Sono frequenti i casi in cui il legislatore nazionale non adegua l’ordinamento alle direttive comunitarie.
La questione ha posto problemi di varia natura. In particolare, si è discusso a lungo sull’accoglimento o meno della teoria secondo la quale i singoli cittadini avrebbero potuto far valere un diritto al risarcimento nei confronti del Paese membro “inadempiente”.
Inoltre, prima che la Corte di Giustizia adottasse una giurisprudenza uniforme, molte incertezze hanno accompagnato il dibattito relativo all’”ampiezza” del risarcimento, di fronte alle ipotesi di ammettere il risarcimento non solo dei diritti soggettivi, ma anche degli interessi legittimi lesi dal comportamento inadempiente tenuto dal legislatore nazionale 1).
Dopo varie pronunzie tra loro contrastanti 2), fu nel 1991, con l’ormai “storica” sentenza Francovich 3), che la Corte di Giustizia delle Comunità Europee dettò le condizioni per stabilire la configurabilità della c.d. “responsabilità civile dello Stato” di fronte al mancato adeguamento della normativa interna alle disposizioni degli organi comunitari.
In quell’occasione si è stabilito come, per poter ottenere un risarcimento del danno, sia necessario che:
“il risultato prescritto dalla direttiva implichi l’attribuzione di diritti a favore dei singoli”;
“il contenuto di tali direttive possa essere individuato sulla base delle disposizioni della direttiva”;
si verifichi “un nesso di causalità tra violazione dell’obbligo a carico dello stesso e il danno subìto dai soggetti lesi”.
La Corte di Giustizia ha ritenuto che, di fronte alla presenza di queste condizioni, sia configurabile un vero e proprio diritto al risarcimento, che trova fondamento nei principi generali del diritto comunitario, inteso quale insieme di norme dettate al fine di rendere uniformi gli ordinamenti nazionali dei Paesi membri.
Nel caso in esame, i giudici del Lussemburgo, chiamati a risolvere una questione relativa all’applicazione della direttiva 80/987/CEE sulla tutela dei crediti di lavoro nell’ipotesi di insolvenza del datore di lavoro, rilevarono che “il Trattato CEE ha istituito un ordinamento giuridico proprio, integrato negli ordinamenti giuridici degli Stati membri e che si impone ai loro giudici, i cui soggetti sono non soltanto gli Stati membri, ma anche i loro cittadini e che, nello stesso modo in cui impone ai singoli degli obblighi, il diritto comunitario è altresì volto a creare diritti che entrano a far parte del loro patrimonio giuridico”.
Pertanto, è stata riconosciuta a favore dei cittadini europei la titolarità dei diritti nascenti dall’istituzione di un ordinamento comunitario, attribuendo agli stessi lo specifico diritto in base al quale lo Stato di appartenenza deve recepire la normativa comunitaria, dato che “sarebbe inficiata la tutela dei diritti riconosciuti se i singoli non avessero la possibilità di ottenere un risarcimento ove i loro diritti siano lesi da una violazione di diritto comunitario imputabile ad uno Stato membro”.
Sulla base di questi elementi, si deve ritenere che il principio della responsabilità dello Stato membro sia inerente al sistema del Trattato. L’obbligo degli stati membri di risarcire il danno derivante dal mancato adeguamento dell’ordinamento nazionale ai principi comunitari trova la base nell’art. 5 del Trattato, in virtù del quale gli Stati aderenti alla Comunità sono tenuti ad adottare tutte le misure di carattere generale o particolare atte a ad assicurare l’esecuzione degli obblighi derivanti dalla partecipazione alla Comunità 5).
Successivamente, la Corte di Giustizia ha stabilito che i principi indicati dalla sentenza Francovich con riferimento alle direttive dovessero applicarsi anche ad ogni altro atto comunitario che fosse in grado di costituire diritti a favore dei cittadini.
Le sentenze Brasserie du Pecheur e Factortame LTD del 1996 5), utilizzando un paramentro più definito della precedente sentenza Francovich, affermarono la possibilità di vedere uno Stato condannato solo in presenza di una “violazione manifesta e grave”, evidenziando come il “quantum” dovesse essere rapportato in maniera adeguata al danno subito dal cittadino 6).
