Scopo di questo elaborato è analizzare il rapporto tra obblighi informativi del medico, necessità del consenso informato espresso dal paziente e la responsabilità per la loro violazione. Si procederà tentando di analizzare l’ evoluzione dottrinale, giurisprudenziale e normativa per finire ai più recenti approdi della giurisprudenza di legittimità.
Obblighi informativi del medico e consenso informato: cenni.
La responsabilità medica è stata da sempre oggetto di ampio dibattito, in dottrina e in giurisprudenza, soprattutto in caso di violazione del consenso informato.
Il consenso informato è il risultato di un percorso caratterizzato dalla compiuta soddisfazione degli obblighi informativi gravanti sul sanitario e dalla tutela dell’autodeterminazione e della salute del paziente.
Consenso informato ed obblighi informativi hanno come presupposto l’asimmetria informativa. Ciò significa che il rapporto tra medico e paziente non è pienamente paritario, poiché il medico ha delle conoscenze più ampie rispetto a quelle del paziente. Tali informazioni riguardano la natura del problema medico, le possibili terapie, le conseguenze che ne possono derivare, i tempi di ripresa. Per questa ragione, a partire dagli anni ’60 del secolo scorso si è affermato il concetto di “alleanza terapeutica”. Con questa espressione, generalmente, si fa riferimento alla condivisione delle conoscenze da parte del medico e di valori da parte del paziente. Il fine ultimo è quello di tutelare la salute, nella accezione indicata dalla OMS, quale stato di completo benessere fisico psichico e sociale e non semplice assenza di malattia. Questi principi si affermano con forza nel nostro ordinamento a seguito delle varie riforme nell’ambito medico e, soprattutto, a seguito della maggior attenzione posta alla libertà di autodeterminazione dell’uomo[1].
Si impone, così, al medico, di trasmettere e condividere le informazioni con il paziente e rispettarne la volontà, avviando un dialogo costruttivo.
In passato, era sorto un acceso dibattito circa il fondamento degli obblighi informativi del medico, le caratteristiche e i presupposti del consenso informato e le conseguenze derivanti dalla sua violazione. Tali questioni si erano emerse poiché non esisteva una discplina specifica e organica sul punto, a tutela della libertà di autodeterminazione.
Per quanto riguarda la prima questione problematica, attinente al fondamento degli obblighi informativi, erano state elaborate varie tesi.
Parte della giurisprudenza di legittimità – più risalente – aveva ritenuto che fondamento dell’obbligo di informazione fosse l’art. 1337 c.c.[2] dettato in tema di trattative e formazione del contratto. Questa tesi trovava il proprio fondamento nella considerazione che l’obbligo del medico si poneva come essenziale e irrinunciabile presupposto di una corretta e consapevole manifestazione di volontà da parte del paziente. In questo senso, gli obblighi informativi sarebbero espressione del principio di buona fede, intesa in senso oggettivo, a cui le parti dovrebbero ispirarsi in una fase cosi delicata. Dalla violazione di questa norma, pertanto, discenderebbe una responsabilità precontrattuale del medico, inquadrata nell’ambito della responsabilità aquiliana[3].
Secondo altra ricostruzione, tali obblighi di informazione troverebbero il loro fondamento giuridico nell’art. 1375 c.c., dettato in tema di esecuzione del contratto. In questo modo, la buona fede a cui sarebbe tenuto il medico si inserirebbe all’interno di una fattispecie contrattuale già perfezionatasi, cioè il contratto di spedalità (tra struttura sanitaria e paziente) o la qualificata relazione nascente dal contatto sociale qualificato (tra medico e paziente)[4]. In caso di inadempimento di questi obblighi, sorgerebbe in capo al medico una responsabilità contrattuale[5].
Infine, secondo altra tesi, il fondamento degli obblighi informativi risiedeva nell’art. 1175 c.c., dettato in tema di obbligazioni in generale. Si riteneva, pertanto, che l’obbligo di buona fede si imporrebbe al medico a prescindere dalla fonte del suo rapporto con il paziente (contrattuale o meno). Si affermava, inoltre, che in questo modo l’obbligo informativo prescindeva dalla qualificazione della responsabilità quale extracontrattuale o meno[6].
La questione circa il fondamento obblighi informativi si legava così alla questione inerente alla natura della responsabilità e aveva enormi riflessi pratici. Di fatti, se si abbracciava la tesi dell’inadempimento, il paziente – nella veste di creditore – poteva limitarsi ad allegare il proprio diritto; diversamente spettava al medico – debitore dimostrare di aver agito con la diligenza dovuta e di aver adempiuto agli obblighi informativi. Invece, se si abbracciava la tesi dell’illecito spettava al paziente – danneggiato dare la prova della violazione degli obblighi informativi e del danno al proprio consenso informato[7].
Per quanto attiene alla seconda questione, relativa al consenso informato, la dottrina aveva ricostruito tale concetto sulla base di molteplici disposizioni normative.
Veniva in rilievo, in primis, l’art. 32 Cost. che considerava la salute quale diritto fondamentale e primario dell’individuo. In una prospettiva dinamica, il diritto alla salute si ricollegava alla tutela della personalità ex art. 2 Cost., con i diritti di uguaglianza ex art 3 Cost., e con la libertà della persona ex art. 13 Cost. Inoltre, si affermava che il comma 2 dell’art. 32 tutelava ulteriormente l’individuo in quanto si sanciva che egli non può essere sottoposto a trattamenti sanitari obbligatori se non in virtù di una espressa previsione normativa. Rimaneva fermo il divieto di trattamenti sanitari che contrastavano con il rispetto della persona umana[8].
