La responsabilità dei dipendenti pubblici dopo la L.16/2007 (conversione del D.L.299/2006).

                           Sommario.
 
1. LA RESPONSABILITA’ DEI PUBBLICI FUNZIONARI. DISCIPLINA PRIMA DEL CO. 1343 DELLA L.296/2006, OVVERO  LA “ISOLA FERDINANDEA”.
 
 
2. IL CO. 1343: AVVELENATI I POZZI DELLO SPIRITO  COSTITUZIONALE. L’IMMEDIATA ABROGAZIONE.
 
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1. LA RESPONSABILITA’ DEI PUBBLICI FUNZIONARI.  DISCIPLINA PRIMA DEL CO. 1343 DELLA L.296/2006, OVVERO
     LA “ISOLA FERDINANDEA”.
 
Rientra nella giurisdizione della Corte dei Conti il giudizio sulla responsabilità in materia di contabilità pubblica dei pubblici dipendenti che maneggiano denaro od altri valori dello Stato e di altri Enti pubblici (c.d. responsabilità contabile) ed il giudizio sulla responsabilità per danni arrecata all’erario dai pubblici funzionari, nell’esercizio delle proprie funzioni (c.d. responsabilità amministrativa).
L’approccio ermeneutico di istruttiva giurisprudenza ha chiarito che, in tali fattispecie di  giurisdizione, rientra la responsabilità di tutti coloro che a qualsiasi titolo siano considerati sottoscrittori e/o nominati in rapporti di lavoro subordinato con la P.A. (dirigenti a contratto et similis), ditalchè l’estensione della giurisdizione contabile, intervenuta a seguito delle pronunzie della Corte di Cassazione sulle s.p.a. pubbliche partecipate e sugli enti pubblici economici, va letta proprio sulle orme della              c.d. privatizzazione in atto. Lo schema delle società miste per l’espletamento dei servizi pubblici locali ad esempio, se da un lato è un modello operativo agile, dall’altro avrebbe rischiato di  rappresentare uno strumento per assicurare forme di “dispensa” da responsabilità erariali e da controlli pubblicistici per difetto di giurisdizione della Corte dei Conti.
Segnatamente l’art.2 della Legge 20/1994 (c.d. Legge Ciampi), così come sostituito dalla L.639/1996, ponendo in essere una sostanziale disapplicazione della disciplina di diritto comune, assoggetta l’azionabilità in giudizio del risarcimento del danno di cui supra, al termine di prescrizione quinquennale, decorrente dalla data in cui si è verificato il fatto dannoso, ovvero nel peggior caso dell’occultamento, dalla scoperta del medesimo. Si rammenta che il termine di prescrizione, nel testo originario era decennale; è stata disposta inoltre l’esplicita esclusione della trasmissione agli eredi, salvo caso d’ingiustificato arricchimento. Si tenga presente, infine, la sostanziale imprescrittibilità  prevista dalla precedente legislazione di specie.
 
 
 