Le più recenti sentenze Palmisani e Maso del 1997 7) hanno evidenziato come debba essere il giudice nazionale a “far sì che il risarcimento dei danni subìti dai beneficiari sia adeguato”.
La Corte di Giustizia, inoltre, ha ritenuto che l’adeguamento retroattivo da parte del legislatore nazionale possa essere inteso come una forma di risarcimento, con la possibilità di prevedere “un termine di decadenza di un anno a decorrere dalla ricezione nel suo ordinamento interno, purchè tale modalità procedurale non sia meno favorevole di quelle che riguardano ricorsi analoghi di natura interna”. Nel caso di adeguamento retroattivo “regolare e completo”, quindi, il risarcimento dovrà ritenersi sufficiente, a meno che i beneficiari non dimostrino di aver sofferto ulteriori danni a causa del ritardo nell’applicazione della direttiva 8).
Un dato costante è rappresentato dalla mancanza di parametri uniformi per stabilire in che modo si debba quantificare il danno risarcibile: la giurisprudenza della Corte, infatti, non ha chiarito una volta per tutte se siano compresi nel “danno risarcibile” solo i danni diretti ed immediati o anche i danni non prevedibili al momento dell’infrazione, nonché i danni futuri, quelli non patrimoniali, etc. 9)
Pertanto, dev’essere il giudice nazionale ad accertare il danno e a quantificarlo con riferimento al caso concreto.
Con riferimento al caso italiano, si ritiene che la fattispecie della responsabilità civile dello Stato per cattivo esercizio del potere legislativo debba essere modellata sulla base dei principi espressi dall’art. 2043 cod. civ. Pertanto, il giudice nazionale dovrà accertare la presenza degli elementi costitutivi dell’illecito ex art. 2043 cod. civ. (anche se, come rilevato da qualche Autore, in questo tipo di violazione dolo e colpa sono in re ipsa, a prescindere dal concreto elemento psicologico dell’agente) e, solo dopo un accurato esame, sarà in grado di verificare l’effettiva portata del danno, sulla base dei principi nazionali su cui si regge la regola del “neminem laedere”.
Note
cfr.: V. Roppo, La Responsabilità civile dello Stato per violazione del diritto comunitario (con una trasgressione nel campo dell’illecito “costituzionale” del legislatore) in Contratto e Impresa Europa n.1/99, Padova, 1999:”In materia di responsabilità dello Stato legislatore per violazione del diritto comuniutario, lo stato dell’arte risulta determinato in modo decisivo dalla giurisprudenza della Corte del Lussemburgo. Anzi ne risulta determinato in modo che qualche commentatore ha considerato perfino troppo decisivo: i penetranti interventi che la Corte di Giustizia ha svolto in questo campo sono stati additati come emblematici di un eccesso di protagonismi giudiziale, lamentandosi che per tal via la costruzione dell’ordinamento comunitario proceda molto di più by adjudication, che non -come sarebbe fisiologico- by negotiation, by administration e by regulation.”
Per un’esauriente rassegna giurisprudenziale, si consiglia: P. Mengozzi Il Diritto Comunitario e dell’Unione Europea, Padova, 1997.
Corte di Giustizia, sent. 19.11.91, cause riunite C-6/90 e C-9/90.
Corte di Giustizia, sent. 05.03.96, cause riunite C-46/93 e C-48/93.
Tra questi obblighi c’è anche quello di eliminare le conseguenze illecite di una violazione di diritto comunitario.
S. Prechel, Directives in European Community Law, a Study of Directives and their enforcement in national Courts, Oxford, 1995.
Corte di Giustizia, sent. 10.08.97, cause riunite C-261/95 e C-373/95.
cfr.: M. Balboni, Diritto al risarcimento e adeguamento retroattivo alle direttive non (correttamente) attuate, ne “Il Diritto dell’Unione Europea”, n.4/98, Milano, 1998.
Sic V. Roppo, op. citata.
Avv. Andrea Sirotti Gaudenzi
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