La responsabilità del sanitario e della struttura nel contesto pandemico

Nel contesto di pandemia si ritiene che non discenda una automatica responsabilità della struttura e del personale sanitario. La stessa dovrà essere valutata caso per caso, in relazione alla fase in cui si è estrinsecata la condotta (emergenziale iniziale oppure successiva), alle modalità della stessa, alla diligenza richiesta dall’attività esercitata; ma nel caso di una prestazione che implichi la soluzione di problemi tecnici di particolare complessità, la responsabilità sarà limitata ai soli casi di dolo o colpa grave.

Indice

1. Il danno da carenza organizzativa della struttura. Profili civilistici

In ambito sanitario la responsabilità civile è disciplinata dalla Legge n. 24 del 28 febbraio 2017 (Legge Gelli-Bianco). La legge prevede l’obbligo per tutti gli esercenti le professioni sanitarie (medici, infermieri, odontoiatri, operatori sanitari, etc.) di attenersi alle linee guida validate dall’Istituto Superiore di Sanità e dal Ministero della Salute. In forza di ciò la legge chiama a rispondere del danno alla salute, determinatosi  in ambito sanitario,  innanzitutto le strutture sanitarie e socio sanitarie (responsabilità contrattuale),  direttamente responsabili sia del danno da malpractice  cagionato dal personale sanitario operante al loro interno ex artt. 1218 e 1228 cc, che del danno conseguente all’inadempimento di obblighi organizzativi e di aggiornamento tecnologico derivanti dal contratto di spedalità ovvero assistenza concluso con i pazienti. Tali obblighi impegnano in primo luogo le strutture sanitarie preposte alla fornitura di cure in un contesto adeguato alle circostanze, vuoi per tipologia e dimensioni della struttura, che per bacino d’utenza, caratteristiche dei servizi e utilizzo di apparecchiature in linea con l’evoluzione scientifica e tecnologica[1].
Di indubbio rilievo sono le ipotesi in cui il danno al paziente sia derivato da una carenza organizzativa della struttura sanitaria; si consideri l’ipotesi in cui il decesso o l’aggravamento della patologia siano stati cagionati da un ricovero tardivo in terapia intensiva. Trattasi di fattispecie che involgono la responsabilità della struttura sanitaria nel quale il sanitario abbia operato. Da tempo la giurisprudenza ha individuato una responsabilità autonoma della struttura, in quanto tale non riferibile ad una condotta colposa del personale medico, bensì ad una colposa carenza organizzativa della struttura stessa. Tale responsabilità discende da un contratto atipico di spedalità comprensivo, oltre che delle prestazioni mediche in senso stretto, anche di una serie di altre prestazioni, quali alloggio, ristorazione, disponibilità di attrezzature adeguate, sicurezza degli impianti, custodia dei pazienti, apprestamento di medicinali, nonché messa a disposizione del personale medico, ausiliario e paramedico, nel numero e con le competenze adeguate, anche nelle situazioni di urgenza[2]. L’indirizzo è stato in ultimo positivizzato dalla legge Gelli- Bianco che, nell’individuare nella “sicurezza delle cure” una parte costitutiva del diritto alla salute, ne ha predicato la realizzazione anche mediante l’insieme di tutte le attività finalizzate alla prevenzione ed alla gestione del rischio connesso all’erogazione di prestazioni sanitarie e l’utilizzo appropriato delle risorse strutturali, tecnologiche e organizzative (art. 1). Appare quindi configurabile un danno c.d. da “disorganizzazione”, o secondo altra dicitura, “da inefficienza”, conseguente ad una violazione dello standard medio di organizzazione ed efficienza della struttura sanitaria, che un paziente può ragionevolmente attendersi e prevedere.
La responsabilità della struttura, più nel dettaglio, sarà ravvisabile nel caso in cui non siano garantiti: a) adeguata (in termini di tipologia, ovvero di numero) strumentazione o macchinari necessari per la prestazione sanitaria, ivi inclusi quelli necessari per le emergenze; b) presenza di personale sanitario in numero e con una specializzazione adeguati; c) sicurezza dell’ambiente ospedaliero, nonché d) custodia e protezione dei pazienti più vulnerabili (disabili, minori)[3].
