La responsabilità dei soci per i debiti della società estinta: una questione controversa all’ennesimo vaglio della Suprema Corte

di Maurizio Villani e Lucia Morciano

 

 Premessa 

Il problema della responsabilità per i debiti fiscali delle società cancellate dal registro delle imprese è stato oggetto di due recenti pronunce (Cass.,nn. 2444/2017 e 9094/2017) della Suprema Corte, che è tornata a pronunciarsi sulla questione della trasmissibilità agli ex soci dei debiti tributari della società di capitali estinta.

Giova mettere in evidenza che, relativamente al predetto problema, in tempi relativamente recenti si è consolidato l’orientamento giurisprudenziale che ha sancito la portata estintiva della cancellazione della società dal registro delle imprese per ogni tipologia societaria (società di capitali o di persone), basato sul nuovo art. 2495 c.c., così come modificato dalla riforma del diritto societario del 2004;  tale articolo ha importanti conseguenze di ordine fiscale, perché determina l’impossibilità di fare “rivivere” il soggetto societario anche qualora, successivamente alla cancellazione, sia accertato un debito d’imposta riferibile alla non più sussistente società.

Solo negli ultimi anni, dunque, si è formato un importante filone giurisprudenziale delle Commissioni Tributarie e della Cassazione, sull’argomento oggetto della presente disamina, per quanto attiene sia i profili procedimentali/processuali, sia quelli sostanziali che individuano la responsabilità in capo a soggetti diversi rispetto alla società (soci, liquidatori, amministratori).

Ebbene, per meglio comprendere la questione in esame, sarà fondamentale procedere, da un lato, all’analisi delle modifiche normative che si sono susseguite nel tempo e, dall’altro, agli interventi giurisprudenziali, con particolare riferimento alle due recenti sentenze summenzionate, attraverso le quali  la Suprema Corte, con la sua interpretazione ermeneutica, ha fornito una chiave di lettura per una corretta applicazione normativa.

 La riforma organica della disciplina delle società di capitali di cui al Dlgs n. 6/2003

Fino alla riforma organica della disciplina delle società di capitali e cooperative di cui al D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, era stata unanime la scelta ermeneutica dei giudici di legittimità di ritenere la cancellazione dal registro delle imprese della iscrizione di una società commerciale, di persone o di capitali, mera pubblicità dichiarativa, che non produceva l’estinzione della società stessa, in difetto dell’esaurimento di tutti i rapporti giuridici pendenti facenti capo ad essa; per cui permaneva la legittimazione processuale di essa e il processo già iniziato proseguiva nei confronti o su iniziativa delle persone che già la rappresentavano in giudizio, o dei soci, anche con riferimento alle fasi di impugnazione (v. Cass. 20 ottobre 2003 n. 15691; Cass. 2 agosto 2001 n. 10555; Cass. 1° luglio 2000 n. 8842).

La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 319 del 21 luglio 2000, ha però rilevato come la lettura delle norme sugli effetti della pubblicità della cancellazione delle società, espressione dell’allora diritto vivente, comportasse una chiara disparità di trattamento tra imprese individuali e imprese collettive ai fini della dichiarazione di fallimento, in quanto per l’imprenditore persona fisica la stessa era consentita entro un anno dalla cancellazione, mentre, per le imprese collettive, rimaneva sempre incerto il momento della loro fine o estinzione, da cui far decorrere il termine di un anno entro il quale, ai sensi dell’art. 10 previgente della legge fallimentare (R.D. 16 marzo 1942, n. 267), poteva essere dichiarato il loro stato di insolvenza.

La sentenza della Corte costituzionale deve essere letta in collegamento  con la precedente decisione n. 66 del 12 marzo 1999, che aveva invano sollecitato i giudici di legittimità a dare una interpretazione del sistema normativo di riferimento costituzionalmente orientata, fissando per ogni impresa una data certa, cioè quella della cancellazione dell’iscrizione della società dal registro delle imprese, quale dies a quo di decorrenza del termine annuale per dichiarare il fallimento della citata l. fall., art. 10, oggi sostituito dall’art. 9 della riforma delle procedure concorsuali (D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5). Proprio il permanere dell’interpretazione prevalente di cui sopra ha determinato la Corte Costituzionale a dichiarare illegittimo, perché in contrasto con l’art. 3 cost. e con il principio della certezza dei rapporti giuridici, l’art. 10 sopra citato, “nella parte in cui prevede che il termine di un anno dalla cessazione dell’impresa, entro il quale può intervenire la dichiarazione di fallimento, decorra, per l’impresa collettiva, dalla liquidazione effettiva dei rapporti facenti capo alla società invece che dalla cancellazione della società stessa dal registro delle imprese”.

Recependo le precise indicazioni in termini di certezza  dei rapporti giuridici provenienti dalla Corte Costituzionale, il D.Lgs. n. 6/2003 ha modificato l’art. 2495 c.c., a partire dal 1° gennaio 2004.

Il nuovo art. 2495 c.c. prevede che, una volta approvato il bilancio finale di liquidazione, i liquidatori devono chiedere la cancellazione della società dal registro delle imprese. Ferma restando l’estinzione della società, dopo la cancellazione i creditori sociali non soddisfatti possono far valere i loro crediti nei confronti dei soci, fino alla concorrenza delle somme da questi riscosse in base al bilancio finale di liquidazione, e nei confronti dei liquidatori, se il mancato pagamento è dovuto a colpa di questi.

Pertanto, la cancellazione di una società di capitali dal registro delle imprese, che nel precedente regime normativo si riteneva non valesse a provocare l’estinzione dell’ente, qualora non tutti i rapporti giuridici ad esso facenti capo fossero stati definiti, è ora invece da considerarsi senz’altro produttiva di quell’effetto estintivo: effetto destinato ad operare in coincidenza con la cancellazione, se questa abbia avuto luogo in epoca successiva al 1° gennaio 2004, data di entrata in vigore della citata riforma, o a partire da quella data, se si tratti di cancellazione intervenuta in un momento precedente.

La “nuova” formulazione dell’art. 2495 c.c., risultante dalla riforma del diritto societario (in vigore dal 1/1/2004), ha definito la portata costitutiva della iscrizione nel registro delle imprese della cancellazione della società di capitali, con la conseguenza che, dopo tale momento e salvo ipotesi di “cancellazione della cancellazione”, non è più possibile ritenere esistente il soggetto, né farlo “rivivere”.

Le sentenze delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione del febbraio 2010 (Cass., Sez. Un.,  22 febbraio 2010, nn. 4060, 4061 e 4062) hanno, inoltre, esteso la portata dell’art. 2495 c.c. anche alle società di persone iscritte nel registro delle imprese , ma con una presunzione di estinzione che ne determinerebbe la piena opponibilità ai terzi.

Solo per le società di persone è ammissibile però la prova contraria, consistente non già nella mera esistenza di rapporti non ancora definiti facenti capo alla società, ma nella prosecuzione della attività sociale dopo l’avvenuta cancellazione dal registro: in questo caso è ammissibile la cancellazione della pregressa cancellazione ex art. 2191 c.c.

Per entrambe le tipologie societarie è dunque da ritenersi abbandonato il precedente e consolidato orientamento della Corte di Cassazione che considerava la cancellazione dal registro delle imprese come una “presunzione di estinzione suscettibile di prova contraria”, con la conseguenza che la società non poteva dirsi estinta, nonostante la cancellazione, fino a quando non si realizzasse l’effettiva liquidazione di tutti i rapporti attivi e passivi.

L’art 2495 c.c. non disciplina però le conseguenze della cancellazione sui rapporti della società estinta che non siano stati definiti nella fase della liquidazione, o perché sono stati trascurati, o perché solo in seguito ne è stata scoperta l’esistenza (c.d. sopravvenienze); ciò è stato al centro del dibattito giurisprudenziale della Suprema Corte, culminato con la sentenza n. 9094/2017 di cui tratteremo a breve.

