La responsabilità amministrativa connessa alle “diseconomie esterne” ingenerate dall’abbandono incontrollato di rifiuti: l’ipotesi del fallimento del soggetto inquinante

SOMMARIO: 1. Gli obblighi di bonifica ambientale in ipotesi di incorporazione per fusione del soggetto inquinante: brevi cenni alla precedente Adunanza Plenaria n. 10/2019; 2. Quaestio facti: il caso del fallimento dell’autrice materiale della condotta di abbandono incontrollato di rifiuti; 3. Digressione sul bene giuridico ambiente: evoluzione legislativa e giurisprudenziale; 4. Il curatore fallimentare quale soggetto detentore dei rifiuti; 5. La collocazione del peso economico delle esternalità negative di impresa alla luce dei criteri-guida di derivazione euro-unitaria; 6. Sugli altri motivi del rigetto del ricorso introduttivo; 7. Il principio “chi inquina paga” e l’effetto “moltiplicatore” delle categorie di soggetti responsabili del danno ambientale.

1. Gli obblighi di bonifica ambientale in ipotesi di incorporazione per fusione del soggetto inquinante: brevi cenni alla precedente Adunanza Plenaria n. 10/2019

Nell’approcciare nuovamente al delicato quanto generico tema del danno ambientale, la Plenaria in commento – calandosi nel solco delle coordinate che il Massimo Consesso aveva già tratteggiato con sentenza n. 10 del 2019 – offre una chiave interpretativa che vale a coniugare tra loro precedenti oscillazioni giurisprudenziali all’apparenza dissonanti, con l’ineludibile pregio di ampliare il novero dei soggetti sui quali debbono farsi ricadere gli obblighi di bonifica del sito inquinato. Sul punto, la sentenza del 26 gennaio scorso “adorna” di nuovi e interessanti tasselli il mosaico logico-argomentativo realizzato dai giudici di Palazzo Spada poco meno di due anni prima. Tuttavia, occorre por mente al diverso background fattuale con cui il Consiglio di Stato è chiamato a confrontarsi nelle due ipotesi. Nel 2019, la questione rimessa all’A.P. investiva l’attitudine o meno a rendersi destinataria di un ordine di bonifica da parte di una società che, sebbene non fosse responsabile in proprio né tantomeno corresponsabile dell’inquinamento, era cionondimeno subentrata – per effetto di fusione per incorporazione – nei rapporti giuridici, attivi e passivi, facenti capo alla società autrice dell’illecito[1]. Viceversa, difetta nella vicenda contenziosa qui oggetto di analisi, un fenomeno successorio in universum jus, tale da assicurare la prosecuzione, a tutti gli effetti giuridici, del patrimonio del soggetto estinto, ivi inclusi gli obblighi inerenti a fenomeni di contaminazione e di inquinamento ambientale.

2. Quaestio facti: il caso del fallimento dell’autrice materiale della condotta di abbandono incontrollato di rifiuti

Allo scopo di perimetrare maggiormente i presupposti e i fini dell’odierno studio, corre l’obbligo di ripercorrere brevemente i fatti sottesi alla pronuncia n. 3/2021, con cui l’Alto Consesso – dando riscontro alla questione sollevata dalla V Sezione con ordinanza di rimessione n. 5454/2020[2] – ha espresso il principio di diritto in base al quale «ricade sulla curatela fallimentare l’onere di ripristino e di smaltimento dei rifiuti di cui all’art. 192 d.lgs. n. 152/2006 e i relativi costi gravano sulla massa fallimentare», accogliendo la tesi che era stata fatta propria in precedenza dalla medesima sezione remittente. Orbene, la fattispecie in esame prende le mosse da un’ordinanza contingibile e urgente con la quale il Sindaco di un Comune interessato da deposito incontrollato di rifiuti, derivati da attività imprenditoriale, ordinava al curatore della fallita società inquinante di avviare il procedimento finalizzato al recupero dell’area contaminata, mediante predisposizione di apposito programma di smaltimento da portare previamente a conoscenza dei competenti uffici comunali.