Tale interpretazione era stata accolta dalla giurisprudenza di legittimità. Merita di essere ricordata, a tal proposito, la sentenza della Corte di Cassazione n° 1945/1967, che individuava la fonte del consenso informato e degli obblighi informativi direttamente nella Costituzione.
Questa ricostruzione è stata in parte superata con l’art. 33 legge 833/1978 che istituiva il servizio sanitario nazionale. Tale disposizione poneva la volontà del paziente alla base delle scelte terapeutiche, escludendo la possibilità di trattamenti sanitari posti in essere contro la volontà del paziente. In questo modo, iniziava a cristallizzarsi a livello normativo il principio del consenso informato.
A questo proposito, occorre ricordare anche la Convenzione di Oviedo sulla Biomedicina del 1997, la quale all’art. 5 sanciva la necessità del consenso del paziente per avviare qualsiasi tipo di trattamento terapeutico, in particolare in riferimento al living will; l’art. 3 della Carta di Nizza, divenuta vincolante con il trattato di Lisbona, secondo cui il consenso informato rappresentava elemento essenziale della legittimazione dei trattamenti medici[9].
Tali disposizioni, sebbene ancora non disciplinavano in modo organico tutti gli aspetti connessi al consenso informato, permettevano di individuarne in modo chiaro il fondamento giuridico e, al contempo, rappresentavano estrinsecazione delle norme costituzionali, così come interpretate dalla dottrina e dalla giurisprudenza. Queste conclusioni sono state riprese anche dalla giurisprudenza di legittimità. La Corte di Cassazione, ad esempio, aveva affermato nella sentenza del 1994, n. 10014 che il consenso informato era condizione indispensabile per intraprendere il trattamento sanitario “senza il quale l’intervento sarebbe impedito al chirurgo tanto dall’art. 32 comma 2 della Costituzione, a norma del quale nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge; quanto dall’art. 13 cost., che garantisce l’inviolabilità della libertà personale con riferimento anche alla libertà di salvaguardia della propria salute e della propria integrità fisica; e dall’art. 33 della l. 23 dicembre 1978 n. 833, che esclude la possibilità di accertamenti e di trattamenti sanitari contro la volontà del paziente se questo è in grado di prestarlo e non ricorrono i presupposti dello stato di necessità (art. 54 c.p.)”.
Alla luce delle suddette indicazioni normative, la dottrina aveva cercato di elaborare una definizione di consenso informato. Con esso si intendeva il consenso espresso dal paziente in relazione a determinati trattamenti medici e sanitari non obbligatori e formatosi in seguito a una libera scelta, sulla base delle informazioni ricevute dal medico. In questo modo si superava l’approccio paternalistico tipico del passato, secondo cui il paziente si affidava completamente e ciecamente al medico[10].
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Nonostante il consenso informato si fosse affermato a livello normativo quale principio di ordine generale e avente fondamento costituzionale, si era molto discusso circa le conseguenze giuridiche derivanti dalla sua violazione. In particolare, il tema che animava dottrina e giurisprudenza riguardava la tipologia di danno risarcibile e i criteri di liquidazione. Circa la tipologia di danno risarcibile si erano scontrate due diverse tesi.
Alcuni ritenevano che risarcibile fosse il danno patrimoniale: dalla violazione degli obblighi informativi ne derivava un danno alla salute della persona. Se tale danno alla salute comportava una riduzione della capacità patrimoniale e reddituale del soggetto, risarcibili erano i danni patrimoniali[11]. Per la liquidazione del danno, la dottrina riteneva che occorreva fare riferimento al danno emergente e al lucro cessante, sulla scorta dell’art. 1223 c.c. e 2056 c.c.[12]. Tuttavia sebbene questa tesi aveva avuto l’enorme pregio di ammettere la risarcibilità del danno derivante da lesione della libertà di autodeterminazione, era stata ampiamente criticata. Infatti, i critici avevano sostenuto che non sempre la lesione del consenso informato comportasse la lesione del bene salute; che in questo modo si realizzasse la mercificazione un bene primario (quale la libertà e la salute) non avente carattere patrimoniale. Altra tesi affermava, invece, che oggetto di risarcimento fossero i danni non patrimoniali ex art. 2059 c.c.[13]
Tuttavia, anche quest’ultima aveva comportato delle difficoltà. Infatti, la dottrina – in un primo momento – aveva abbracciato una interpretazione restrittiva dell’art. 2059 c.c. ammettendolo solo in presenza di una specifica norma di legge. Il caso più frequente era il danno cagionato da un fatto che oltre a essere illecito ai sensi dell’art. 2043 c.c., costituisse anche illecito penale[14]. Così ammettendo, qualora la violazione del consenso informato non integrava gli estremi del reato oppure non fosse stato espressamente previsto per legge, non comportava la risarcibilità del danno non patrimoniale.