Appare opportuno, a questo punto, esplicare meglio in che modo le tre predette sentenze della Suprema Corte del 2010 hanno inteso disciplinare la sorte dei rapporti non definiti, sul piano sostanziale e processuale e dare contezza dei successivi arresti giurisprudenziale in merito a questa annosa questione.

Le Sezioni Unite nn. 6070, 6071 e 6072 del 2010, sui rapporti non definiti al momento della cancellazione della società dal registro delle imprese

Le sentenze in oggetto analizzano  gli effetti della cancellazione sui debiti e sui crediti della società.

I debiti sociali. La sorte dei debiti sociali è prevista normativamente dall’art. 2495 c.c., il quale prevede che i creditori possono agire nei confronti dei soci della dissolta società di capitali sino alla concorrenza di quanto questi ultimi abbiano riscosso in base al bilancio finale di liquidazione. È prevista, inoltre, anche la possibilità di agire (da intendersi, però, per risarcimento dei danni) nei confronti del liquidatore, se il mancato pagamento del debito sociale è dipeso da colpa di costui.

La norma ha inteso bilanciare i contrapposti interessi delle parti: la società è libera di procedere alla cancellazione in ogni momento, senza che possano essere di ostacolo eventuali rapporti non definiti, mentre  nessun ingiustificato pregiudizio viene arrecato alle ragioni dei creditori,  i quali non vedono estinto il loro credito, ma solo trasferito in capo ai soci, nei limiti della loro responsabilità societaria.

Non può essere di pregiudizio neppure il fatto che i soci rispondono nei limiti di quanto da loro percepito nel bilancio finale di liquidazione. Infatti, se la società è stata cancellata senza distribuzione di attivo, ciò evidentemente vuol dire che vi sarebbe stata comunque incapienza del patrimonio sociale rispetto ai crediti da soddisfare.

 

I crediti.  È possibile che la società che abbia deciso di cancellarsi dal registro avesse uno o più crediti ancora da incassare. In questa circostanza si pongono due problemi: 1) in quali casi la cancellazione volontaria significa anche rinuncia al credito e quando invece il credito sopravvive; 2) in quest’ultimo  caso, a chi si trasferisce il credito?

In merito al primo aspetto le sentenze chiariscono che:

  • la scelta del liquidatore di procedere senz’altro alla cancellazione della società dal registro, senza prima svolgere alcuna attività volta a far accertare il credito o farlo liquidare, può ragionevolmente essere interpretata come un’univoca manifestazione di volontà di rinunciare a quel credito (incerto o comunque illiquido) privilegiando una più rapida conclusione del procedimento estintivo, quando si tratta di mere pretese, ancorché azionate o azionabili in giudizio, cui ancora non corrisponda la possibilità d’individuare con sicurezza nel patrimonio sociale un diritto o un bene definito, onde un tal diritto o un tal bene non avrebbero neppure, perciò, potuto ragionevolmente essere iscritti nell’attivo del bilancio finale di liquidazione. Ad analoghe conclusioni può logicamente pervenirsi nel caso in cui un diritto di credito, oltre che magari controverso, non sia neppure liquido: di modo che solo un’attività ulteriore da parte del liquidatore – per lo più consistente nell’esercizio o nella coltivazione di un’apposita azione giudiziaria – avrebbe potuto condurre a renderlo liquido, in vista del riparto tra i soci dopo il soddisfacimento dei debiti sociali;
  • si deve invece ritenere che il credito sopravviva alla estinzione quando, invece, si tratta di un bene o di un diritto che, se fossero stati conosciuti o comunque non trascurati al tempo della liquidazione, in quel bilancio avrebbero dovuto senz’altro figurare, e che sarebbero perciò stati suscettibili di ripartizione tra i soci;
  • in relazione al trasferimento del credito ancora esistente, si deve invece fare applicazione del meccanismo successorio già applicato per i debiti sociali: così come i soci sono subentrati alla società nei rapporti passivi, analogamente il credito si trasferirà in capo ai soci, nei limiti della loro partecipazione sociale.

Le S.S.UU. del 2010 ritengono che al nuovo art. 2495 c.c. non è attribuibile natura interpretativa (come ritenuto invece da Cass. 25192/2008) della disciplina previgente, in mancanza di un’espressa previsione di legge (attesa l’ordinaria natura dichiarativa delle iscrizioni nel registro delle imprese, evincibile dall’art.2193 c.c.), ma natura innovativa e ultrattiva, valendo solo dalla data di entrata in vigore della novella, non avendo esso efficacia retroattiva e dovendo tutelarsi l’affidamento dei cittadini in ordine agli effetti della cancellazione in rapporto all’epoca in cui essa ha avuto luogo, per le società cancellate in epoca anteriore al 1° gennaio 2004, l’estinzione opera solo a partire dalla predetta data.

Sezioni Unite nn. 7676/2012 e 6070/6071/6072 del 2013: trasferimento della legittimazione sostanziale e processuale della società in capo ai soci ex art.110 c.p.c.

Le Sezioni Unite della Suprema Corte, nonostante abbiano  effettuato un intervento chiarificatore per mezzo delle tre succitate  sentenze (nn. 4060, 4061 e 4062 del 22/2/2010) sul tema della cancellazione delle società dal Rdi, si sono nuovamente pronunciate, con la sentenza n.7676/2012 sulla questione, al fine di meglio chiarire cosa accade nelle ipotesi in cui si determini l’estinzione di una società facente parte di un giudizio tributario.

Precisamente, la giurisprudenza di legittimità ha affermato che “L’estinzione della società a seguito di cancellazione determina, nei processi in corso nei confronti dell’ente, l’applicazione delle regole generali dettate dagli artt. 299 e seguenti cod. proc. civ., poiché essa costituisce vicenda equiparabile alla morte della parte persona fisica. Ne consegue che, per difetto assoluto della “giusta parte” processuale, è inammissibile l’impugnazione proposta nei confronti di una società di capitali cancellata dal registro delle imprese nelle more del processo ( e ciò indipendentemente dalla consapevolezza che dell’evento-morte abbia l’impugnante). Il liquidatore di una società estinta per cancellazione dal registro delle imprese può ben essere destinatario di una autonoma azione risarcitoria, ma non della pretesa attinente al debito sociale, onde è inammissibile l’impugnazione proposta nei confronti del medesimo con riguardo alla sentenza relativa a quel debito, atteso che la posizione del liquidatore non è quella di successore processuale dell’ente estinto. Il socio di una società di capitali, estinta per cancellazione dal registro delle imprese, succede a questa nel processo a norma dell’art. 110 cod. proc. civ. – che prefigura un successore

universale ogni qualvolta viene meno una parte – solo se abbia riscosso somme in base al bilancio finale di liquidazione, secondo quanto dispone l’art. 2495, secondo comma, cod. civ.: tale vicenda, infatti, non costituisce soltanto il limite di responsabilità del socio quanto al debito sociale, ma anche la condizione per la di lui successione nel processo già instaurato contro la società, posto che egli non è successore di questa in quanto tale, ma lo diventa nella specifica ipotesi, disciplinata dalla legge, di riscossione della quota. La prova di tale circostanza è a carico delle altre parti ed integra la stessa condizione dell’interesse ad agire, che richiede non solo l’accertamento di una situazione giuridica, ma anche la prospettazione della possibilità di ottenere un risultato utile, non essendo il processo utilizzabile in previsione di esigenze soltanto astratte”.

In definitiva, secondo la Suprema Corte, nelle ipotesi di giudizi tributari in corso al momento della cancellazione della società dal Registro dell’imprese, si determina:

  • un automatico trasferimento della legittimazione sostanziale e processuale della società in capo ai soci ex art.110 c.p.c.;
  • l’applicazione delle disposizioni di cui all’art. 299 e ss. c.p.c..