3. Digressione sul bene giuridico ambiente: evoluzione legislativa e giurisprudenziale

Evitando di dilungarsi oltremodo su un argomento già ampiamente oggetto di illustri ed autorevoli dissertazioni in dottrina[3], è d’uopo rammentare soltanto, come d’altronde ci ricorda il Consiglio di Stato nella cennata pronuncia n. 10/2019[4], che l’ambiente è entrato nel lessico giuridico sin da epoca antecedente alla Carta Costituzionale, in un panorama contraddistinto da normative di carattere settoriale “parcellizzanti” il regime di protezione giuridica della materia in tante componenti quanti sono gli elementi di cui constano il paesaggio e le bellezze naturali (suolo, aria, acqua). Progressivamente, alla primordiale concezione tripartita dell’ambiente inteso sia come paesaggio, sia nel suo aspetto ecologico-sanitario che in quello strettamente urbanistico, declinato – in quest’ultima accezione – in termini di governo del territorio, è venuta sovrapponendosi e sostituendosi una visione unitaria e monistica del bene “ambiente”, protesa a identificarlo con un vero e proprio bene della vita in grado di racchiudere in sé la perfetta sintesi delle sue singole componenti. In concomitanza con l’affermarsi di una sempre più pregnante coscienza ecologica, ad una tutela tradizionalmente conservativa del bene si sono frapposti più incisivi ed efficaci meccanismi di tutela, agenti in un’ottica di prevenzione e repressione delle condotte lesive[5]. Il culmine della descritta tendenza evolutiva è rintracciabile negli artt. 9, co. 2, e 32 della Costituzione che elevano il bene giuridico “ambiente” ad interesse pubblico di valore primario ed assoluto e a diritto individuale tutelato sulla scorta del precetto civilistico del neminem laedere, cristallizzato nelle forme di cui al noto testo dell’art. 2043 c.c.. Ebbene, i richiamati sviluppi sul piano definitorio non potevano far a meno di ripercuotersi anche sulla nozione di danno ambientale[6], di cui oggi il testo del d.lgs. n. 152 del 2006 (Codice dell’ambiente) sembra esaltare il dato funzionale, sicché – come osserva la dottrina maggioritaria – diviene possibile profilare ipotesi di danno non soltanto a fronte del concreto deterioramento della risorsa naturale, ma anche laddove risulti compromessa la capacità del “sistema ambiente” di generare servizi[7]. Venendo alle singole disposizioni d’interesse per la tematica in analisi mette conto soffermarsi con specifica attenzione sull’art. 192, co. 3 e 4 del cit. d.lgs. n. 152, enunciante il divieto di abbandono. Il co. 3, in particolare, definisce il contenuto degli obblighi[8] incombenti sul soggetto che trasgredisca ai divieti di abbandono e deposito incontrollato di rifiuti sul suolo e nel suolo (co. 1) e di immissione di rifiuti nelle acque superficiali e sotterranee (co. 2), purché in presenza di condotte sorrette dall’elemento soggettivo minimo della colpa, demandando ad apposito provvedimento emesso dal Sindaco l’individuazione in concreto delle operazioni a ciò necessarie. Il co. 4 consta di un passaggio testuale maggiormente delicato ai fini della comprensione dell’odierna pronuncia, atteso che ammette una responsabilità solidale degli amministratori o rappresentanti della persona giuridica responsabile ai sensi del succitato co. 3 con i soggetti i quali, a loro volta, siano «subentrati nei diritti della persona stessa, secondo le previsioni del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231».