Circa di criteri di liquidazione, si era affermata in giurisprudenza l’idea che il danno doveva essere liquidato dal giudice in via equitativa. Sul punto, la giurisprudenza di legittimità aveva, di fatto, affermato, che tale tipologia di danno sfuggiva a qualsiasi valutazione analitica ma restava affidata a appezzamenti discrezionali. Il giudice doveva, però, tener conto delle effettive sofferenze patite dall’offeso, dalla gravità della fattispecie concreta e delle altre circostanze concretamente realizzatesi[15].
L’evoluzione dottrinale e giurisprudenziale
A partire dagli ultimi anni ’90, la mancanza di una specifica e organica disciplina normativa, ha spinto dottrina e giurisprudenza ad individuare in via interpretativa i caratteri del consenso informato e degli obblighi informativi del medico. Sul punto, infatti vi è stato un processo evolutivo durato quasi vent’anni.
Il primo problema era quello di specificare l’ampiezza dell’informazione doverosa e i caratteri del consenso.
Circa la portata degli obblighi informativi, leading case è stata la sentenza della Corte di Cassazione n°14638/2004. In questa occasione, la Corte aveva specificato che il medico ha il dovere di informare il paziente sulla natura dell’intervento, sulla portata ed estensione dei risultati, sulle possibilità e probabilità dei risultati conseguibili, sullo stato di efficienza e sul livello di dotazioni della struttura sanitaria, sui rischi prevedibili[16].
Sulla base di questa pronuncia, la giurisprudenza aveva affermato che il contenuto dell’informazione doveva essere adeguato allo specifico standard professionale e alla corretta prassi medica. Inoltre, l’informazione doveva essere completa purché adeguata alle conoscenze del paziente, al suo grado culturale, alle capacità di comprensione. In particolare, era stata elaborata la figura del paziente medio e ragionevole, con cui si intendeva indicare quel soggetto mediamente ragionevole. Si parlava di “informazione circostanziata” per indicare la necessità di calibrare l’informazione affinché fosse compresa dal paziente[17]. Sulla base di queste conclusioni, la giurisprudenza dei primi anni 2000 aveva stilato una sorta di catalogo dei doveri informativi del medico nei confronti del paziente. Si specificava, così, che il medico doveva informare circa la natura del trattamento; se l’operazione riguardava operazioni particolarmente complesse, con fasi e rischi distinti, l’informazione doveva riguardare ogni singola fase; i rischi prevedibili; la situazione della struttura ospedaliera dove il trattamento veniva eseguito; la presenza o la mancanza delle necessarie apparecchiature e il loro regolare funzionamento; la presenza di strutture con le apparecchiature richieste e necessarie; le scelte alternative e i rischi ad essi connessi[18].
Condividendo tali principi, la dottrina aveva solo specificato che l’informazione non doveva prendere le sembianze di una lezione di scienze, anche perché il paziente non sarebbe stato in grado di comprenderla[19]. Circa le modalità di comunicazione, la dottrina aveva affermato che l’informazione doveva essere data in modo chiaro, comprensibile, non contraddittorio, adeguato al livello intellettivo e culturale del paziente. Pertanto vi doveva essere un bilanciamento delle informazioni date, coerenza dei messaggi ed efficienza delle comunicazioni. Questo bilanciamento comportava che il medico non enfatizzasse i benefici rispetto ai rischi del trattamento o viceversa. La coerenza e l’efficacia comportavano che il medico doveva illustrare e coniugare il beneficio collettivo con quello individuale atteso dal paziente. Per cui non era necessario utilizzare una specifica forma: il medico poteva assolvere agli obblighi informativi in qualsiasi modo, avvalendosi di un dialogo orale oppure attraverso prospetti e formulari, che non sostituiscono totalmente l’approccio diretto e sostanziale. Per la dottrina, dunque, vigeva il principio di libertà delle forme[20].
Di recente, questi principi sono stati ripresi dalla giurisprudenza di legittimità. Il caso prospettato alla Corte riguardava un intervenuto chirurgico di rimozione di un tatuaggio. In questa occasione, è stato affermato che l’informazione del medico può essere realizzata in qualsiasi modo, anche attraverso un disegno sulle parti del corpo del paziente, in modo da indicare i tagli e le aree colpite dall’intervento, gli esiti cicatriziali conseguenti[21].
Circa i caratteri del consenso, la dottrina aveva affermato che il consenso doveva essere personale. Ciò significava che esso doveva essere manifestato direttamente dal paziente, in quanto espressione di un diritto personalissimo. Tuttavia, ciò presupponeva che il paziente fosse cosciente e capace nel momento in cui manifestava la propria volontà . Si richiedeva, dunque, sussistenza della capacità naturale. Faceva eccezione il caso di soggetti minori, infermi, interdetti o incapaci. In tali ipotesi, il consenso doveva essere manifestato da chi ne avesse la potestà, ad esempio dall’amministratore di sostegno se autorizzato o dal tutore. Per la dottrina il potere di questi soggetti trovava il proprio fondamento negli articoli 320 e 357 c.c.[22].
Questa tesi era stata pienamente abbracciata dalla giurisprudenza sia di merito che di legittimità. I giudici avevano, di fatti, affermato che qualora il paziente versi in una situazione di incapacità, in virtù della personalità del consenso, non può a lui sostituirsi un familiare, quale nuncius, ma soltanto il soggetto legittimato per legge[23].