Tale tesi è stata confermata dal Supremo Consesso nelle sentenze pronunciate a Sezioni Unite, le nn. 6070/6071/6072 del 2013, che, pronunciandosi in ambito civile, ha ribadito che i soci succedono nei contenziosi e nei rapporti debitori della società, nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione o illimitatamente, a seconda che, durante la vita sociale, essi fossero limitatamente o illimitatamente responsabili per i debiti sociali (cfr. in tal senso anche le sentenze nn. 396 e 390 del 05.02.2016).

Pertanto,  le Sezioni Unite nel 2013, esprimendosi in merito al  fenomeno successorio sui generis conseguente alla cancellazione volontaria della società dal Registro delle Imprese hanno affermato:

1)“La cancellazione – volontaria – della società dal registro delle imprese, a partire dal momento in cui si verifica l’estinzione della società cancellata, priva la società stessa della capacità di stare in giudizio (con la sola eccezione della “fictio iuris” contemplata dall’art. 10 legge fall”;

2) “qualora l’estinzione intervenga nella pendenza di un giudizio del quale la società è parte, si determina un evento interruttivo, disciplinato dagli artt. 299 e ss. cod. proc. civ., con eventuale prosecuzione o riassunzione da parte o nei confronti dei soci, successori della società, ai sensi dell’art. 110 cod. proc. civ.; qualora l’evento non sia stato fatto constare nei modi di legge o si sia verificato quando farlo constare in tali modi non sarebbe più stato possibile, l’impugnazione della sentenza, pronunciata nei riguardi della società, deve provenire o essere indirizzata, a pena d’inammissibilità, dai soci o nei confronti dei soci, atteso che la stabilizzazione processuale di un soggetto estinto non può eccedere il grado di giudizio nel quale l’evento estintivo è occorso.

In sostanza, a seguito dell’estinzione della società, conseguente alla cancellazione dal registro delle imprese (e la disposizione non può, secondo la Corte, non essere estesa anche alle società di persone, determinandosi, dall’entrata in vigore della Novella del 2003, l’estinzione della società di

capitali e la presunzione di estinzione della società di persone, salva prova contraria), viene a determinarsi un fenomeno di tipo successorio, in forza del quale i rapporti obbligatori facenti capo all’ente non si estinguono – il che sacrificherebbe ingiustamente i diritto dei creditori sociali – ma si trasferiscono ai soci, i quali, quanto ai debiti sociali, ne rispondono nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione o illimitatamente, a seconda del regime giuridico dei debiti sociali cui erano soggetti pendente societate, mentre, quanto alle sopravvenienze attive, si determina un acquisto in comunione tra i soci dei diritti e beni non compresi nel bilancio finale di liquidazione, escluse le mere pretese e le ragioni creditorie incerte, la cui mancata liquidazione manifesta rinuncia.

Le Sezioni Unite, in ultimo, quanto agli effetti processuali, confermano il principio che la cancellazione della società dal Registro delle Imprese, a partire dal momento in cui si verifica l’estinzione della società cancellata, priva la società stessa della capacità di stare in giudizio (ad eccezione della fictio iuris contemplata dall’art. 10 L.F.), non potendo la società validamente intraprendere una causa, né esservi convenuta. Ove l’estinzione si verifichi nella pendenza di un giudizio del quale la società è parte, si determina un evento interruttivo, disciplinato dall’art. 299 c.p.c. e ss., con eventuale prosecuzione o riassunzione da parte o nei confronti dei soci, successori della società (fenomeno successorio “sui generis”, stante il regime di responsabilità dei soci per i debiti sociali, nelle differenti tipologie di società), ai sensi dell’art.110 cp.c. (disposizione contemplante il subentro nel processo del successore universale, idonea a ricomprendere qualsiasi causa – “per morte o per altra causa” – per la quale la parte venga meno), pur se estranei ai precedenti gradi di giudizio. Qualora l’evento non sia fatto constare nei modi di legge o si sia verificato quando non sarebbe stato più possibile farlo constare in tali modi, e quindi quando, essendosi il precedente grado di giudizio svolto senza interruzione, il problema della sopravvenuta cancellazione si ponga nel passaggio al grado successivo, l’impugnazione della sentenza, pronunciata nei riguardi della società, deve provenire o essere indirizzata, a pena di inammissibilità, dai soci o nei confronti dei soci, atteso che la stabilizzazione processuale di un soggetto estinto (vale a dire la, eccezionale, prosecuzione del processo, pur quando sia venuta meno la parte, se l’evento interruttivo non sia fatto constare nei modi di legge, a causa dell’esigenza di stabilità del processo) non può eccedere il grado di giudizio nel quale l’evento estintivo è occorso, cosicché il giudizio di impugnazione deve essere sempre promosso, a pena di inammissibilità, da e contro i soggetti effettivamente legittimati ovvero della “giusta parte”, essendosi in presenza di un giudizio che, per l’inesistenza di uno dei soggetti del rapporto processuale che si vorrebbe instaurare, si rivela strutturalmente inidoneo a realizzare il suo scopo.

Secondo la sentenza, l’onere in tal modo richiesto alla parte, che intenda dare inizio a un nuovo grado di giudizio, non è troppo gravoso, implicando i medesimi accertamenti circa la condizione soggettiva della controparte, normalmente richiesti al momento della introduzione di una lite; invero, l’evento estintivo in esame era la cancellazione della società dal registro delle imprese, oggetto di pubblicità legale, che impone di ritenere che i terzi ne siano conoscenza.

In particolare, ex art. 299 c.p.c., se l’estinzione della società avviene prima della costituzione in cancelleria o all’udienza davanti al giudice istruttore il processo è interrotto, salvo che coloro ai quali spetta di proseguirlo si costituiscano volontariamente, oppure l’altra parte provveda a citarli in riassunzione.

Se invece l’estinzione avviene quando la società è già stata dichiarata contumace, ex art. 300, comma 4, c.p.c. il processo è interrotto dal momento in cui il fatto interruttivo è documentato dalla controparte, ovvero è certificato dall’ufficiale giudiziario nella relazione di notificazione di uno dei provvedimenti di cui all’art 292 c.p.c.

Infine, se la cancellazione avviene quando la società è già costituita, ex art. 300, commi 1 e 2, c.p.c., il suo procuratore può farne la relativa dichiarazione in udienza. In questo caso, il processo è interrotto e può proseguire attraverso la costituzione volontaria dei soci o la riassunzione ad opera della controparte.

In tali circostanze, ove la riassunzione avvenga entro un anno dalla cancellazione della società, la notifica può essere effettuata presso l’ultima sede della società, in analogia con quanto disposto dall’art. 2495 c.c.

I soci, successori della società, subentrano nella legittimazione processuale in situazione di litisconsorzio necessario per ragioni processuali, ovverosia a prescindere dalla scindibilità o meno del rapporto sostanziale, con la conseguenza che, ove la prosecuzione sia effettuata solo da alcuni soci o la riassunzione sia stata eseguita solo nei confronti di alcuni soci, il giudice deve disporre l’integrazione del contraddittorio, con consequenziale applicazione dell’art. 307 c.p.c. in caso di mancata osservanza dell’ordine (sul punto v. Cass. 6 novembre 2013, n. 24055).

Quid iuris nel caso in cui sia avvenuta la cancellazione della società, ma il processo non sia stato interrotto?

Ciò può accadere o perché in precedenza siano mancate la dichiarazione dell’evento estintivo (o il suo accertamento in una delle altre forme prescritte dai citati art. 299 e segg.), oppure perché quell’evento si è verificato quando ormai, nel grado precedente, non sarebbe più stato possibile farlo constare, ovvero ancora perché l’estinzione è sopravvenuta dopo la pronuncia della sentenza che ha concluso il grado precedente di giudizio e durante la pendenza del termine d’impugnazione.