4. Il curatore fallimentare quale soggetto detentore dei rifiuti

La spiegazione logica delle conclusioni rassegnate nel caso in esame dal Consiglio di Stato convoglia in sé l’analisi di tre profili, esaminati in successione nella sentenza n. 3/2021. Primo fra questi ad essere affrontato dal Collegio è quello riguardante l’inquadramento giuridico della figura del curatore del fallimento relativamente alle ipotesi di inquinamento ambientale. La questione assume, invero, rilievo dirimente ove si consideri che l’Adunanza, in via del tutto preliminare, esclude che il curatore – eccezion fatta per le ipotesi di responsabilità direttamente ascrivibili al suo operato – possa rivestire la qualifica di avente causa del fallito nel trattamento dei rifiuti e che possa essere considerato, perciò, quale soggetto subentrante agli effetti del sopra cennato art. 192, co. 4. Tanto premesso, si rende necessario stabilire se – e in caso di risposta affermativa – a quale titolo il curatore debba farsi carico degli oneri di bonifica inizialmente gravanti sul soggetto inquinatore, poi dichiarato fallito o se, viceversa, il peso economico connesso alla rimessione in pristino del sito contaminato si riverberi sulla collettività (rectius, sulle voci di spesa afferenti la competenza del Comune). Al riguardo, assumendo una posizione che recide il continuum interpretativo sino ad allora caratterizzante la giurisprudenza amministrativa che sistematicamente, a fronte di precedenti analoghi, non aveva concesso spazi a vicende traslative della responsabilità per fatti od omissioni pregressi al fallimento, se non quando si fosse accertato un contributo causale e diretto del curatore, l’Alto Consesso, per la prima volta, ammette una generale legittimazione passiva dell’organo fallimentare, muovendo dalla constata possibilità di riconoscerne la qualifica di detentore del sito. Status che, ai sensi dell’art. 87 legge n. 267/1942 (legge fallimentare), sorge in dipendenza del relativo obbligo di redigere l’inventario dei beni dell’impresa e che – chiarisce il giudice di secondo grado – si riconnette pertanto al rapporto che l’organo preposto a gestire la procedura concorsuale intrattiene «non già in riferimento ai rifiuti (che sotto il profilo economico a seconda dei casi talvolta si possono considerare ‘beni negativi’)», bensì piuttosto con riferimento allo stesso «bene immobile inquinato su cui i rifiuti insistono». Ad avviso dei giudici di Palazzo Spada, il ragionamento poc’anzi descritto è il solo in grado di sorreggere una lettura delle disposizioni codicistiche realmente aderente ai principi di derivazione euro-unitaria.

5. La collocazione del peso economico delle esternalità negative di impresa alla luce dei criteri-guida di derivazione euro-unitaria

Aprendo a considerazioni di più ampio respiro, il Collegio si richiama al diritto unionale, ponendo in evidenza come nella direttiva n. 2008/98/CE (relativa ai rifiuti) la figura del detentore venga descritta in contrapposizione a quella del produttore, potendo dirsi integrata tanto da colui (persona fisica o giuridica) che – mediante la propria attività – dia avvio al processo di produzione dei rifiuti quanto da chi altri semplicemente li possegga (cfr. art. 3, par. 1, punto 6). Da tale richiamo si evince come, in ottica comunitaria, ciò che rileva è semplicemente il fatto stesso di avere la disponibilità materiale dei beni in questione, che nel caso di specie il produttore iniziale di fatto perde per effetto delle vicende classiche (di spossessamento) legate al fallimento. Di riflesso, restano del tutto sfornite di qualsivoglia rilievo pratico le distinzioni, elaborate in ambito domestico, relative al titolo giuridico sottostante alle nozioni di possesso e detenzione, da cui si prescinde nella ricerca del soggetto chiamato a rispondere dei costi di gestione dei rifiuti, che finiranno per gravare a seconda dei casi sul produttore inziale ovvero sui «detentori del momento», o su quelli precedenti (cfr. art. 14, direttiva n. 2008/98/CE). Un sistema così delineato è la risultante dell’applicazione dei generali principi di responsabilità e di prevenzione nonché dell’ulteriore principio, cardine delle politiche europee di matrice ambientale, fondato sul ben noto assunto del “chi inquina paga”. A garanzia dei siffatti principi, appare del tutto coerente che i costi dell’inquinamento dall’attività di impresa – che i giudici correttamente inquadrano tra le «diseconomie esterne» ovvero tra le esternalità negative generate dalla produzione imprenditoriale – gravino «sulla massa dei creditori dell’imprenditore stesso che, per contro, beneficiano degli effetti dell’ufficio fallimentare della curatela in termini di ripartizione degli eventuali utili del fallimento». Diversamente opinando, i costi di bonifica finirebbero per ricadere invece sulla «collettività incolpevole», in maniera del tutto irragionevole oltre che in perfetta antitesi rispetto alla realtà economica, come visto, connotata dalla stretta relazione di continuità che intercorre tra il patrimonio dell’imprenditore e la massa fallimentare di cui il curatore assume la responsabilità ex lege[9]. Resta inteso che dal novero dei soggetti potenzialmente attinti da un’ordinanza di rimozione dei rifiuti andranno esclusi soltanto coloro i quali, non avendo la detenzione del bene, possono invocare l’esimente interna, di cui al citato art. 192, co. 3. La norma in questione manda esente da qualsivoglia responsabilità le condotte violative dei divieti di cui ai co. 1-2, laddove non sorrette dall’elemento soggettivo minimo della colpa, non configurabile ad esempio nel caso del «proprietario incolpevole del terreno su cui gli stessi (rifiuti) siano collocati» da soggetti terzi e a carico del quale non siano altrimenti accertati indici di negligenza nella vigilanza del fondo[10].