Si era affermato, inoltre, che ricorrono i presupposti affinché la decisione in merito al consenso al trattamento sanitario venga rimessa all’amministratore di sostegno quando l’interessato non abbia la capacità naturale necessaria ad esprimere un consenso o un rifiuto consapevole, in relazione al trattamento chirurgico prospettato dai sanitari; né vi è la probabilità che l’interessato riacquisti in tempi brevi la capacità d’intendere e di volere idonea a consentirle una decisione consapevole, mentre d’altro canto l’intervento sanitario è manifestamente necessario ed urgente[24]. Pertanto, l’attività del medico che acquisiva il consenso senza la piena capacità del paziente era considerata totalmente scorretta[25].
In secondo luogo si affermava che il consenso doveva essere esplicito. Ciò implicava non l’uso di una particolare forma, bensì che il paziente si esprimesse in modo chiaro e univoco. Tuttavia la dottrina aveva messo in luce che la necessità di raccogliere e conservare nel tempo il consenso aveva portato alla predisposizione di moduli, i quali spesso comportavano la burocratizzazione e la spersonalizzazione dell’alleanza terapeutica. Questo si verificava poiché il medico trascurava la dimensione sostanziale del rapporto con il paziente, affidandosi solo a pratiche formali. La dottrina, in modo piuttosto fermo, aveva evidenziato che il consenso così raccolto non aveva alcun valore né efficacia probatoria, poiché l’uso di formulari non può costituire surrogato del rapporto medico – paziente. Ciò perché i formulari ripotavano solo diciture e informazioni generali, aspecifiche, non calibrate sulla reale situazione del paziente. Essi potevano agevolare o aiutare la raccolta e la conservazione del consenso, purché fosse comunque presente l’apporto sostanziale del medico[26].
Sul punto era intervenuta anche la giurisprudenza affermando che l’uso di formulari non permetterebbe al medico di adempiere ai propri doveri informativi. L’informazione, di fatti, sarebbe sintetica, non dettagliata, generica e non si indicherebbero i benefici e i rischi delle procedure addizionali o le diverse procedure. Pertanto, non potrebbe ritenersi che il paziente sia stato messo in condizione di esercitare in modo consapevole il proprio diritto di autodeterminazione. Per i giudici, dunque, il consenso informato non doveva essere confuso con il consenso documentato[27].
Per cercare di fornire soluzione a questo problema in varie occasioni è intervenuto il legislatore stabilendo l’uso della forma scritta in relazione ad alcuni specifici trattamenti. Basti ricordare il D.lgs. 2003 n°211 in tema di sperimentazione clinica e la legge 40/2004 in tema di procreazione medicalmente assistita. Tuttavia la dottrina aveva affermato che queste norme non avevano valenza generale, ma riguardavano gli specifici trattamenti medici presi in esame. Pertanto, al di là di queste ipotesi, continuava a valere il principio di libertà delle forme e rimaneva aperto il problema legato all’uso di formulari.
Più di recente la giurisprudenza di legittimità aveva escluso qualsiasi forma di consenso presunto, acquisito in forma orale e in modo improprio[28]. Tuttavia, parte della dottrina aveva affermato che la specifica forma scritta richiesta in questa pronuncia era fortemente limitato al caso di specie, ma non poteva assurgere a principio generale, a causa della assenza di una specifica previsione normativa. Di fatti, nel caso in questione, la Corte si era occupata delle informazioni date ad una paziente straniera, che non conosceva la lingua italiana e senza un interprete. Per la dottrina, dunque, in questo caso la Corte non avrebbe negato il principio di libertà delle forme, ma avrebbe semplicemente sottolineato che il consenso informato doveva essere reso in forma esplicita e con forme adeguate al paziente, sulla base del caso concreto[29].
In terzo luogo, il consenso deve essere specifico. Ciò significava che il consenso dovrebbe essere prestato per ogni tipologia di trattamento da realizzare. Non erano ritenute ammissibili deleghe in bianco. Il consenso, dunque, non poteva essere né generico né onnicomprensivo, se non nei casi di interventi di routine o a basso rischio. In presenza di interventi particolarmente complessi, articolati in varie fasi, contrassegnate da rischi e difficoltà diverse, il consenso doveva riguardare ogni singola fase.
Inoltre, si riteneva che il consenso doveva essere libero e spontaneo. Per cui, doveva essere prestato in totale assenza da pressioni, suggestioni o coartazioni di qualsiasi tipo. I medici e i famigliari avrebbero dovuto, dunque, astenersi da ogni forma di coercizione diretta o indiretta, anche se posti in essere in buona fede[30].
La dottrina aveva affermato, oltre a ciò, che il consenso dovrebbe essere attuale. Tale requisito serviva a garantire la genuinità e l’effettività della volontà espressa dal paziente. Era stato messo in evidenza, infatti, che un consenso manifestato molto in anticipo rispetto ad un trattamento potrebbe non rispecchiare più la volontà del paziente. Il paziente potrebbe in qualsiasi momento – prima del trattamento – modificare la propria volontà.
Rispetto a tale carattere, si era posto però un problema che si verificava nel momento in cui, dopo la manifestazione di volontà, il paziente diveniva incosciente o incapace, tanto da non poter confermare la volontà passata. Sul punto erano sorte due diverse tesi. Alcuni ritenevano di dover rispettare la volontà del paziente, sebbene non attuale. Questa tesi trovava il suo fondamento nella necessità di tutelare al massimo grado la libertà di autodeterminazione del soggetto, che comunque si era manifestata. Per altri, invece, la manifestazione di volontà non attuale doveva essere considerata invalida e per questo motivo ci si poteva rivolgere alla volontà espressa da chi ne fa le veci (tutore o amministratore di sostegno)[31].