2. IL CO. 1343: AVVELENati  I POZZI DELLO SPIRITO       
     COSTITUZIONALE.  l’immediata abrogazione.
 
La legge Finanziaria per il 2007, nel testo originario, prevedeva al comma 1343 una ulteriore modifica del citato articolo 2 della Legge 20/1994: l’inciso riguardante il dies a quo della prescrizione, data in cui si sarebbe verificato il fatto dannoso, era sostituito con la data in cui si sarebbe realizzata la condotta produttiva del danno.
Si manifesta, ictu oculi, difficoltà interpretativa, giacchè, a legislazione vigente,  è solo il danno concreto all’amministrazione pubblica e non il tentativo di danno o altra condotta propedeutica (il c.d. tempus commissi delicti,in diritto penale), che può consentire l’intervento della Corte dei Conti.
Sul piano strettamente giuridico, d’altra parte, per quanto si voglia spingere l’indagine teleologica su di un siffatto correttivo, non è possibile non rinvenire una ratio unicamente “indultiva” dello stesso.
Sul piano redazionale e sistematico deve evidenziarsi la possibilità che l’entità medesima della novella ed i suoi effetti possono prima facie, effettivamente sfuggire. Sul piano etico-solidaristico e costituzionale non siamo in presenza di una illegittimità manifesta, ma un sindacato attento, analitico, con uno sguardo alla prima parte della Costituzione per l’Europa, avrebbe in proposito, indiscutibilmente molto da “declarare”.
In sostanza, come ha affermato autorevolmente il Dr.Lo Russo (Procuratore Generale della Corte dei Conti per la Puglia), si è voluto apportare all’art. 2 della Legge 14/1/1994 n. 20, una modifica in apparenza del tutto innocua, intendendo meramente spostare l’inizio della decorrenza del termine quinquennale di prescrizione dell’azione risarcitoria, esperibile dal Pubblico Ministero della Corte dei Conti, dal momento in cui, per il pubblico erario, si è verificato l’evento dannoso a quello, molto anteriore, della concretizzazione della condotta personale produttiva del fatto illecito. Il reale effetto sarebbe stato quello di cancellare un numero considerevole di procedimenti, ancora in fase istruttoria, in quanto attinenti a danni c.d. “indiretti” che, non essendo ancora certi, attuali e liquidi, non possono nemmeno essere perseguibili. Su tale scorta, tale inciso, opportunamente e sollecitamente abrogato con il susseguente urgente D.L. n.299, potrebbe facilmente rappresentarsi come il risultato di una operazione marginale, ma  invero “vivace”, a voler assicurare ingiustificate aree di sostanziale impunità per i misfatti commessi nella gestione della cosa e del denaro della collettività. Tanto in netto dispregio di quelle regole fondamentali (art. 28 Cost. ex plurimis) che postulano, invece, principi opposti e certamente uguali per tutti.
In buona sostanza, per effetto della suindicata norma, i termini di prescrizione sarebbero stati calcolati, non a partire dal momento in cui si è verificata l’erogazione dei quattrini da parte dell’amministarzione pubblica, ma da quello necessariamente anteriore della deliberazione di un organo collegiale e/o determinazione e/o provvedimento dirigenziale che anticipa la effettiva spesa.
Il 27 dicembre 2006 all’uscita del Consiglio dei Ministri le agenzie di stampa del Bel Paese battono le dichiarazioni di alcuni Ministri della Repubblica che dichiarano che il Consiglio di Palazzo Chigi con un Decreto Legge  abroga ancor prima della sua entrata in vigore il comma 1343 della Finanziaria. “Con un solo rigo è stato riparato un grave errore” –  ha affermato un Ministro noto per le sue capacità ‘inquirenti’ –  “anche se io non credo che si sia trattato di errore, ma di un tentativo truffaldino di indurre in errore le istituzioni, con l’aggravante del ‘nottetempo’" – ha concluso il Ministro riferendosi alla possibilità che la modifica del maxiemendamento sia stata effettuata furtivamente nella notte (sic!).
Il Presidente della Repubblica ha promulgato la Finanziaria e successivamente, non appena approvato dal Governo, ha emanato il D.L. 299. Pertanto la norma abrogata, si legge in una nota del Quirinale, “non è entrata giammai in vigore, evitando in tal modo qualsiasi ipotesi di danno per l’erario”. Il Quirinale ha ulteriormente chiarito poi, che il Presidente della Repubblica ha firmato il Decreto, “contestualmente” alla promulgazione della Finanziaria: dunque “la norma non ha praticato efficacia nemmeno per un solo minuto”,  ha sottolineato  un comunicato ufficiale del Colle.