Si è visto che il processo può proseguire regolarmente e la relativa decisione farà stato nei confronti di tutti i soci.

In questo caso, però, alcuni problemi si pongono nel passaggio al grado successivo.

La nuova ricostruzione sistematica delle Sezioni Unite (n. 15295/2014 ) dell’evento estintivo-interruttivo che colpisce la parte nel processo. La teoria dell’ultrattività del mandato

Le Sezioni Unite , con sentenza n.15295/2014, riesaminati i diversi orientamenti giurisprudenziali succedutisi nel tempo (oscillanti tra gli antipodi dell’ultrattività del mandato e dell’inammissibilità dell’impugnazione) e mediando tra le contrapposte esigenze di tutela (della “giusta parte” o di chi abbia incolpevolmente ignorato l’evento), hanno successivamente enunciato il seguente principio di diritto: “L’incidenza sul processo degli eventi previsti nell’art. 299 c.p.c., (morte o perdita di capacità della parte) è disciplinata, in ipotesi di costituzione in giudizio a mezzo di difensore, dalla regola dell’ultrattività del mandato alla lite, in ragione della quale, nel caso in cui l’evento non sia dichiarato o notificato nei modi e nei tempi di cui all’art. 300 c.p.c. – il difensore continua a rappresentare la parte come se l’evento non si sia verificato, risultando così stabilizzata la posizione giuridica della parte rappresentata (rispetto alle altre parti ed al giudice) nella fase attiva del rapporto processuale e nelle successive fasi di quiescenza e riattivazione del rapporto a seguito della proposizione dell’impugnazione. Tale posizione giuridica è suscettibile di modificazione nell’ipotesi in cui, nella successiva fase d’impugnazione, si costituiscano gli eredi della parte defunta o il rappresentante legale della parte divenuta incapace, oppure se il procuratore di tale parte, originariamente munito di procura alla lite valida anche per gli ulteriori gradi del processo, dichiari in udienza o notifichi alle altri parti l’evento verificatosi, o se, rimasta la medesima parte contumace, l’evento sia documentato dall’altra parte (come previsto dalla novella di cui alla L. n. 69 del 2009, art. 46), o notificato o certificato dall’ufficiale giudiziario ai sensi dell’art. 300 c.p.c., comma 4. Ne deriva che: a) la notificazione della sentenza fatta a detto procuratore, a norma dell’art. 285 c.p.c., è idonea a far decorrere il termine per l’impugnazione nei confronti della parte deceduta o del rappresentante legale della parte divenuta incapace; b) detto procuratore, qualora gli sia originariamente conferita procura alla lite valida anche per gli ulteriori gradi del processo, è legittimato a proporre impugnazione (ad eccezione del ricorso per

cassazione per la proposizione del quale è richiesta la procura speciale, cosicché il procuratore costituito per i giudizi di merito può solo ricevere la notifica della sentenza o dell’atto di impugnazione per cassazione, ma non può né validamente notificare la sentenza né resistere con controricorso né tantomeno proporre ricorso in via principale o incidentale) in rappresentanza della parte che, pur deceduta o divenuta incapace, va considerata nell’ambito del processo ancora in vita e capace; c) è ammissibile l’atto di impugnazione notificato, ai sensi dell’art. 330 c.p.c., comma 1, presso il procuratore, alla parte deceduta o divenuta incapace, pur se la parte notificante abbia avuto diversamente conoscenza dell’evento“. (conf. Cass.S.U. 20447/2014 e Cass. nn. 19887 e 26495 del 2014).

In estrema sintesi, le Sezioni Unite ancorano, ai fini dell’incidenza sul processo degli eventi interruttivi di cui all’art.299 c.p.c., al principio di ultrattività del mandato alla lite l’effetto di stabilizzazione della posizione giuridica di una società estinta, che solo grazie ad una fictio iuris viene considerata come ancora esistente rispetto alle altre parti ed al giudice; l’ultrattività della procura alla lite comporta, quindi, che il procuratore costituito continui a rappresentare la parte, la quale per il suo tramite viene perciò considerata esistente e capace.

La giurisprudenza, in un primo momento, riteneva che l’esigenza di stabilità del processo, che eccezionalmente ne consente la prosecuzione pur quando sia venuta meno la parte, se l’evento interruttivo non sia stato fatto constare nel modi di legge, debba considerarsi limitata al grado di giudizio in cui quell’evento è occorso, in difetto di indicazioni normative univoche che ne consentano una più ampia esplicazione. Con la conseguenza, si affermava, che il giudizio d’impugnazione deve sempre esser promosso da e contro i soggetti effettivamente legittimati, ovvero, come anche si usa dire, della “giusta parte” (si vedano, tra le altre, Cass. 3 agosto 2012, n. 14106; Cass. 8 febbraio 2012, n. 1760; Cass. 13 maggio 2011, n. 10649; Cass. 7 gennaio 2011, n. 259; Cass., Sez. Un., 18 giugno 2010, n. 14699; Cass. 8 giugno 2007, n. 13395; Cass., Sez. Un. 28 luglio 2005, n. 15783). Ora, invece, Cass., Sez. Un., n. 19887 del 22 settembre 2014, andando in senso opposto, ha affermato che “l’incidenza sul processo degli eventi previsti nell’art. 299 c.p.c., è disciplinata, in ipotesi di costituzione in giudizio a mezzo di difensore, dalla regola dell’ultrattività del mandato alla lite, in ragione della quale, nel caso in cui l’evento non sia dichiarato o notificato nei modi e nei tempi di cui all’art. 300 c.p.c., il difensore continua a rappresentare la parte come se l’evento non si sia verificato, risultando così stabilizzata la posizione giuridica della parte rappresentata (rispetto alle altre parti ed al giudice) nella fase attiva del rapporto processuale e nelle successive fasi di quiescenza e riattivazione del rapporto a seguito della proposizione dell’impugnazione”. Ne consegue che l’atto di appello o il ricorso per cassazione possono essere notificati al difensore della società costituita, anche ove la società sia stata cancellata dal registro delle imprese ma tale evento interruttivo non sia stato dichiarato nelle forme di legge.

E’ stato, dunque, temperato il rigore del principio di diritto espresso, quanto agli effetti processuali dalla sentenza n. 6070/2013 delle Sezioni Unite, secondo la quale, anche qualora l’evento non fosse stato fatto constare nei modi di legge o si fosse verificato quando non era più possibile farlo constare, nel corso del processo, l’impugnazione della sentenza, pronunciata nei riguardi della società cancellata, deve provenire o essere indirizzata, a pena di inammissibilità, dai soci o nei confronti dei soci, non potendo “la stabilizzazione processuale di un soggetto estinto eccedere il grado di giudizio nel quale l’evento estintivo è occorso”.

La pronuncia (Cass. 23141/2014 ; vedi anche in tal senso Cass.n. 15762/2016) che ha “capovolto il principio, per cui l’esigenza di stabilità del processo debba intendersi limitata al grado di giudizio in cui l’evento interruttivo è occorso, per sancire l’opposta regola dell’ultrattività del mandato”, è stata ritenuta di portata generale, in quanto originata proprio da un’ordinanza di rimessione che aveva evidenziato le problematiche conseguenti alla estensibilità alle vicende successorie delle persone fisiche dei principi affermati dalle S.U. nella sentenza n. 6070/2013, espressamente in materia societaria, e comportanti la drastica sanzione dell’inammissibilità dell’impugnazione.