Il consenso doveva essere, quindi, revocabile. Per la dottrina, la revocabilità era l’ovvia conseguenza della attualità. Pertanto, il consenso poteva essere revocato fino all’inizio del trattamento. Diversamente, il trattamento diveniva obbligatorio e posto in essere in violazione dell’art. 32 Cost.
Infine, il consenso doveva essere informato e comportava una specifica e particolareggiata informazione da parte del sanitario. Il consenso, dunque, trovava la propria ragione nell’adempimento degli obblighi informativi da parte del medico.
Delineati, in questo modo, i caratteri dell’informazione doverosa e del consenso informato, ci si era chiesti se l’omessa informazione era foriera di conseguenze giuridiche anche se il trattamento era stato eseguito diligentemente (a causa della sola lesione dell’autodeterminazione del paziente) o sorgeva quando dell’intervento derivasse una lesione della salute. La giurisprudenza più risalente aveva ritenuto di dover distinguere varie situazioni. Se l’intervento non era necessario (come nel caso di un trattamento estetico) il dovere di informazione del medico diventava più gravoso, più penetrante, dovendo prospettare in modo assolutamente preciso le possibili conseguenze negative e le ragioni che renderebbero inutili il trattamento, sulla base del risultato sperato. L’omessa informazione, dunque, comportava la responsabilità del medico qualora dall’intervento derivasse un evento dannoso[32].
Questa ricostruzione, tuttavia, era stata messa in crisi dai giudici di merito. Sulla base dei principi sopra esposti e del fondamento costituzionale del consenso informato, si era diffusa l’idea secondo cui il medico era responsabile per violazione del consenso informato anche nel caso in cui l’intervento fosse stato eseguito in maniera corretta e non ne fosse derivato un danno alla salute[33]. Tale tesi trovava il proprio fondamento nel fatto che il consenso era considerato condizione imprescindibile del trattamento. Tuttavia, i giudici di merito avevano anche sottolineato che – in caso di omessa informazione – qualora dall’intervento non derivi alcun danno alla salute, la lesione del diritto di autodeterminazione produce sì un danno (non patrimoniale) seppur ontologicamente trascurabile o comunque di entità economica non apprezzabile[34].
Di particolare importanza sul punto era stata la sentenza della Corte di Cassazione n°54444/2006. Per la Corte, l’adempimento degli obblighi informativi e l’acquisizione del consenso informato costituiscono violazioni da cui discende una responsabilità per il medico, a prescindere dal fatto che il trattamento sia stato o meno eseguito in modo corretto. La correttezza o meno del trattamento, infatti, non sarebbe rilevante ai fini della sussistenza dell’illecito per violazione del consenso informato, in quanto è del tutto indifferente al fine della configurazione della condotta omissiva. L’ingiustizia del fatto sussisterebbe, dunque, per la semplice ragione che il paziente non è stato messo in condizione di accettare o meno il trattamento mediante una consapevole volontà.
Questa tesi permetteva così di scindere il danno da lesione dell’autodeterminazione dal danno alla salute e di tutelare al massimo grado la volontà libera e consapevole del paziente. Per tale ragione, essa è stata ampiamente abbracciata dalla giurisprudenza successiva[35] e da quella costituzionale. A tal proposito di indubbia importanza è la sentenza della Corte Costituzionale n°438/2008. In questa occasione la suprema Corte aveva accolto i principi già diffusi, secondo cui il consenso informato doveva essere inteso quale espressione della libertà individuale. La Corte aveva ricordato che esso si configurava quale vero e proprio diritto della persona, il cui fondamento era individuabile nella Costituzione e, dunque, rappresenterebbe una sintesi tra due diritti fondamentali: libertà e salute. Alla luce di queste premesse, la Corte cristallizzava il risultato della giurisprudenza di legittimità, riconoscendo che la violazione del consenso informato comportava una lesione diversa dal bene salute.
Il duplice intervento delle massime Corti ha permesso, così, di elaborare un principio di diritto diffuso quasi in maniera unanime nella giurisprudenza successiva. I giudici, in molteplici occasioni, avevano ribadito che il medico era tenuto a eseguire due prestazioni diverse e autonome: l’una volta all’informazione e all’acquisizione del consenso, l’altra volta all’esecuzione della prestazione. Il consenso diveniva così bene giuridico autonomo dal bene salute e in caso di lesione, si affermava la risarcibilità del danno [36].
Tuttavia parte della dottrina aveva ritenuto questo orientamento eccessivamente rigido. Per mitigare le conclusioni della giurisprudenza si era affermato che il diritto alla autodeterminazione doveva essere valutato non in astratto ma in concreto. Ciò significava che doveva essere valutato alla luce delle effettive possibilità del paziente di rapportarsi e comprendere l’atto medico. Per cui, qualora si dimostri che non vi sarebbero trattamenti alternativi e che il paziente – anche se correttamente informato – si sarebbe sottoposto al trattamento nel medesimo tempo e nelle medesime modalità, allora non ci sarebbe stato alcun rilevante inadempimento del medico e nessuna responsabilità. Diversamente, se l’omessa o la parziale informazione ha spinto il paziente a scegliere un trattamento che altrimenti sarebbe stato diverso, per modalità e tempi, allora vi sarebbe responsabilità per lesione del principio di autodeterminazione[37].