Ad ogni modo, dal resoconto stenografico della seduta della Camera del 19 febbraio 2007, dal relatore del Disegno d Legge di conversione del citato D.L., si apprende che l’iniziativa del parlamentare che ha presentato l’emendamento era in realtà volta a rivedere la materia della responsabilità amministrativa, rispondendo ad un problema molto sentito, vale a dire quello della lunghezza dei tempi dei giudizi contabili. Tale emendamento, ad onor del vero, risulta essere stato respinto all’unanimità. Tuttavia, come precisato, per “un mero errore” ne è rimasta in Finanziaria solo una piccola parte.
L’inopportuno abrogato emendamento (seppur tale) pone, per questa via, un’altra questione di importanza etica. La materia della responsabilità amministrativa è stata riordinata dalla legge 20/1994, in una stagione di grandi riforme delle autonomie locali e sono state proprio le autonomie locali a richiedere all’epoca, che su una classe di amministratori non gravasse questa scure, con giudizi decennali, interminabili, che proseguivano anche dopo molti anni che l’amministratore non ricopriva più alcun incarico e che addirittura rischiavano di ricadere nella responsabilità degli eredi. Con la legge del 1994 e la novella del 1996 è stata risistemata la materia ma i tempi dei giudizi sono ancora troppo lunghi.                   Questo problema è reale ed increscioso. Da risolvere.
Echi dottrinari, per la verità un pò ingenui, hanno posto il problema dell’applicazione per effetto della norma abrogata, del c.d. principio del  favor rei.
In verità la norma in analisi non ha prodotto affatto effetti giuridici, mai, in nessun momento. Non ha avuto vigenza. Non si può invocare una norma che non ha mai prodotto i suoi effetti. Inoltre è noto che il principio del favor rei è applicabile esplicitamente alla legge penale (art.2 comma 2 c.p.). Se non bastasse, la norma più favorevole, deve avere caratteristiche ben precise, prima fra tutte l’eliminazione di  un elemento della fattispecie.
Bizzarra, forse incostituzionale, ma non del tutto irrilevante sul piano morale è l’iniziativa che ha chiesto all’Esecutivo di riferire al Parlamento entro 60 gg. dall’approvazione della legge di conversione sulle responsabilità penali, personali, inerenti l’inserimento del comma 1343 nella legge Finaziaria per il 2007 ed a rendere noti i nomi dei cittadini italiani che avrebbero beneficiato della norma.
A questo punto è necessario precisare che molto raramente Chi scrive si è spinto a superare un giudizio di mera legittimità su atti e provvedimenti sottoposti a propria analisi ed ancor più rararamente su comportamenti di Legislatori. Mai su “condotte” degli operatori della legislazione medesima. Ciò nonostante e rimanendo, per carità, sul piano strettamente giuridico, deve sfortunatamente evidenziarsi che accadimenti di tal fatta non fanno bene alla società civile, alla necessaria fiducia che lega i consociati sul patto Costitutivo Repubblicano post fascista. L’abuso di diritto (anche potestativo), come categoria generale, diversamente da ordinamenti “più innocenti” come quello elvetico, non è stato mai positivizzato nel nostro ordinamento, ma per un’opzione chiara: ovunque nella disciplina di diritto comune e costituzionale la fiducia, la buona fede, la correttezza, sono clausole generali dell’agere reciproco.  Ciò è tanto più grave quando l’abuso è esercitato da chi riveste cariche pubbliche, collettive, fiduciarie, ergo necessariamente “onorevoli”. Tanto peggio se “non alla luce del sole”.
Se si allunga lo sguardo sulla codificazione giuridica dei valori civili, non può tacersi che il divieto di abuso di diritto è stato esplicitamente codificato nella Costituzione Europea, come categoria generale fondante la leale convivenza umana resa civile (cfr. art.II-114).
Il precipitato logico e pratico di certi contegni personali operati nelle sedi istituzionali è allora, come ha inteso anche il Dr. De Rosa, Procuratore Generale della Corte dei Conti, inesorabilmente l’affievolimento dei sentimenti pregiuridici, etici, persino antropologici del senso di appartenenza alla comunità, del senso dello Stato, del sentimento d’identità Nazionale, dello spirito propulsore, alimentatore della democrazia dei compiti e delle funzioni e non della amministrazione del potere: la lealtà.
Melius re perpensa, grazie al tempestivo, efficace,  puntuale D.L. dei delegati al Governo,  il comma 1343 della L.296 non è entrato in vigore, “non si è verificato il fatto dannoso", ma a causa del ‘mero errore’ di qualcuno "è stata realizzata la condotta produttiva di danno" all’indispensabile affidamento dei cittadini nelle
istituzioni costituzionali. Non deve più accadere.
 

Palumbo Pietro Alessio

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