Rispetto a tali obbligazioni la responsabilità è dai più assimilata ad una responsabilità oggettiva, con attribuzione alle strutture ospedaliere ovvero assistenziali del rischio derivante dalle eventuali anomalie del proprio apparato organizzativo[4]. Un rischio che è al contempo ragion d’essere e limite dell’organizzazione sanitaria[5].
Orbene, nel contesto di pandemia da COVID-19, caratterizzato dalla novità della patologia, dalla carenza di studi scientifici riguardo la specifica malattia e la relativa terapia, e nell’ambito di una carenza delle strutture sanitarie impreparate a contrastare il virus, ci si è domandato quale fosse la responsabilità delle strutture sanitarie e del personale sanitario, e quali fossero concretamente le condotte esigibili dagli stessi.
Nel contesto di emergenza pandemica si ritiene che non discenda un’automatica responsabilità delle strutture sanitarie nei casi in cui queste si siano rivelate, soprattutto nella prima fase emergenziale, non sufficientemente attrezzate per fronteggiare un evento straordinario come la pandemia[6]. Il livello organizzativo e la dotazione di apparati tecnologici, idonei a soddisfare le esigenze di diagnosi, cura ed assistenza, deve infatti rapportarsi alle risorse disponibili ed alla necessità che queste siano impegnate con razionalità, appropriatezza ed efficienza. Pertanto non è possibile imputare alle strutture ospedaliere, tanto più in assenza di un piano pandemico aggiornato, di non essere state attrezzate con reparti, apparati e personale che in tempi ordinari sarebbero stati sovrabbondanti, oltre che economicamente insostenibili[7].  
Se quindi deve escludersi la possibilità di contestare alle strutture sanitarie l’incapacità di farsi carico di tutti i pazienti affetti da covid 19, ovvero di trattarli tutti con adeguati strumenti di diagnosi e cura, diverso è il caso della mancata adozione, a livello organizzativo,  di ogni accorgimento atto ad evitare la diffusione del virus. Il riferimento è al mancato adeguato isolamento dei malati, alla non costante sanificazione ambientale, alla omessa disinfezione degli strumenti, alla ritardata evacuazione delle strutture nei casi di massiccia diffusione dell’epidemia al loro interno, al non corretto impiego, ove disponibili, dei dispositivi di protezione individuale o al mancato funzionamento, in più occasioni venuto meno, degli impianti di distribuzione di ossigeno e delle apparecchiature di ventilazione.
In tali casi le strutture sanitarie o socio sanitarie sono sempre chiamate a rispondere, salva la prova che l’inadempimento sia stato determinato da un evento imprevedibile ed inevitabile, nel caso di specie valutato tenendo conto dell’eccezionalità e repentinità della situazione emergenziale[8].
Nei casi in cui sia contestato il contagio all’interno della struttura sanitaria, resta la necessità per i pazienti di provare che l’infezione sia stata effettivamente contratta in ambito sanitario. Tale prova è certamente più agevole nel caso di positività manifestatasi durante un ricovero, vista la previsione dell’esecuzione di tamponi all’ingresso; nel mentre è meno agevole nel caso della sola sottoposizione ad esami diagnostici, attesa l’ampia circolazione virale anche in ambito extra ospedaliero. Al di là poi dell’ imputabilità del contagio alla struttura, grava inoltre sul danneggiato l’onere di provare che il danno sia effettivamente stato cagionato dall’infezione, prova non semplice, posto che, come noto,  la malattia colpisce più gravemente i pazienti affetti da pregresse e spesso gravi patologie, fermo restando il fatto che, nel caso in cui un quadro clinico stabile, per quanto complesso e problematico, si sia aggravato  a seguito dell’infezione, questa sarà ragionevolmente intesa come causa dell’invalidità o del decesso.
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2. Il danno da malpractice della struttura e del sanitario