Posto così il principio dell’autonomia del consenso informato rispetto alla salute, la giurisprudenza si era espressa anche sulla particolare natura della responsabilità derivante dalla violazione degli obblighi informativi. Pertanto, in caso di violazione da parte del medico sorgeva, nei confronti della struttura sanitaria presso cui operava, una responsabilità da inadempimento. La struttura sanitaria, infatti, avrebbe nei confronti del paziente “obblighi di protezione, di messa a disposizione del personale e di tutte le attrezzature necessarie”. Ne conseguiva che la responsabilità della struttura trovava fondamento nell’art. 1218 c.c., in caso di inadempimento delle obbligazioni a suo carico; nell’art. 1228 c.c. in caso di inadempimento degli obblighi gravanti sul singolo medico che agiva quale ausiliario della struttura. Si affermava così, la natura contrattuale della responsabilità – sia del medico sia della struttura sanitaria – dovuta alla violazione del consenso informato e degli obblighi informativi[38].
Secondo parte della dottrina, tali principi si dovevano applicare sia in presenza di strutture pubbliche che private, poiché sarebbe irrilevante la natura dell’ente a fronte di obblighi di fonte normativa. In questo modo, inoltre, si sarebbe garantito il pieno ed equale rispetto di un bene costituzionalmente tutelato[39].
Circa la tipologia del danno risarcibile, timidamente la giurisprudenza di merito aveva abbracciato la tesi della natura non patrimoniale dei danni sofferti dal paziente[40]. Questa impostazione si era affermata perché lentamente, in via interpretativa, era stato ampliato l’ambito di applicazione dell’art. 2059 c.c. Infatti, il danno non patrimoniale era stato svincolato dal reato e dal processo penale e ciò aveva reso possibile una alternativa tutela civile dei diritti fondamentali della persona[41]. Sulla base di queste premesse, la giurisprudenza aveva cercato di interpretare in modo costituzionalmente conforme l’art. 2059 c.c., in modo da rafforzare la tutela dei diritti inviolabili dell’uomo. Così facendo, il concetto di danno non patrimoniale non era più inteso come pretium doloris, bensì come lesione di diritti inerenti la persona, costituzionalmente protetti e non suscettibili di valutazione economica[42].
All’interno di questo contesto, di grande importanza è stata la sentenza della Corte di Cassazione n° 26972/2008 nota come “Prima sentenza San Martino”. Essa faceva parte di un quartetto emesso dalla Corte in data 11 novembre, attraverso cui si tentava di riordinare i principi nel settore della responsabilità medica. La sentenza in questione si occupava dello specifico tema del consenso informato e del danno non patrimoniale. Presupposto del ragionamento della Corte era la tesi secondo cui il consenso informato sarebbe elemento strutturale dei cosiddetti “contratti di protezione”, quali appunto sono quelli che si stipulano nel settore medico. In questi, gli interessi da realizzare atterrebbero alla sfera della salute in senso ampio, tanto che l’inadempimento del debitore sarebbe suscettibile di ledere i diritti inviolabili della persona. Sul punto, era stato affermato che, in seguito alla interpretazione costituzionalmente orientata, era possibile parlare di danni non patrimoniali anche nell’ambito della responsabilità contrattuale, in virtù del principio del necessario riconoscimento della minima tutela. Per la Corte, inoltre, se l’inadempimento determinava oltre alla violazione di diritti rilevanza economica, anche la lesione di un diritto inviolabile della persona, la tutela risarcitoria del danno non patrimoniale poteva essere versata nell’azione di responsabilità contrattuale, senza ricorrere al cumulo di azioni. Le conclusioni di questa pronuncia sono stati accolte anche dalla giurisprudenza successiva[43]. Si risolveva così la disputa circa la natura patrimoniale o meno del danno, sancendo dei principi condivisi pressoché unanimemente.
Ai fini del risarcimento, la giurisprudenza riteneva necessario l’allegazione e la dimostrazione del danno da parte del paziente. Sul punto i giudici di merito avevano affermato che andrebbe rigettata la richiesta risarcitoria in assenza di qualsiasi tipo di allegazione o dimostrazione del danno – conseguenza subito. Per i giudici, infatti, la lesione del diritto di autodeterminazione non sarebbe mai in re ipsa, motivo per cui non sarebbe ammissibile la prova per presunzioni. Pertanto, graverebbe sul ricorrente l’onere di allegare le specifiche sofferenze o il peggioramento delle proprie condizioni di vita in seguito al trattamento subito[44].
Sul punto, la Cassazione aveva, invece, affermato che la prova del consenso spetterebbe al medico. Infatti, per la Corte, l’illustrazione al paziente delle conseguenze della terapia o dell’intervento costituisce una obbligazione, il cui adempimento deve essere provato dal medico a fronte della contestazione formulata dalla parte[45].