Cancellazione dal registro delle imprese ed estinzione della società: conseguenze per la legittimità degli atti impositivi (art. 36 D.P.R.n.602/73 e le novità introdotte dal Dlgs n.175/2014) 

L’evoluzione giuridica che ha interessato il diritto delle società ha profonde ripercussioni dal punto di vista tributario in quanto, con la cancellazione dal registro delle imprese, viene meno il principale soggetto passivo (il contribuente in senso proprio) dell’obbligazione tributaria.

Ebbene, come si è avuto modo di chiarire, stante le pronunce a Sezioni Unite del 2010 e 2013, gli atti impositivi riferiti ad una società estinta dovranno ritenersi giuridicamente inesistenti, per via dell’efficacia costitutiva della cancellazione della società dal Registro delle imprese.

L’Amministrazione finanziaria non può, come invece faceva nel sistema previgente, intestare e notificare gli atti impositivi (relativamente ai debiti fiscali non assolti dalla società) alla stessa società, nella persona dell’ex liquidatore o dell’ex amministratore.

Se, nel sistema previgente, la notifica di tale atto impositivo era sufficiente a determinare l’effetto della non avvenuta estinzione della società, perché in questo modo si dava evidenza di un rapporto non estinto, tale “reviviscenza” della società oggi non è più configurabile, proprio considerando la portata costitutiva (e non dichiarativa) della cancellazione dal registro delle imprese.

Sulla corretta strategia processuale da adottare si è tuttavia pronunciata nel 2013 la Corte di Cassazione, che ha riconosciuto la rilevanza giuridica dell’interesse dell’ex liquidatore a promuovere un giudizio in ordine ad un provvedimento astrattamente pregiudizievole come l’atto impositivo intestato alla società estinta.

Si tratta di garantire un elementare interesse di certezza giuridica e, in particolare, secondo la Corte, il principio costituzionale del diritto di difesa.

Sulla base di queste motivazioni, dunque, la Corte ha ritenuto superabile il difetto di rappresentanza dell’ex liquidatore (che a livello teorico dovrebbe portare a ritenere inammissibile il ricorso dal medesimo presentato) ma solo per consentire a costui di rilevare e far dichiarare dal giudice la illegittimità dell’atto impositivo, conseguente alla estinzione della società.

Secondo la Corte, l’ex liquidatore potrebbe proporre ricorso “unicamente per la rilevabilità ex officio della nullità della cartella di pagamento” e non invece per altri motivi di ordine sostanziale (ma anche, è da ritenersi, formale se differenti da quella della inesistenza per carenza del soggetto).

L’art. 2495 c.c. prevede che, ferma restando l’estinzione della società di capitali dopo la cancellazione, i creditori sociali non soddisfatti possono far valere i loro crediti nei confronti dei soci, fino a concorrenza delle somme da questi riscosse in base al bilancio finale di liquidazione.

Anche l’art. 2312 c.c. contiene la regola della responsabilità dei soci delle società di persone cancellate ma, coerentemente con la natura della partecipazione in tale compagine societaria, senza alcuna limitazione di responsabilità.

Inoltre, con specifico riferimento all’Ires non assolta dalle società di capitali, l’art. 36, comma terzo, Dpr. 602/73 dispone che i soci siano responsabili dell’imposta dovuta dalla società se e nel limite in cui abbiano ricevuto denaro e altri beni sociali, nel corso degli ultimi due periodi di imposta precedenti alla messa in liquidazione o nel periodo della liquidazione.

La regola sostanziale della responsabilità di cui all’art. 36, comma 3, appare in buona parte analoga a quella dell’art. 2495 c.c., differenziandosi in particolare per il fatto che la norma fiscale amplia il periodo temporale di riferimento per valutare se il socio abbia goduto della distribuzione di somme o beni societari.

  1. A) La prima questione da porsi, riguarda il titolo in base al quale gli ex soci sono chiamati a rispondere per le obbligazioni tributarie della società estinta.

Sul punto, secondo la giurisprudenza della Corte di Cassazione (Cass., Sez. VI, 28 settembre 2016, n. 19142), alla cancellazione della società di capitali dal registro delle imprese consegue: a) la definitiva estinzione dell’ente; b) l’insorgenza di una comunione fra i soci in ordine ai beni residuati dalla liquidazione (qualora non fosse stato ripartito l’intero attivo nella fase liquidatoria); c) la successione, in termini giuridici, degli ex soci nei debiti della società, nei limiti ed alle condizioni previste dalla legge, ossia dall’art. 2495 c.c.

La prospettazione di una successione dei soci nella posizione giuridica della società, affermata dall’Amministrazione finanziaria, corrisponde alla tesi attualmente prevalente nella dottrina civilistica, secondo cui i rapporti giuridici attivi e passivi non risolti al momento della estinzione della società entrino nella sfera giuridica del socio non a titolo originario, bensì per l’operare di un meccanismo di tipo “derivativo-successorio”.

  1. B) In secondo luogo, occorre domandarsi quali siano le conseguenze procedimentali e processuali della responsabilità dell’ex socio.

Ragionando in termini di successione, l’ex socio, sarà tenuto a rispondere non solo delle obbligazioni tributarie già definitivamente accertate, ma anche delle imposte non ancora definite rispetto alle quali il procedimento di accertamento non si è ancora concluso (o neppure è stato avviato) al momento della estinzione della società e che rappresentano, a ben vedere, “sopravvenienze passive” in senso proprio.

In questa prospettiva, possono verificarsi due situazioni: la prima, in cui il socio subentra (perché l’effetto estintivo della società si verifica) dopo che il debito di imposta è stato definitivamente accertato (per esempio a seguito di un accertamento divenuto definitivo). In questo caso, la successione si attua con riferimento ad una obbligazione di imposta già determinata (certa ed esigibile), anche se l’Amministrazione finanziaria dovrà poi formare il titolo esecutivo a carico dell’ex socio.

La seconda, in cui il socio subentra (perché l’effetto estintivo della società si verifica) prima della compiuta definizione del debito di imposta, perché, per esempio, ancora non è stato emanato l’avviso di accertamento. In questo caso, la successione si attua con riferimento al presupposto di imposta, con la conseguenza che l’Amministrazione finanziaria dovrà intestare e notificare tutti gli atti direttamente all’ex socio, nei termini di decadenza previsti dalla legge tributaria.

In termini processuali, tale rapporto di successione universale tra società e socio motiva, secondo la Corte di Cassazione, l’applicazione dell’art. 110 c.p.c., secondo cui, quando la parte viene meno “per morte o per altra causa il processo è proseguito dal successore universale o in suo confronto” (S.U. nn. 6070/6071/6072 del 2013).

L’equiparazione, a questi fini possibile, tra morte della persona fisica ed estinzione della società, condurrebbe anche alla interruzione del processo, con applicazione degli artt. 299 ss. c.p.c. e possibile riassunzione ex art. 303, comma 2, c.p.c.

  1. C) In terzo luogo, occorre chiarire quali siano i rapporti tra art. 2495 c.c. e art. 36, Dpr n. 602/73.

Orbene, mentre l’art. 36 pare avere una portata speciale, riferendosi solo all’Ires non assolta, per quanto attiene gli altri tributi (Iva, imposte di registro, Irap, ecc.) risulta applicabile la disposizione di carattere generale di cui all’art. 2495 c.c.

A parte le differenze di ordine sostanziale, rispetto all’ applicazione delle due disposizioni (per quanto attiene al periodo di tempo da tenere in considerazione per determinare il quantum assegnato al socio), dal punto di vista procedimentale occorre considerare che l’art. 36 Dpr. n. 602/73 obbliga l’Amministrazione finanziaria a rispettare una precisa disciplina procedimentale e, in particolare, ad emanare un avviso di accertamento al socio, che quest’ultimo potrà allora contestare giudizialmente, per quanto attiene alla sussistenza sia del debito di imposta, sia degli specifici presupposti a lui riferibili.