Accanto al danno da deficit organizzativo ovvero da malfunzionamento di impianti e attrezzature, di cui è chiamata a rispondere la sola struttura sanitaria con i titolari di responsabilità organizzative e di controllo, vi è poi il danno da malpractice, inteso come il danno alla salute causato al paziente in conseguenza di errori, omissioni o incuria,  tradottisi nel mancato rispetto o nella non corretta applicazione delle linee guida o delle buone pratiche clinico assistenziali. Di tale danno, ai sensi dell’art. 5 della legge Gelli-Bianco, risponde innanzitutto a titolo contrattuale la struttura sanitaria che si sia avvalsa del personale sanitario responsabile,  anche nel caso in cui questo non sia un suo dipendente, salva poi la possibilità della prima di esercitare l’azione di rivalsa nei confronti del sanitario, che abbia agito con dolo o colpa grave nei limiti di quanto previsto dall’art. 9 Legge n. 24/2017. Ciò in quanto la struttura, per il solo fatto di entrare in contatto con il paziente, che ad essa si affida per la diagnosi e la cura, instaura con esso uno specifico rapporto contrattuale.  In solido con la struttura sanitaria risponde il professionista, in questo caso a titolo extracontrattuale, con tutte le conseguenze che ciò comporta in tema di differenti termini di prescrizione e più gravosi oneri probatori a carico del paziente. Nel caso in cui si configuri una responsabilità contrattuale infatti, il paziente danneggiato, nel termine di prescrizione di dieci anni, è chiamato a dimostrare unicamente il danno subito e il proprio diritto alla prestazione sanitaria non correttamente adempiuta; essendo invece la struttura sanitaria tenuta a dimostrare di aver correttamente adempiuto o di essere stata nell’impossibilità di adempiere per una causa ad essa non imputabile.
Nel caso, invece, di responsabilità extracontrattuale il danneggiato, nel termine di prescrizione quinquennale, è chiamato non solo a dimostrare il danno subito, ma la riconducibilità dello stesso a una data condotta del professionista sanitario. Il professionista risponde, invece, a titolo contrattuale nel solo caso in cui abbia assunto l’obbligazione direttamente con il paziente, cosa che interviene, ad esempio, nel caso di visite libero professionali presso studi privati o di consulti privati via web, sempre più frequenti in tempo di pandemia[9]
La responsabilità del professionista, anche chiamato a rispondere di un danno da ritardata o errata diagnosi covid o da errato trattamento dell’infezione, è disciplinata dagli artt. 1176 comma 2 cc e 2236 cc, stando ai quali negli nell’adempimento delle obbligazioni inerenti l’esercizio di una attività professionale, la diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell’attività esercitata: se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d’opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o colpa grave. Da tali disposizioni relative in via diretta alla responsabilità contrattuale, ma considerate estensibili anche ai casi di responsabilità extra contrattuale in cui il professionista, pur se scelto dal paziente, opera all’interno di una struttura sanitaria, discende un obbligo di diligenza che va parametrato alla natura professionale dell’attività svolta, ma che nel caso di una prestazione che implichi la soluzione di problemi tecnici di particolare complessità limita la responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave[10].

