adottare statuizioni incidenti sulla risoluzione del rapporto determinata dall’anzidetto provvedimento è tuttavia munito di giurisdizione a ricondurla a inadempimento della stazione appaltante e a sanzionarlo mediante le opportune statuizioni risarcitorie”.

[23] FRONTONI, cit., 428.
[24] CORTE DI CASSAZIONE, 19 novembre 1975, n. 3063, in Massimario del Foro Italiano, 1975, 735.
[25] PIAZZA, cit., 725.
[26] Decreto del Presidente della Repubblica 16 luglio 1962, n. 1063 (in Gazz. Uff., 7 agosto 1962, n. 198). — Approvazione del capitolato generale d’appalto per le opere di competenza del Ministero dei lavori pubblici.

[27] COLLEGIO ARBITRALE, 25 gennaio 1990, lodo n. 6, in Archivio giuridico delle opere pubbliche, 1991, 555-570: “Nel caso in cui il Comune abbia predisposto un progetto errato, che renda ineseguibili i lavori appaltati, e non abbia proceduto alla tempestiva adozione di un nuovo progetto, si versa in ipotesi di mancata o ritardata cooperazione dell’Amministrazione, cioè d’inosservanza del dovere di cooperazione che, in materia di appalto di opere pubbliche, consiste principalmente nel porre l’appaltatore in grado di eseguire l’opera nei tempi contrattuali previsti, con la conseguenza che la mancata cooperazione determina mora accipiendi con gli effetti a questa ricollegabili, che consistono, fra l’altro, nel riconoscimento della facoltà dell’altro contraente di chiedere la risoluzione del contratto ed il risarcimento del danno”.

[28] COLLEGIO ARBITRALE, 18 dicembre 1991, lodo n. 126, in Archivio giuridico delle opere pubbliche,1992, 1404-1415: “Il pretestuoso esercizio dello jus variandi al fine di sopperire ad errori di progettazione costituisce inadempimento contrattuale della stazione appaltante con conseguente diritto dell’appaltatore al risarcimento dei danni che siano la conseguenza diretta ed immediata delle illegittime sospensioni, da quantificarsi tenendo conto della svalutazione monetaria intercorsa dalla produzione del danno al giorno della liquidazione giudiziaria”.

[29] CIANFLONE, cit., 1010.
[30] COLLEGIO ARBITRALE, 7 dicembre 1988, lodo n.99, in Archivio giuridico delle opere pubbliche, 1989, pp. 814.-824: “Nel caso di risoluzione del contratto per colpa dell’Amministrazione committente, l’appaltatore ha diritto al riconoscimento del 10% dell’ineseguito da computarsi considerando l’intero valore del contratto, e non già dei quattro quindi di esso, ai sensi degli artt. 345 L. 20 marzo 1865, n.2248 all. F e 41 del Capitolato generale per le opere di competenza del Ministero dei lavori pubblici, approvato con D.P.R. 16 luglio 1962, n.1063”.

[31] COLLEGIO ARBITRALE, 25 gennaio 1990, lodo n.6, in Archivio giuridico delle opere pubbliche, 1991, pp.555-570: “In caso di risoluzione del contratto su istanza dell’appaltatore prima dell’esecuzione dei lavori, il risarcimento va determinato secondo il criteri della valutazione del lucro cessante e del danno emergente; in particolare, per quanto attiene al primo, questo può essere determinato nel decimo dell’importo netto del corrispettivo di appalto, dovendo presumersi che l’imprenditore, nella valutazione dell’affare e nella determinazione del prezzo globale si sia ripromesso un guadagno almeno pari alla decima parte del corrispettivo, criterio che trova un aggancio normativo nell’art.345 L. 20 marzo 1865, n. 2248, all. F, che prevede un indennizzo in favore dell’appaltatore pari al decimo in caso di scioglimento del contratto per volontà unilaterale della P.A.”.

[32] CORTE DI APPELLO DI ROMA, sezione I, 12 marzo 1990, n.838, in Archivio giuridico delle opere pubbliche, 1990, pp.1088-1094: “In caso di mancata esecuzione dei lavori per inadempimento dell’Amministrazione, il danno da mancato guadagno dell’Impresa non può essere commisurato all’utile che essa avrebbe tratto dall’esecuzione dell’opera (generalmente pari ad un decimo dell’importo dei lavori), atteso che non è stato nessun rischio (che certamente ha il suo valore economico) in ordine ai lavori perché non realizzati, e quindi si rende necessario il ricorso a criteri equitativi”.

[33] COLLEGIO ARBITRALE, 26 novembre 1987, lodo n.100, in Archivio giuridico delle opere pubbliche, 1988, pp.1613-1638: “L’importo dei corrispettivi riconosciuti come dovuto all’appaltatore a titolo di risarcimento del danno da inadempimenti sostanziali dell’Amministrazione committente, in quanto debito di valore, può essere rivalutato anche d’ufficio utilizzando qualsivoglia criterio in quanto la rivalutazione non rappresenta un maggior danno, bensì una diversa espressione monetaria della somma liquidata con riferimento all’epoca del danno, gli interessi su tali somme decorrono, nella misura legale, dalla domanda di arbitrato al soddisfo”.

[34] COLLEGGIO ARBITRALE, 23 marzo 1987, lodo n. 27, in Archivio giuridico delle opere pubbliche, 1988, pp.586-605: “Il ritardo dell’amministrazione committente nei pagamenti non giustifica l’appaltatore della mancata realizzazione dell’opera nei termini temporali contrattualmente stabiliti, ai fini della disapplicazione della penale all’uopo prevista, né tantomeno dell’interruzione dei lavori: ciò in quanto le uniche ragioni che giustificano il ritardo sul termine contrattuale sono quelle di natura tecnica, ovvero dipendenti da forza maggiore, non potendosi tra queste ricondurvi la debolezza economica dell’impresa, giacché, nelle circostanze descritte, l’ordinamento individua nella corresponsione degli interessi lo strumento idoneo al riequilibrio tra le prestazione contrattuali, circostanza alla quale deve aggiungersi la particolare urgenza che caratterizzava la realizzazione di opere destinate alle popolazioni terremotate ai sensi della l. 14 maggio 1981, n.219”.

[35] CIANFLONE, cit., 1010; COLLEGIO ARBITRALE, 19 gennaio 1988, n. 5, in Archivio giuridico delle opere pubbliche, 1988, pp. 1639-1667: “La morosità dell’Ente appaltante nel pagamento degli acconti in corso d’opera per somme assai ingenti sconvolge i piani di lavoro dell’impresa ed incide negativamente sull’esecuzione dell’intero appalto, per cui quando raggiunge segni di particolare gravità autorizza non solo all’esperimento dell’azione di risoluzione, ma addirittura legittima l’appaltatore all’applicazione dell’eccezione d’inadempimento”.

 

Redazione

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