6. Sugli altri motivi del rigetto del ricorso introduttivo

Per tale via il Consiglio di Stato passa ad esaminare gli ulteriori profili messi in luce dal ricorso introduttivo. Anzitutto, il Collegio destituisce di qualsivoglia pregio argomentativo sotto il profilo giuridico l’eventualità, di mero fatto, che la massa fallimentare possa risultare incapiente rispetto ai costi di bonifica. All’inverarsi di una siffatta ipotesi – osserva la Plenaria – si attiveranno gli strumenti ordinariamente azionabili secondo la normativa vigente: sicché, il Comune, qualora fosse costretto a farsi carico dell’eliminazione del pericolo ambientale, «potrà poi insinuare le spese sostenute per gli interventi nel fallimento, spese che godranno del privilegio speciale sull’area bonificata a termini dell’art. 253, comma 2, d.lgs. n. 152-2006» (punto 6). I giudici respingono anche l’ulteriore motivo addotto a sostegno dell’appello e incentrato sull’applicabilità al caso de quo della previsione contenuta all’art. 42, co. 3, l. fall. (del resto, erroneamente richiamato dalla sentenza in commento in luogo del nuovo art. 104-ter, comma 7, l. fall.[11]). Detta previsione expressis verbis facoltizza il curatore a rinunciare, previa approvazione del comitato dei creditori, all’acquisizione dei beni pervenuti dalla procedura fallimentare, ove «l’attività di liquidazione appaia manifestamente non conveniente»[12]. Ebbene, l’A.P. “corregge il tiro” dell’interpretazione seguita dalla difesa del Fallimento, perimetrando l’ambito di applicazione della norma in questione e ricordando come la facoltà di rinuncia esercitabile dal curatore – che di per sé costituisce una mera eventualità inidonea ad incidere sui principi in materia di bonifica – ricada inoltre soltanto su quei beni, quali ad esempio «quelli derivanti da eredità o in forza di donazioni, le vincite ai giochi, i diritti d’autore, che entrano a diverso titolo nel patrimonio dell’imprenditore dopo la dichiarazione di fallimento e che sono oggetto di spossessamento». Diverse sono invece le ipotesi in cui il bene (nel caso di specie, l’immobile inquinato) risulti di proprietà dell’imprenditore al momento della dichiarazione di fallimento.

7. Il principio “chi inquina paga” e l’effetto “moltiplicatore” delle categorie di soggetti responsabili del danno ambientale

La parte finale della sentenza dedica un singolare riferimento al principio “chi inquina paga”, declinandolo in rapporto agli obblighi della curatela e, ancora una volta, rintraccia nel diritto euro-unitario e in particolare nella direttiva n. 2004/35/CE – che in materia ambientale fonda una responsabilità risarcitoria di tipo oggettivo – un caposaldo interpretativo alla cui stregua interpretare tutte le disposizioni legislative nazionali. Coerentemente con tale assunto la Plenaria segnala che le misure nazionali rispondono ad una «finalità di salvaguardia del bene-ambiente rispetto ad ogni evento di pericolo o danno» in vista del cui raggiungimento la bonifica perde qualsivoglia contenuto sanzionatorio, atteggiandosi a strumento pubblicistico «teso non a monetizzare la diminuzione del relativo valore, ma a consentirne il recupero materiale». Così definita, la misura a carattere ripristinatorio finisce per assolvere ad una funzione di reintegrazione del bene giuridico leso «che evoca il rimedio della reintegrazione in forma specifica ex art. 2058 c.c.» (punto 8). In questi termini, l’annotata pronuncia del Consiglio di Stato produce un effetto “moltiplicatore” delle categorie di soggetti responsabili solidalmente del danno ambientale, attingendo anche al recente insegnamento trasmesso dalla Corte di Giustizia UE con sentenza del 13 luglio 2017 (causa Ungheria c. Commissione europea), con la quale i giudici di Lussemburgo hanno ritenuto che le disposizioni della sopra richiamata direttiva del 2004 non ostano ad una normativa nazionale che identifichi quali responsabili in solido «oltre agli utilizzatori dei fondi su cui è stato generato l’inquinamento illecito … i proprietari di detti fondi», indipendentemente dalla prova di un nesso di causalità tra la condotta dei proprietari e il danno constatato. Nesso da cui analogamente – chiosano i giudici – può prescindersi anche ai fini dell’accertamento della responsabilità della curatela fallimentare.