3. L’applicazione dell’art. 2236 c.c.

La limitazione di responsabilità professionale del medico chirurgo, ai soli casi di dolo o colpa grave, attiene esclusivamente alla perizia, con esclusione dell’imprudenza e della negligenza. Infatti anche nei casi di particolare difficoltà, tale limitazione non sussiste con riferimento ai danni causati per negligenza o imprudenza, dei quali il medico risponde in ogni caso (Cass. Civ. sent. n. 6093 del 12.03.2013; conforme anche la giurisprudenza di merito: ad es. App. Roma sez. III 17.04.2012).
In relazione al citato art. 2236 c.c. si è poi ritenuto che la cosiddetta complicanza non possa mai configurare speciale difficoltà negli interventi cosiddetti routinari: “un intervento chirurgico di norma routinario non può mai ritenersi di speciale difficoltà ai sensi dell’articolo 2236 cc, per il solo fatto che nel corso di esso si verifichino delle complicanze” (Cass. Civ. sent. n. 20586 del 22.11.2012; conformi Cass. Civ. sent. n. 28985 del 11.11.2019).
I contesti nei quali la previsione è stata ritenuta applicabile riguardano casi necessariamente straordinari ed eccezionali, in quanto non adeguatamente studiati dalla scienza o sperimentati dalla pratica, oppure caratterizzati dal fatto che nella scienza medica vi siano ancora dibattiti diversi ed incompatibili sui corretti sistemi diagnostici e terapeutici fra i quali il medico debba compiere una scelta. L’art. 2236 cc configura piuttosto una limitazione della responsabilità del prestatore, atta a parametrare la colpa del terapeuta alla difficoltà tecnico scientifica dell’intervento, oltre che al contesto in cui lo stesso si è svolto. In quanto tale, la norma si pone a generale canone determinativo della diligenza richiesta nell’adempimento delle obbligazioni e quindi in prospettiva simmetrica, quale parametro di riferimento per l’individuazione delle ipotesi di responsabilità per inadempimento. Il coronavirus, quale pandemia globale mai studiata dalla comunità scientifica e dilagata in Italia prima che nel resto d’Europa, integra senz’altro il caso eccezionale di cui all’art. 2236 cc. Tale norma può trovare applicazione, dunque, nel caso in cui la terapia prescelta non abbia portato alla guarigione (proprio per l’assenza di linee guida o buone pratiche), ma anche per giustificare l’imperizia dei medici non specializzati (o in possesso di specializzazioni non afferenti alla infettivologia) i quali, assunti per sopperire alle carenze di organico nel contesto emergenziale, abbiano ignorato (non per loro colpa) le leges artis del caso di specie[11].
Pertanto la novità del virus e della conseguente patologia, la limitatezza delle conoscenze scientifiche, l’assenza di farmaci effettivamente efficaci o di linee guida terapeutiche consolidate, così come l’assenza di buone pratiche clinico assistenziali, il numero abnorme di pazienti da assistere contemporaneamente, la limitata disponibilità di risorse (posti letto in terapia intensiva e non, apparecchi di ventilazione forzata, dispositivi di protezione individuale, etc.), l’insufficiente numero di infettivologi e rianimatori intensivisti, con necessità di impiegare anche personale di altre specializzazioni, rende particolarmente difficile contestare ad un professionista sanitario di non essersi attenuto, come dispone l’art. 5 della Legge Gelli-Bianco, alle raccomandazioni previste dalle linee guida accreditate dalle istituzioni e, in loro mancanza, alle buone pratiche clinico assistenziali. Oggi in presenza di linee guida, per quanto incomplete e non risolutive, la responsabilità di cui all’art. 2236 cc può limitarsi al dolo e, nel caso di imperizia, alla colpa grave, ferma restando la piena responsabilità nel caso di negligenza o imprudenza[12].
Se però ciò vale nei casi in cui al professionista sanitario sia contestato un errore nell’esecuzione di trattamenti terapeutici su malati COVID-19, è certamente più difficile che tali disposizioni possano operare riguardo all’errore ed al ritardo diagnostico, posto che, sia pure con tutte le peculiarità da valutare caso per caso, l’infezione Sars COVID-19 può essere riconosciuta da sintomi ormai sufficientemente noti, ed è accertabile con tecniche affidabili. Pari considerazioni possono valere per il caso di mancata adozione di accorgimenti atti ad evitare la diffusione del virus all’interno delle strutture sanitarie, posto che l’adozione di misure di prevenzione è connotata da un livello di complessità sensibilmente inferiore a quello relativo alla somministrazione di terapie ai pazienti infetti. La dimostrazione di ciò è data dal fatto che, in tema di infezioni nosocomiali, la giurisprudenza abbia più volte negato l’applicabilità dell’art. 2236 cc, sottolineando il carattere del tutto ordinario di operazioni quali la sterilizzazione della sala operatoria e degli strumenti clinici o la disinfezione degli ambienti ospedalieri[13]. Anche rispetto a tali ipotesi è tuttavia possibile che la situazione di emergenza determini quella difficoltà della prestazione che costituisce presupposto della limitazione di responsabilità di cui al citato articolo, dovendosi operare anche la valutazione delle criticità del contesto organizzativo e strutturale in cui la prestazione è stata resa.
Su tutto opera poi il principio di inesigibilità della prestazione in forza del quale si esclude qualunque profilo di responsabilità della struttura e del singolo operatore, nel caso in cui non sia stato possibile adottare una condotta difforme da quella effettivamente tenuta. Ma se è fuori dubbio che i primi mesi della pandemia siano stati caratterizzati dalla novità e rapidità di diffusione di un contagio nuovo, rispetto al quale non vi erano conoscenze medico scientifiche, né tantomeno protocolli e/o linee guida cui parametrare le condotte in contestazione, altrettanto non può dirsi con riferimento alle fasi successive che vedevano le strutture e i sanitari operare in presenza di protocolli e/o linee guida a cui rapportarsi per una corretta gestione del caso clinico.