La disposizione non prevede una solidarietà tra i soci della società di capitali; tuttavia, è da ritenere che il Fisco non sia vincolato a ripartire in parti uguali il debito fiscale ed in questi limiti attivare le singole responsabilità.

Consegue, infatti, alla lettera ed alla ratio della norma fiscale (oltre che dell’art. 2495 c.c.) che, nel limite rappresentato dalle assegnazioni, l’Amministrazione fiscale possa soddisfare anche l’intero debito nei confronti di uno dei soci, che avrà azione di regresso nei confronti degli altri.

A questo punto, giova rilevare che proprio in questo quadro normativo e interpretativo(certamente favorevole al contribuente), si è inserito l’art. 28 c.4 del D.Lgs. n.175/2014(c.d. “decreto semplificazioni fiscali”)

Invero, il legislatore con il suddetto decreto ha stabilito che, “ai soli fini della validità e dell’efficacia degli atti di liquidazione, accertamento, contenzioso e riscossione dei tributi e contributi, sanzioni e interessi,l’estinzione della società di cui all’art. 2495 del codice civile ha effetto trascorsi cinque anni dalla richiesta di cancellazione dal Registro delle imprese”.

Di fatto, è stato previsto che la società, cancellata dal Rdi e, quindi, estinta alla stregua della nuova formulazione di cui all’art. 2495 c.c., comunque possa rimanere in vita nei cinque anni successivi alla cancellazione, con riferimento limitato alle sole ipotesi in cui il Fisco debba effettuare l’attività d’accertamento.

L’Amministrazione finanziaria, nei cinque anni successivi alla cancellazione, potrà, dunque, notificare atti di accertamento e relative cartelle di pagamento, chiamando, altresì, a rispondere del mancato versamento di imposte e tributi e quindi dei rapporti pendenti (o comunque non definiti al momento in cui la società perde la propria soggettività giuridica e, conseguentemente, la definizione di ogni diritto e dovere nei confronti delle terze parti) i soci, gli amministratori e i liquidatori.

Sembrerebbe, dunque, che mentre per tutti gli altri creditori l’estinzione si abbia contestualmente alla cancellazione, per l’Erario si cristallizzerebbe, invece, in un inspiegabile intervallo temporale molto più lungo.

Giova a questo punto precisare l’art. 28 del decreto “Semplificazioni fiscali” non si è solo limitato a disciplinare gli effetti fiscali e contributivi dell’estinzione delle società, ma è anche intervenuto modificando l’art. 36 del DPR n. 602/73 (disciplinante la responsabilità fiscale dei liquidatori, dei soci e degli amministratori, in senso, peraltro, favorevole all’Amministrazione finanziaria.

Invero, l’art. 28 co.5 del suddetto d.lgs prevede che: I liquidatori   (…) che   non  adempiono all’obbligo di pagare, con le attività della liquidazione, le imposte dovute per il periodo della liquidazione  medesima  e  per quelli anteriori rispondono in proprio del pagamento delle imposte se non provano di aver soddisfatto i crediti tributari  anteriormente all’assegnazione di  beni  ai  soci  o  associati,  ovvero  di  avere soddisfatto crediti di ordine  superiore  a  quelli  tributariTale responsabilità è commisurata all’importo dei crediti d’imposta che avrebbero trovato capienza in sede di graduazione dei crediti”.

Ebbene, stante le modifiche de quo, è stata prevista la responsabilità personale dei liquidatori, nel caso in cui, salvo prova contraria, abbiamo distribuito somme ai soci ( in violazione dell’obbligo di rispettare il grado di privilegio de crediti) relative all’anno di liquidazione oppure ad anni precedenti o abbiano soddisfatto preliminarmente crediti di rango inferiore rispetto a quelli tributari.

In sostanza, è stato sancito che, laddove i liquidatori non dovessero dimostrare di aver assolto tutti gli oneri tributari (a nulla rilevando l’intervenuta estinzione della società), essi stessi saranno tenuti a rispondere in proprio del versamento dei tributi dovuti dalla società estinta, nei limiti dei crediti erariali che avrebbero trovato capienza in sede di graduazione dei crediti.

Occorre, però, chiarire che, nel caso di specie, la novella non ha riguardato tanto la responsabilità personale e patrimoniale dei liquidatori (già prevista, in modo pressoché identico, nella versione previgente dell’art. 36 del DPR 602/73), bensì l’inversione dell’onere della prova: infatti, mentre prima era l’Ufficio Fiscale a dover provare che i liquidatori non avessero adempiuto all’obbligo del soddisfacimento privilegiato dei crediti tributari, ora spetterà ai liquidatori (al fine di evitare il pagamento di debiti di imposta conclamatisi e divenuti certi ed esigibili successivamente alla cancellazione) fornire tale prova (ovviamente contraria) dimostrando, appunto, di aver gestito la fase di liquidazione secondo legge e di non aver né assegnato beni ai soci, né soddisfatto crediti di rango inferiore rispetto a quelli tributari prima di aver onorato questi ultimi.

Per quanto ci consta, si può pacificamente ritenere che è la prima volta che si introduce, nel sistema tributario, una vera e propria presunzione di colpevolezza!

I soci rispondo per il pagamento delle imposte se, “ nel corso degli ultimi due periodi d’imposta precedenti alla messa in liquidazione” abbiano ricevuto “danaro o altri beni sociali in assegnazione” dagli amministratori o abbiano avuto in assegnazione “beni sociali” dai liquidatori “durante il tempo della liquidazione”.

Tale responsabilità si estende, però, anche agli amministratori laddove abbiano compiuto nel corso degli ultimi due periodi di imposta precedenti alla messa in liquidazione operazioni di liquidazione, ovvero abbiano occultato attività sociali anche mediante omissioni nelle scritture contabili.

Ciò posto, è bene rilevare che, per poter chiedere il pagamento dei debiti erariali della società direttamente ai soggetti fiscalmente responsabili, è necessario, però, che venga emesso nei loro confronti un provvedimento motivato e contenente le ragioni di tale trasferimento di responsabilità dalla società ai suoi soci ed amministratori. Invero, trattandosi, di un credito non tributario, bensì civilistico (poiché fondato sul presupposto della mera responsabilità gravante in capo agli amministratori e ai liquidatori), sarà necessario che l’AF proceda notificando un atto motivato direttamente a quest’ultimi, in modo che siano messi nelle condizioni di impugnarlo secondo le disposizioni del processo tributario.

La responsabilità per il pagamento delle imposte potrà trasmigrare, pertanto, solo a condizione che vi sia un provvedimento motivato con cui si evidenzino le ragioni di tale passaggio. Ciò, è quanto stabilito dalla Suprema Corte di Cassazione, con l’ord. n. 8701/2014.

In definitiva, il legislatore, con l’art. 28, c. 5, D.Lgs. n. 175/2014, ha inequivocabilmente rafforzato la tutela del credito tributario, nei confronti del liquidatore e dei soci.

È evidente, infatti, come da un lato, in tema di responsabilità dei liquidatori, sia stato modificato il regime dell’onere della prova, ponendolo a carico di quest’ultimo e, dall’altro, sia stato introdotto, a favore dell’Ente impositore, la presunzione (salvo prova contraria) di proporzionalità del valore del denaro e dei beni sociali ricevuti in assegnazione alla quota di capitale detenuta dal socio o associato.

Attraverso l’istituto della responsabilità speciale dei liquidatori, amministratori e soci, il c. 5 ha, dunque, confermato e rafforzato le tutele dei creditori contenute nell’art. 36 del D.P.R. n. 602/73.

In definitiva, è evidente come l’art. 28 del D.Lgs. n. 175/2014, abbia posto in essere un cambiamento normativo notevole: il legislatore, senza operare alcuna modifica alle norme del Codice Civile, ha di fatto consentito alla sola A.F. di continuare, nei 5 anni successivi alla cancellazione della società dal Rdi, ad effettuare la propria attività accertatitva, chiamando a responsabilità amministratori, soci e liquidatori e determinando così, solo nei loro confronti, l’eventuale inefficacia dell’estinzione della società.