Più di recente, è stato specificato che spetti al paziente dimostrare la sussistenza del nesso causale tra le lesione del diritto all’autodeterminazione e la lesione della salute, derivante da una prevedibile conseguenza di un intervento chirurgico correttamente eseguito, ma non correttamente assentito dal paziente. Il paziente dovrebbe così provare – anche mediante presunzioni – che ove adeguatamente informato, avrebbe rifiutato l’intervento. In secondo luogo, il paziente avrebbe anche l’onere di dimostrare la sussistenza del danno derivante dalla mancata informazione: danno declinabile sia in termini di lesione del diritto alla salute (per le conseguenze invalidanti derivanti dall’intervento) sia in termini di lesione del diritto all’autodeterminazione (purché ne sia derivato un pregiudizio non patrimoniale di apprezzabile entità)[46].
Circa i criteri di liquidazione, la giurisprudenza di legittimità aveva ritenuto che occorreva fare riferimento al principio di equità. Tuttavia, per evitare che danni uguali venissero liquidati in modo anche molto diverso dai vari uffici giudiziari e per garantire che tutte le liquidazioni fossero davvero eque, erano stati fissati alcuni principi. In primis, si era affermato che il concetto di equità, di cui all’art. 1226 c.c. si componeva di due elementi: la valutazione di tutte le circostanze del caso concreto e la parità di trattamento tra casi simili. Inoltre, si affermava che la liquidazione del danno dovrebbe sì garantire l’adeguato apprezzamento delle conseguenze che ne sono derivate, ma dovrebbe anche garantire che pregiudizi di natura identica e che abbiano prodotto le medesime conseguenze debbano essere risarciti in modo identico[47]. Affinché si produca questo risultato, per la Corte – quando manchino criteri stabiliti dalla legge – i criteri di liquidazione a cui tutti i giudici dovrebbero attenersi sono quelli individuati dal Tribunale di Milano, a meno che non sussistano circostanze concrete che ne permettano l’abbandono.
Tale interpretazione è stata in parte assorbita dalla legge Balduzzi (legge 189/2012)[48] prima e poi dalla legge Gelli Bianco ( legge 24/2017) che avevano dettato, per via normativa, i criteri di liquidazione del danno non patrimoniale facendo riferimento anche alle disposizione di cui agli art. 2056 e 1226 c.c.
La recente disciplina contenuta nella 219 del 2017
A fronte di questa complessa evoluzione giurisprudenziale nel 2017 è intervenuto il legislatore con la legge n° 219. Si tratta di un importante intervento normativo perché per la prima volta è stato disciplinato in modo organico il consenso informato.
La recente normativa, infatti, muove dalla esigenza di prestare tutela alla libera autodeterminazione sia in presenza di situazioni ordinarie sia in situazioni straordinarie, cioè anche pro futuro. Parte della dottrina afferma che – così facendo – si è definitivamente superata la visione dualista corpo – persona (attraverso sui si concepiva il corpo come una res oggetto di diritti distinti dalla persona). Con tale legge, invece, il corpo verrebbe inteso quale elemento indistinguibile dalla persona e insuscettibile di essere ricondotto a logiche proprietarie. Tale impostazione ha inciso ancor di più sul concetto di alleanza terapeutica che funge da presupposto agli obblighi informativi e al consenso informato[49].
Questa alleanza terapeutica, il cui rafforzamento costituisce la ratio legis, viene espressa dalla legge con l’espressione “relazione di cura e di fiducia”, nella quale il malato sembra riacquistare piena soggettività e si renderebbe parte attiva del processo decisionale mediante il proprio consenso informato[50].
Si evidenza che il dato normativo e le scelte linguistiche compiute dal legislatore sembrino abbracciare l’idea secondo cui la cura non è più un principio autoritativo, ma si dovrebbe declinare secondo le richieste e le aspettative del paziente; la fiducia, invece, implicherebbe un affidamento e sarebbe espressione di una relazione in origine asimmetrica ma che trova una composizione non gerarchica ma pienamente paritaria. La legge non farebbe altro, dunque, che porre sullo stesso piano il medico e il paziente; traduce l’incontro tra due competenze diverse in quanto all’oggetto ma eguali rispetto alla loro rilevanza. Pertanto, il processo relazionale di decisione diviene l’acme di un itinerario, che dal punto di vista giuridico può assumere il connotato di un iter, ma dal punto di vista fattuale deve intendersi quale cammino, un succedersi di fasi che vanno previste, coordinate e attuate con attenzione[51].
Rispetto alla precedente ricostruzione fornita dalla dottrina e dalla giurisprudenza prevalente, la nuova legge presenta alcuni elementi di continuità e alcuni elementi di novità.
Tra gli elementi di continuità vi rientrano le disposizioni relative al contenuto, alle modalità dell’informazione e alla tutela dei soggetti incapaci.
Circa il contenuto dell’informazione doverosa viene in rilievo l’art. 1 comma 1 – 6. Si riprendono, così, i principi già messi in evidenza, secondo cui l’informazione deve riguardare la diagnosi, la prognosi, i benefici, i rischi, le possibili trattative, le conseguenze. Il paziente può anche rifiutare le informazioni, ma il rifiuto deve essere indicato nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico.
Circa le modalità di informazione, la legge non prevede una forma specifica attraverso cui devono essere adempiuti tali obblighi. Pertanto, sembra valere ancora il principio di libertà delle forme, purché l’informazione sia adeguata alle condizioni del paziente e completa. Parte della dottrina, infatti, ritiene che proprio il tema della comunicazione delle informazioni al paziente sia essenziale per creare una relazione di cura e di fiducia. Per questa ragione il processo comunicativo dovrebbe svolgersi attraverso un linguaggio appropriato, caratterizzato da un doppio binario: da una parte la necessità di spiegare, dall’altra la necessità di comprendere le esigenze e le intenzioni del paziente[52].