4. L’impiego dei farmaci off label o di terapie sperimentali

Spesso la pandemia ha imposto l’utilizzo di farmaci off label, cioè impiegati in modo differente da quanto previsto dai provvedimenti di autorizzazione all’immissione in commercio, oppure il ricorso a terapie sperimentali (disciplinato dal decreto del Ministero della Salute del 07.09.2017) che, in quanto tali, possono essere anche causa di danni alla salute[14]. In proposito l’art 3 del Decreto Legge n. 73 del 17.02.1998, così come convertito dalla Legge n. 94 del 08.04.1998 (Legge Di Bella), dopo aver previsto l’obbligo per il medico di attenersi alle indicazioni terapeutiche, alle vie ed alle modalità di somministrazione previste dall’autorizzazione all’immissione in commercio rilasciata dal Ministero della Sanità (comma 1), ha introdotto la possibilità per lo stesso di impiegare un medicinale prodotto industrialmente con una posologia, una tipologia di destinatari o indicazioni diverse da quelle autorizzate (comma 2).
Ciò a condizione che: 1) lo stesso medico ritenga, in base ai dati documentabili, che il paziente non possa essere utilmente trattato con medicinali per i quali sia già approvata quella indicazione terapeutica o quella via o modalità di somministrazione; 2) tale impiego sia noto e conforme ai lavori apparsi su pubblicazioni scientifiche accreditate in campo internazionale; 3) il paziente sia stato preventivamente informato e abbia prestato il proprio consenso.
In tal caso dunque, ove dovesse essere contestato un danno alla salute, il professionista e la struttura, al fine di andare esenti da responsabilità, saranno chiamati a dimostrare la peculiarità del caso concreto che giustificava la somministrazione del farmaco off label, oppure l’utilizzo della terapia sperimentale a fronte, da un lato, dell’impossibilità di trattare altrimenti il caso di infezione, dall’altro, dell’accreditamento di tale terapia da parte di studi scientifici di valore internazionale[15]. Quale che sia il titolo di responsabilità imputabile alla struttura o al personale sanitario, il paziente danneggiato che agisce per il ristoro dei danni subiti è tenuto ad individuare in modo specifico, dettagliato e non contraddittorio le condotte che reputa errate al fine di non incorrere in domande inammissibili, in quanto generiche, atteso che l’assoluta novità e complessità della tematica impongono un più severo onere di allegazione, un maggiore approfondimento degli addebiti rivolti e una verifica del rispetto dei protocolli in uso.
È spesso ritenuto che l’uso di farmaci off label così come l’uso di farmaci ancora in fase sperimentale configuri una responsabilità per l’esercizio di attività pericolosa ex art. 2050 cc[16]. Detta ricostruzione si scontra in realtà con chi esclude che l’attività medico chirurgica possa rientrare nell’ambito dell’art. 2050 cc, essendo stata normata dal Legislatore (in tal senso Cass. Civ. sent. n. 3978 del 10.07.1979). Chi la sostiene però, ritiene che anche l’attività medica si possa prestare ad essere qualificata come pericolosa per la tipologia dei mezzi impiegati o in ragione della peculiare terapia prescelta. Posto l’inquadramento nell’ambito dell’art. 2050 cc, si ha di fronte una presunzione di colpevolezza del danneggiante che può essere vinta solo dimostrando di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno. Nell’ambito di danno derivante dalla somministrazione di un farmaco off label o con uso compassionevole, il medico dovrà dimostrare appunto di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno. È stato invece sostenuto, da chi ritiene che non sia applicabile l’art 2050 cc, che il medico che prescriva medicinali off label e che non agisca in via del tutto sperimentale, risponde a titolo di colpa e non di dolo delle lesioni riportate dal paziente a causa della loro somministrazione, qualora non abbia compiuto un’attenta valutazione comparativa tra i benefici perseguiti ed i rischi connessi alla particolare utilizzazione del farmaco che era possibile prevedere sulla base della situazione clinica del paziente (Cass. Pen. Sent. n. 37077 del 24.06.2008). Nel contesto del COVID-19 è stato ritenuto che il sanitario dovesse dimostrare che la peculiarità del caso in esame rendeva opportuna la somministrazione del farmaco contestato, stante l’assenza di indicazioni terapeutiche per trattare il coronavirus, l’accreditamento dell’impiego di quel medicinale fuori etichetta da parte di studi scientifici; nonché, in fase esecutiva, l’avvenuta stretta sorveglianza in ordine allo svolgimento della cura ed alla sua evoluzione[17].