Con la norma in oggetto si è, dunque, determinato un vero e proprio doppio binario per le società: da un lato, considerate estinte per il diritto civile mentre, dall’altro, perfettamente operative per quanto riguarda tributi e contributi, non solo in relazione all’accertamento, ma anche per quanto concerne il contenzioso dinanzi alle Commissioni Tributarie.

Società estinta: legittimazione dei soci anche senza attivo di liquidazione: revirement della Suprema Corte ( Cass. nn.9094/2017 e 15035/2017).

L’estinzione di una società di capitali nel corso del giudizio continua a essere  al centro del dibattito della giurisprudenza di legittimità.

La Suprema Corte, in una recente sentenza, la n. 15035 del 16/06/2017, ha statuito che il subentro degli ex soci nei rapporti debitori della società estinta è sempre ammesso, ai fini della continuazione del processo. Il principio è chiarito dalla Corte di Cassazione, secondo la quale la legittimazione ad agire dei predetti non è inficiata dalla percezione o meno dell’attivo di liquidazione. Diversamente, questo aspetto rappresenta il limite della responsabilità dei soci e potrebbe riflettersi sull’interesse ad agire dei creditori e sulla responsabilità .

E’ opportuno, per poter meglio comprendere le ragioni che hanno portato la Suprema Corte a tale decisione, esporre il caso oggetto di contenzioso.

Nel corso di una controversia con il Fisco, avente ad oggetto avvisi di accertamento emessi per il recupero, a fini Irpef, Ipreg, Irap e Iva, di ricavi non dichiarati, la società veniva cancellata dal registro delle imprese. L’ex socio della società estinta impugnava per Cassazione la sentenza con cui la CTR aveva confermato gli accertamenti; l’Agenzia delle Entrate, con controricorso, eccepiva l’inammissibilità del ricorso per carenza di legittimazione in capo al ricorrente.

A tal proposito, gli  Ermellini  riconoscono la legittimazione del ricorrente in ragione della documentata e non contestata qualità di socio. Infatti, ai sensi dell’art. 2495 cc., a causa dell’estinzione della società, si realizza la successione dei soci nelle obbligazioni della medesima. La liquidazione e ripartizione dell’attivo sono il fondamento solo della responsabilità dei soci, ma non della rispettiva legittimazione ad agire, per la prosecuzione del processo.

La Suprema Corte, recependo l’orientamento definito dalle SS.UU. n. 6070/2013, puntualizza che gli ex soci subentrano nei rapporti debitori anche se non definiti all’esito della liquidazione, poiché è del tutto irrilevante ai fini di tale legittimazione (attiva o passiva) che il socio abbia percepito attivo in sede di liquidazione, rappresentando quest’ultimo solo il limite della responsabilità del socio per i debiti della società estinta.

Appare più controverso il limite alla legittimazione dei soci a proseguire un giudizio instaurato nei confronti della società. Dopo la citata pronuncia a Sezioni Unite, la giurisprudenza aveva ritenuto che l’effettiva liquidazione e ripartizione dell’attivo, oltre a costituire fondamento sostanziale e misura della responsabilità dei soci, rappresentasse anche un limite alla legittimazione processuale del socio: in caso di assenza di attivo di liquidazione, si avrebbe anche una mancanza di legittimazione, attiva e passiva, in capo ai soci, con la conseguente impossibilità, sotto il profilo tributario, di proporre ricorsi o proseguirli (Cass. n. 23916/2016; Cass. n. 13259/2015; Cass. n. 2444/2017).

Nella recente sentenza n. 2444/2017 la Suprema Corte, sulla scorta delle predette sentenze del 2013, ha affermato che, nel caso di estinzione di persona giuridica, il processo relativo al debito sociale non prosegue nei confronti dell’ex liquidatore, in quanto non è successore, né coobligato della società; il processo prosegue, invece, nei confronti dei suoi ex soci , i quali ne rispondono nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione o illimitatamente, a seconda che, pendente societate, fossero rispettivamente o illimitatamente responsabili per i debiti sociali.

Pertanto, secondo questa posizione sono inammissibili l’appello o il ricorso per Cassazione proposti dal fisco nei confronti degli ex soci di una società medio tempore estinta senza alcuna ripartizione di attivo; il creditore che voglia agire nei confronti dell’ex socio che abbia ricevuto un qualche riparto è tenuto a dimostrare che vi sia stata la distribuzione dell’attivo e che tale attivo è stato riscosso, fermo restando il principio dell’onere della prova su chi intende fare valere un diritto.

Più di recente, tuttavia,  con sentenza n. 9094/2017, la Cassazione ha superato questo convincimento, non ritenendolo in linea con il principio sopra citato, arrivando ad affermare che “ i soci abbiano goduto, o no, di un qualche riparto in base al bilancio finale di liquidazione non è dirimente (…) ai fini dell’esclusione dell’interesse ad agire del Fisco creditore”.

Invero, gli ex soci sono sempre destinati a succedere nei rapporti debitori già facenti capo alla società estinta ma non definiti al termine della liquidazione, fermo restando il loro diritto di opporre il limite di responsabilità ex articolo 2495. Qualora tale limite dovesse rendere evidente l’inutilità per il creditore di fare valere le proprie ragioni nei confronti del socio, ciò inciderebbe sull’interesse ad agire, ma il creditore potrebbe comunque avere interesse a proseguire il giudizio se vi fosse la possibilità per i soci di succedere in eventuali rapporti attivi della società non definiti al termine della          liquidazione, come ad esempio: sopravvenienze attive derivanti da crediti della società incerti e illiquidi al momento della liquidazione (la cui mancata inclusione nel bilancio di liquidazione può essere giustificata da una più rapida conclusione della stessa);
beni o diritti non compresi nel bilancio di liquidazione, i quali pur sempre si trasferiscono ai soci in regime di contitolarità o comunione indivisa.

Sicchè,  i giudici di legittimità, in predetta sentenza, basandosi sugli stessi precedenti delle S.U. della Corte di Cassazione del 2013,  che a gennaio 2017 li avevano portati a ritenere condizionata la legittimazione processuale degli ex soci alle ipotesi di riscossione dell’attivo sociale liquidato, giungono all’opposta conclusione che il fatto che il bilancio di liquidazione della società estinta non preveda ripartizioni agli ex soci non esclude “l’interesse dell’Agenzia a procurarsi un titolo nei confronti dei soci, in considerazione della natura dinamica dell’interesse ad agire, che rifugge da considerazioni statiche allo stato degli atti”.

Il Supremo Consesso continua sottolineando che non appare persuasiva , al riguardo, la pronuncia di Cass. 22 luglio 2016, n. 15218, che sul punto si limita ad affermare che “il suddetto limite di responsabilità – ossia quello stabilito dall’art. 2495 c.c. – si riflette sul requisito dell’interesse ad agire nei confronti dei soci, evidentemente carente laddove, come nello specifico, nessuna riscossione di somme vi sia stata all’esito della procedura di liquidazione”.

Il predetto principio espresso dalla Suprema Corte con sentenza n. 12953/2017, che conferma l’isolato orientamento della sentenza n.9094/2017, non può essere esente da critiche.

Entrambe le sentenze (Cass. n. 2444/2017 e Cass. n. 9094/2017) non appaiono condivisibili dal presupposto da cui muovono, ovvero che la legittimazione sostanziale e processuale, attiva e passiva, si trasferirebbe automaticamente ex art.110 c.p.c. agli ex soci che, per effetto della vicenda estintiva, diverrebbero partecipi della comunione in ordine ai beni residuati dalla liquidazione (o sopravenuti dalla cancellazione) e, se ritualmente invocati in giudizio, parti di questo, pur se estranei ai precedenti gradi del processo(Cass. del 5 settembre 2012, n. 14880; Cass. Del 6 giugno 21012, n. 9110).