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[1] In particolare, nelle trame della motivazione sviluppata dai giudici è interessante scendere nel dettaglio dei ragionamenti introdotti in merito al regime giuridico antecedente e successivo alla riforma del diritto societario del 2003. Per ciò che qui rileva, al quesito concernente la trasmissibilità, in virtù di fusione per incorporazione, di obblighi di pertinenza di società estinte, il Consiglio di Stato ha fornito un responso positivo, ancorando le proprie argomentazioni al tenore letterale dell’art. 2504-bis, co. 1, c.c. e invocando il brocardo cuius commoda eius et incommoda, «cui è informata la disciplina delle operazioni societarie straordinarie, tra cui la fusione, anche prima della riforma del diritto societario, per cui alla successione di soggetti sul piano giuridico-formale si contrappone nondimeno sul piano economico-sostanziale una continuazione dell’originaria impresa e della sottostante organizzazione aziendale» (cfr., Cons. St., A.P. sent. 22 ottobre 2019, n. 10, punto 8.4).

[2] Con cui la Sezione remittente ha richiesto all’Adunanza di chiarire se «a seguito della dichiarazione di fallimento, perdano giuridica rilevanza gli obblighi cui era tenuta la società fallita ai sensi dell’art. 192 d.lgs. n. 152-2006 (con la ricaduta sulla finanza pubblica e con un corrispondente vantaggio patrimoniale dei creditori della società fallita e sostanzialmente di questa), pur se il curatore fallimentare – in un’ottica di continuità – ‘gestisce’ proprio il patrimonio del bene della società fallita e ne ha la disponibilità materiale».

[3] Tra le prime si vedano, in particolare, GIANNINI, “Ambiente”: saggio sui diversi suoi aspetti giuridici, in Riv. Trim. Dir. Pubbl., 1973, p. 15 ss.; ANGIOLINI, Costituzione e danno all’ambiente: grande problema per una piccola contesa, in Dir. regione, 1988, p. 91 e ss.

[4] Che sviluppa e chiarisce ulteriormente le considerazioni in parte riprese nel presente paragrafo ai punti 6.1 e ss.

[5] Per un più attenta ed accurata disamina sul punto, si rinvia a R. GAROFOLI e G. FERRARI, Manuale di diritto amministrativo, XIII Ed., 2020, Nel diritto, pp. 1169 e ss.

[6] In origine positivizzato con l’abrogato art. 18 della legge 8 luglio 1986, n. 349 (Istituzione del Ministero dell’ambiente e norme in materia di danno ambientale).

[7] In questi termini, GAROFOLI, op. cit., p. 1176.

[8] «rimozione, all’avvio a recupero o allo smaltimento dei rifiuti ed al ripristino dello stato dei luoghi in solido con il proprietario e con i titolari di diritti reali o personali di godimento sull’area».

[9] L’interpretazione fatta propria dall’Adunanza Plenaria che, nel caso di specie, ha ritenuto che il curatore all’atto della nomina assuma di fatto le “vesti” di detentore materiale dei rifiuti e, con esse, la responsabilità dei connessi costi di gestione, non è andata esente da critiche in dottrina. Sul punto, si segnala tra le altre, l’obiezione mossa da quanti ritengono che, in questo modo, si realizzerebbe uno «stravolgimento del principio chi inquina paga che si trasformerebbe piuttosto in “chi detiene paga”». In argomento, VIVOLI G., Le responsabilità del curatore in caso di abbandono rifiuti: sentenze contrastanti o diversi valori costituzionali in gioco? in Ambientediritto.it, 2020/1, p. 17.

[10] Sul campo di operatività dell’esimente interna di cui all’art. 192, co. 3 si è di recente pronunciato anche il Cons. St., sez. IV, 3 dicembre 2020, n. 7657.

[11] Introdotto nella legge fallimentare dal d.lgs. n. 5/2006.

[12] Laddove nel testo ante 2006, la legge fallimentare, a proposito della facoltà di rinuncia del curatore, conteneva la diversa formula: «qualora i costi da sostenere per il loro acquisto e la loro conservazione risultino superiori al presumibile valore di realizzo dei beni stessi».

Sentenza collegata

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Dott. Gianpiero Gaudiosi

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