5. La responsabilità penale ed il cd. scudo penale 

Nel caso di infezioni nosocomiali da Sars covid 19 o di danni derivanti da impossibilità o errori nelle cure, accanto alla responsabilità civile viene in rilievo anche una possibile responsabilità penale per fattispecie quali omicidio colposo (articolo 589 cp), lesioni personali colpose (articolo 590 cp), epidemia colposa (articolo 438 e 452 cp), morte o lesioni in conseguenza di altro delitto (articolo 586 cp), omissione o rifiuto di atti d’ufficio (articolo 328 cp)[18].
L’articolo 590 sexies cp limita la responsabilità penale del personale sanitario, stabilendo che “se i fatti di cui agli artt. 589 e 590 cp (omicidio colposo e lesioni personali colpose) sono commessi nell’esercizio della professione sanitaria, qualora l’evento si sia verificato a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge, ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto”. La norma esclude dunque la punibilità del professionista sanitario nelle ipotesi di imperizia, che residuano quando siano state rispettate linee guida “adeguate alla specificità del caso concreto” o, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali. In merito può pensarsi a questioni tecnico scientifiche non ancora sedimentate nella prassi, a questioni particolarmente complesse e ai problemi tecnici di speciale difficoltà, già analizzati con riferimento all’art. 2236 cc, tra i quali certamente possono essere ricomprese le problematiche relative all’emergenza COVID-19.
Come chiarito dalla sent. Cass. Pen. Sez. Unite n. 8770 del 22.02.2018 (sentenza Mariotti), nel caso di morte o lesioni personali derivanti dall’esercizio di attività medico chirurgica, l’esercente la professione sanitaria risponde: 1) se l’evento si è verificato per colpa (anche lieve) da negligenza o imprudenza; 2) se l’evento si è verificato per colpa (anche lieve) da imperizia, quando il caso concreto non è regolato dalle raccomandazioni delle linee guida o dalle buone pratiche clinico assistenziali; 3) se l’evento si è verificato per colpa (anche lieve) da imperizia nell’individuazione o nella scelta delle linee guida o di buone pratiche, non adeguate alla specificità del caso concreto; 4) se l’evento si è verificato per colpa grave da imperizia nell’esecuzione di raccomandazione di linee guida o di buone pratiche adeguate, tenendo conto del grado di rischio da gestire e delle speciali difficoltà dell’atto medico.
Al contrario, a prescindere da qualunque graduazione della colpa, il personale sanitario non risponde del danno se la morte o la lesione si siano verificati a causa di imperizia (e non per negligenza e imprudenza), nel caso in cui siano state rispettate le raccomandazioni contenute nelle linee guida o siano state attuate le best practices e queste siano adeguate al caso di specie.
La causa di non punibilità prevista dall’art 590 sexies cp si limita ai casi di omicidio colposo e lesioni personali colpose senza estendersi all’epidemia colposa, alla morte o lesioni in conseguenza di altro delitto o al rifiuto di atti di ufficio per ragioni di sanità, quest’ultima configurabile nell’ipotesi di accertamenti diagnostici o terapie negate durante il periodo di emergenza, rispetto alle quali però ove ricorrente, opera già la causa di non punibilità costituita dalla forza maggiore. La limitata area di non punibilità colposa prevista dall’articolo 590 sexies cp è stata ritenuta insufficiente rispetto alle contingenze emergenziali in cui si è trovato ad operare il personale sanitario nel quotidiano contrasto al virus Sars COVID-19, specialmente nella prima fase di emergenza in cui si è proceduto in via sperimentale, in carenza di personale specializzato e con ritmi accelerati.