E’ opportuno mettere in luce che legittimazione sostanziale e processuale sono due concetti distinti: la prima fa riferimento al legittimato all’azione, ossia il destinatario della pretesa tributaria, la seconda è intesa come capacità di stare in giudizio.

Proprio nell’ipotesi d’estinzione della società viene meno tanto la capacità di stare in giudizio della stessa per mezzo del proprio rappresentante legale (legittimazione processuale), quanto quella di “essere parte” del processo (legittimazione ad causam).

Entrambe le sentenze in esame registrano la perdita della legittimazione processuale della società cancellata dal registro delle imprese.

Al riguardo, appare più condivisibile la tesi di parte di dottrina  dell’inesistenza dell’atto proposto o indirizzato dalla società estinta, non potendosi invocare l’ultrattività del mandato del difensore dei precedenti gradi di giudizio, conferito dall’ex rappresentante della società, perché l’operatività di predetto principio presuppone sia che si agisca in nome di un soggetto esistente e capace di stare in giudizio, sia che l’atto processuale sia conferito con procura speciale.

Con riferimento alla questione della legittimazione ad causam, entrambe le sentenze de quibus arrivano a conclusioni diverse, sulla base di un medesimo presupposto, ossia che l’estinzione della società di capitali non determinerebbe il venir meno dell’obbligazione tributaria, ma subentrerebbero gli ex soci nel processo, quali soggetti legittimati ad agire o a resistere alle pretese dell’Amministrazione finanziaria.

In merito alla legittimatio ad causam degli ex soci, occorre tenere conto della differenza tra i soci delle società di persone e quelli delle società di capitali.

Le società di persone non hanno né personalità giuridica, né autonomia patrimoniale perfetta e, pertanto, pendente societate, i soci sono responsabili illimitatamente dei debiti contratti dall’ente, potendo godere unicamente del beneficio d’escussione.

Al contrario, le società di capitali sono dotate di personalità giuridica e i soci non sono ordinariamente deputati all’amministrazione diretta della società.

La cancellazione dal registro delle imprese comporta effetti differenti per i due tipi di società. Nel caso di società di persona la cancellazione ha efficacia dichiarativa e alla stessa consegue la responsabilità illimitata dei soci per i debiti sociali; ne deriva che, a seguito dell’estinzione della società di persone, la legittimazione sostanziale e processuale si trasferisce unicamente ai soci, che subiscono quale unico effetto pregiudizievole la perdita del benefico di preventiva escussione della società.

Dall’altra parte, la cancellazione della società di capitali ha efficacia costitutiva e, in tale ipotesi, un’eventuale responsabilità dei soci è configurabile solo nei limiti delle somme riscosse in sede di liquidazione.

Per tale motivo, secondo alcuni autori, è impossibile configurare, sulla scorta del quadro normativo vigente, il fenomeno “successorio” postulato dalle sentenze oggetto d’esame per diverse ragioni qui di seguito esposte.

In  primo luogo, giova sottolineare  che, in passato, la giurisprudenza di legittimità aveva escluso la “successione” a titolo universale degli ex soci nel processo instaurato dalla società, nei casi di cancellazione della stessa dal registro delle imprese, “anche in presenza di crediti insoddisfatti e di rapporti di altro tipo non definiti” (Cass. S.U., 22 febbraio 2010, n. 4062; Cass. 13 luglio 2012, n. 11968/2012; Cass. 10 novembre 2010, n. 22830; Cass. 28 agosto 2006, n.18618).

In secondo luogo, oltre ai precedenti di legittimità, la tesi della successione suscita perplessità per ragioni di tipo sistematico, che verranno compendiate di seguito.

Anzitutto, l’estensione soggettiva della responsabilità dei debiti tributari di un altro soggetto deve essere prevista con atto normativo di fonte primaria, pena la violazione della riserva di legge di cui all’art.23 Cost.

E’ lo stesso quadro normativo che va ad acclarare tale tesi: infatti, i citati artt. 2495 cc e 36 del D.P.R. n. 600/1973 non prevedono l’automatico subentro degli ex soci nella società estinta da lato passivo del rapporto d’imposta, bensì introducono distinte forme di responsabilità dei soci, al ricorrere di una specifica condizione, ovvero l’aver ricevuto i soci denaro o altri beni sociali precedentemente o durante il tempo della liquidazione della società.

Pertanto, dal dato letterale delle succitate norme emerge che la responsabilità dei soci non sussiste ipso iure per le obbligazioni fiscali non assolte e, qualora vi siano state assegnazioni di denaro o beni sociali, tale responsabilità è limitata alla parte da ciascuno di essi conseguita nella distribuzione dell’attivo nelle varie fasi.

Da ciò si evince che l’A.F. che voglia agire nei confronti dell’ex socio è tenuta a dimostrare il presupposto di responsabilità di quest’ultimo, ossia che ci sia stata la distribuzione dell’attivo e che una quota di tale attività sia stata riscossa, ovvero che vi siano state le assegnazioni sanzionate dalla norma fiscale (cfr. Cass., 16 maggio 2012, n.7679).

Ciò posto, sulla base di tali considerazioni, criticabile è la sentenza n. 9094/2017 in esame che ha affermato la successione in tutti i rapporti debitori facenti capo alla società cancellata, compresi quelli non definiti all’esito della liquidazione, a prescindere dal fatto che gli ex soci abbiano goduto di un qualche riparto in base al bilancio finale di liquidazione, in considerazione della mera possibilità che vi siano sopravvenienze attive ovvero diritti e beni non iscritti al bilancio.

Tale soluzione ermeneutica non solo contrasta con il principio costituzionale di riserva di legge e con l’interpretazione sistematica del combinato di sposto degli artt. 2495 c.c. e 36 D.P.R. n.602/1972, ma lede, per di più, il principio della personalità giuridica, rendendo, di fatto, illimitatamente responsabili i soci per i debiti della società, a prescindere dal loro regime di responsabilità (limitata nel caso di società di capitali) pendente societate.

Così si rischierebbe di equiparare gli effetti dell’estinzione delle società di persone a quelli della società di capitali, disciplinati dal legislatore in maniera differente, come sopra enunciato, rispettivamente agli arrtt. 2312 c.c. e 2495 c.c.

Il fatto che sia prevista per gli ex soci delle società di capitali una responsabilità ulteriore rispetto a quella derivante dall’obbligazione tributaria in capo alla società estinta è, altresì, confermato dal punto di vista sistematico anche dalla scelta del legislatore fiscale di disciplinare in una medesima disposizione  (v. art. 36 del D.P.R. n. 600/1973), tanto la responsabilità degli ex soci (che hanno ricevuto denaro o beni sociali), quanto quella del liquidatore (che risponde in proprio se non adempie all’obbligo di pagare, con le attività di liquidazione, le imposte dovute per il periodo della liquidazione medesima e per quelli anteriori).

In conclusione, qualificare gli ex soci come “parti in senso stretto” del processo instaurato dalla società estinta significherebbe renderli responsabili degli effetti sostanziali di una pretesa tributaria oggetto di un processo di cui potrebbero essere all’oscuro; ad ogni buon conto, l’Amministrazione finanziaria potrebbe tutelare le proprie ragioni creditorie senza che si determini un “trasferimento” dell’obbligazione della società agli ex soci, ma giovandosi delle disposizioni civilistiche che sospendono l’efficacia costitutiva della cancellazione della società di capitali dal registro delle imprese.

 

Avv. Villani Maurizio

Scrivi un commento

Accedi per poter inserire un commento