Tutto ciò ha posto l’attenzione, per un verso, sull’assenza di linee guida accreditate o pratiche consolidate cui collegare il giudizio di responsabilità; per un altro verso, sull’opportunità di estendere l’esenzione di responsabilità ai casi di negligenza e imprudenza non gravi. Nel tentativo di tutelare la posizione del personale sanitario è intervenuto il Decreto Legge n. 44 del 1 Aprile 2021, così come convertito dalla Legge n. 76 del 28 maggio 2021, che ha introdotto il cosiddetto “scudo penale” per le ipotesi di responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario durante lo stato di emergenza epidemiologia da COVID-19[19]. In particolare l’art. 3bis ha stabilito che durante lo stato di emergenza epidemiologica i fatti di cui agli artt. 589 e 590 cp (omicidio colposo e lesioni personali colpose), commessi nell’esercizio di una professione sanitaria e che trovino causa nella situazione di emergenza, siano punibili solo nei casi di colpa grave. Il secondo comma dello stesso articolo ha poi previsto che, ai fini della valutazione del grado di colpa, il Giudice tiene conto, tra i fattori che ne possono escludere la gravità, della limitatezza delle conoscenze scientifiche al momento del fatto sulle patologie da Sars COVID-19 e sulle terapie appropriate, nonché della scarsità delle risorse umane e materiali concretamente disponibili in relazione al numero dei casi da trattare, oltre che del minor grado di esperienza e conoscenze tecniche possedute dal personale non specializzato impiegato per fare fronte all’emergenza.
La norma prevede dunque una causa di non punibilità per i reati di omicidio colposo e lesioni personali colpose commessi con colpa lieve nell’esercizio di una professione sanitaria, reati che trovino causa nella situazione di emergenza. Se quindi l’articolo 590 sexies cp già prevedeva l’esclusione della punibilità del personale sanitario per i casi di omicidio colposo e lesioni personali colpose quando l’evento morte o la lesione si fossero prodotti a causa di imperizia, pur rispettando le raccomandazioni contenute nelle linee guida o le best practices adeguate al caso di specie, con l’articolo tre bis del Decreto Legge n. 44 del 2021 si è estesa la non punibilità a tutti i casi di omicidio colposo e lesioni personali colpose commesse con colpa lieve dal personale sanitario durante lo stato di emergenza. Ciò non solo nel caso di imperizia ma anche di imprudenza o negligenza, dovendosi tenere conto, ai fini della valutazione del grado della colpa, della limitatezza delle conoscenze scientifiche sulle patologie e sulle terapie, della scarsità delle risorse umane e materiali rispetto al numero di casi da trattare e della limitata conoscenza ed esperienza del personale non specializzato, utilizzato per fare fronte all’emergenza.
Lo stesso Decreto Legge n. 44 del 2021 ha poi previsto, all’art. 3, un ulteriore scudo penale quanto alla somministrazione dei vaccini anti Sars covid 19, stabilendo la non punibilità per i fatti di cui agli artt. 589 e 590 cp, verificatisi a causa della somministrazione di un vaccino per la prevenzione delle infezioni da Sars covid 19, effettuata nel corso della campagna vaccinale straordinaria, quando l’uso del vaccino è conforme alle indicazioni contenute nel provvedimento di autorizzazione all’immissione in commercio emesso dalle competenti autorità e alle circolari pubblicate sul sito Internet istituzionale del Ministero della Salute relative alla attività di vaccinazione.
Temendosi possibili reazioni avverse ai vaccini, si è così esclusa la punibilità per i reati di omicidio colposo o lesioni personali colpose dei somministratori che abbiano inoculato il vaccino attenendosi alle prescrizioni contenute nel provvedimento di autorizzazione all’immissione in commercio e alle circolari in tema di vaccinazione. Tale scudo non esclude però la punibilità nelle ipotesi imprudenza, imperizia o negligenza differenti dalla somministrazione per fatti, ad esempio, relativi al corretto stoccaggio e/o alla conservazione dei vaccini, nel rispetto delle prescrizioni in tema di temperatura, o per fatti relativi ad un’errata inoculazione (si pensi alla contemporanea inoculazione di più dosi) o/a una carente anamnesi precedente alla vaccinazione. Trattandosi di norme penali di favore, le stesse trovano applicazione ai fatti commessi anche prima dell’entrata in vigore del decreto legge numero 44 del 2021, purché successivi alla deliberazione dello Stato di emergenza dichiarato il 31 gennaio 2020.

  1. [1]

    Montanari G. Vergallo, La nuova responsabilità medica dopo la Riforma Gelli-Bianco, Dike Giuridica Ed., 2017, pag. 139;
    Capecchi M., Coronavirus e responsabilità sanitaria: quali prospettive di riforma, in Rivista responsabilità medica: Diritto e pratica clinica, 2020.

  2. [2]

    Cass. Civ. sent. n. 25844/2017.

  3. [3]

    Carlesino V., La responsabilità medica ai tempi del Covid-19, in altalex.com;
    Bombelli M., La responsabilità del sanitario nel contesto della pandemia da Covid-19, in altalex.com, 2021.

  4. [4]

    De Matteis R., Dall’atto medico all’attività sanitaria: quali responsabilità?, nel Trattato di Biodiritto, vol. IV, diretto da Belvedere-Zatti, Giuffrè Ed., Milano, pag. 142, 2011.

  5. [5]

    L’attività che viene chiamata “gestione del rischio” comprende una fase di identificazione dei rischi e di una loro analisi e valutazione, ed una fase successiva nella quale “il rischio può essere accettato così com’è; rifiutato (è rimossa l’attività che lo genera); trasferito ad un altro soggetto; ridotto o minimizzato attraverso le azioni di prevenzione”, in L’Affare rischio clinico, di Perna A., Perrella G., Perna C., Vacchiano G., Franco Angeli Ed., pag. 182, 2010;
    Antonucci A. – Moliterni F., Rischio e assicurazione nell’attività sanitaria, in La responsabilità in medicina, 2019, a cura di Belvedere e Riondato nel trattato di Biodiritto, diretto da Rodotà e Zatti, Giuffrè, pag. 697, 2011

  6. [6]

    Castronovo V., La responsabilità civile, Milano, 2018, pag. 422.

  7. [7]

    Ronco M., Eroismo dei medici e colpa professionale: riflessioni e proposte, in www.centrostudilivatino.it, 2020.

  8. [8]

    Pesenti Guffanti L., Responsabilità sanitaria e pandemia. Profili civilistici, in jus.vitaepensiero.it, 2020;

  9. [9]

    D’Adda A., Solidarietà e rivalse nella responsabilità sanitaria: una nuova disciplina speciale, in Corriere giuridico, 2017, pag. 769;
    Antonucci A. – Moliterni F., Rischio e assicurazione nell’attività sanitaria, in La responsabilità in medicina, 2019, a cura di Belvedere e Riondato nel trattato di Biodiritto, diretto da Rodotà e Zatti, Giuffrè, pag. 680, 2011.
    Frittelli T., Hazan M., Dopo il Covid la definizione delle responsabilità mediche e sanitarie emergenziali non può essere rimandata, in quotidianosanità.it, 2023.

  10. [10]

    La responsabilità del sanitario nel contesto della pandemia da Covid-19, in altalex.com, 2021;
    Franzoni M., Dalla colpa grave alla responsabilità professionale, Torino, 2017, pag. 73.

  11. [11]

    Ponzanelli G., La responsabilità sanitaria e i possibili contenziosi da Covid, in giustiziacivile.com, 2020.
    De Luca N., Covid-19, rischio sanitario e assicurazioni. Prime riflessioni, in Danno e Responsabilità, pag. 339, 2020.

  12. [12]

    Cass. Pen. Sent. n. 24528/2014.

  13. [13]

    Cass. civ. ord. n. 17696/2020.

  14. [14]

    Carlesino V., La responsabilità medica ai tempi del Covid-19, in altalex.com.

  15. [15]

    De Nardin M., Utilizzo di farmaci off-label nel covid 19: conseguenze pratiche ed etiche, 2020, in Rivista Med4.care;
    Frittelli T., Hazan M., Coronavirus e responsabilità professionale. Serve una norma che metta in sicurezza operatori e Asl da richieste di risarcimenti e conflitti giurisdizionali, in quotidianosanità.it, 2020.

  16. [16]

    Carlesino V., La responsabilità medica ai tempi del Covid-19, in altalex.com

  17. [17]

    Caletti G.M., Emergenza pandemica e responsabilità penali in ambito sanitario. Riflessioni a cavaliere tra “scelte strategiche” e “colpa del medico”, in Fascicolo 5/2020, www.sistemapenale.it.

  18. [18]

    Aleo S., Centonze A., Lanza E., La responsabilità penale del medico, Giuffrè, Milano, 2007, pag. 277

  19. [19]

    Apuzzo R., Luciani T., Troiano R., Responsabilità medica e pandemia da covid-19, in jdsupra.com, 2021

Alessandra Manzi

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