Per quanto riguarda il consenso espresso dai soggetti incapaci, viene in rilievo l’art. 3 commi 1 – 5. Anche sul punto la legge sembra riprendere l’interpretazione precedente, resa alla luce delle norme codicistiche. Pertanto, in caso di soggetti minori di età, interdetti, inabilitati e sottoposti ad amministrazione di sostegno, il consenso deve essere manifestato dal tutore, dall’amministratore se autorizzato o dall’esercente la potestà. La legge, inoltre, apprezza le condizioni del minore o dell’inabilitato: in questo caso, il sanitario può rivolgere l’informazione anche a tali soggetti e richiederne il consenso, valorizzando e tenendo conto le proprie capacità di decisione e di comprensione. In caso di eventuali conflitti tra il tutore/ l’esercente/ amministratore di sostegno e il medico sulla necessità o la tipologia delle cure, si richiama la disciplina del codice civile che prevede l’intervento del giudice tutelare.
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Sotto altro aspetto, la legge 219/2017 introduce numerose novità in tema di consenso informato. Il primo aspetto da evidenziare riguarda la pluralità di soggetti coinvolti nella relazione di cura e di fiducia. A tal proposito, è stato rilevato che tale relazione non si compone di due soli soggetti, ma viene pensata dal legislatore quale relazione aperta. Essa, infatti, coinvolge l’equipe di sanitari da una parte, i familiari o altre persone di fiducia dall’altra. I primi partecipano in quanto contribuiscono alla cura e alla tutela del soggetto, anche se in via indiretta e mediata. I secondi partecipano in quanto membri della dimensione privata, personale, esistenziale del paziente[53].
All’interno di questo contesto, di particolare importanza è la figura del fiduciario, ossia di quella persona di fiducia indicato dal paziente. La legge gli assegna diversi compiti: egli può essere, infatti, mero destinatario e custode delle informazioni concernenti il paziente; può svolgere una funzione di vigilanza e garanzia quando sia chiamato a controllare la effettiva e puntuale attuazione della volontà del paziente; può svolgere un ruolo decisionale quando è chiamato ad assumere una scelta al posto del paziente.
Alla luce del dato normativo, parte della dottrina mette in evidenza la difficoltà di inquadrare nell’ambito dei diritti personalissimi un istituto che il codice disciplina nella parte relativa ai rapporti patrimoniali e soprattutto di accertare l’ampiezza dei poteri attribuiti allo stesso dal paziente in merito alle cure. Si ritiene, tuttavia, che quest’ultima difficoltà potrebbe essere superata prendendo in considerazione la volontà del paziente e le dichiarazioni rese nella fase di programmazione delle cure. In questa fase, per così dire iniziale e propedeutica, si dovrebbe mettere il paziente nella condizione di nominare il fiduciario e di indicarne i poteri[54].
In questo modo, la figura del fiduciante sarebbe di grande importanza per risolvere il problema rimasto aperto nella giurisprudenza e nella dottrina precedente, riguardante la mancanza del requisito dell’attualità del consenso. Infatti, se il paziente dispone che sia il fiduciario a ricevere le informazioni e esprimere il consenso (nell’ipotesi di una sua incapacità futura), il requisito dell’attualità del consenso dovrebbe essere riferito alla manifestazione di volontà del fiduciante. Ciò non comporterebbe violazione dell’autodeterminazione del paziente, poiché alla base del consenso del fiduciante vi sarebbe pur sempre un atto consapevolmente e liberamente posto in essere dal paziente divenuto incapace. I principi così esposti possono essere derogati solo nei casi espressamente previsti dalla legge. Ciò si verifica nel caso in cui la volontà del paziente appaia palesemente incongrua; non più corrispondente alla condizione clinica attuale; sono state elaborate e introdotte nuove terapie non prevedibili al momento della manifestazione di volontà, capaci di offrire concrete possibilità di miglioramento delle condizioni di vita[55].
Un problema di grande importanza pratica si pone nel caso di contrasto tra il parere del medico e quello del fiduciario. Sul punto la legge 219 rimette la questione al giudice tutelare. Tuttavia, ci si chiede se, nelle more della decisione, il medico possa avviare o continuare le cure ritenute necessarie e appropriate o se debba comunque tener conto del consenso espresso (anche nei termini del rifiuto del trattamento).
Parte della dottrina, ritiene che si debba considerare l’art. 8 della Convenzione di Oviedo e l’art. 37 del nuovo codice deontologico, secondo cui in situazioni di emergenza, si può procedere immediatamente al trattamento medico indispensabile a tutelare la salute e la vita della persona, a prescindere dal consenso. Il medico, dunque, avrebbe il dovere di insistere nell’applicazione della cura ritenuta necessaria e appropriata anche contro la diversa volontà del fiduciario. In questo caso, verrebbe in rilievo l’esigenza di tutela della salute e della vita, quali beni costituzionalmente sanciti, e permetterebbe una compressione legittima del consenso del fiduciario[56].
Altra parte della dottrina, invece, ritiene che anche in presenza di un intervento necessario e urgente il medico non possa prescindere dal consenso informato del fiduciario. Sebbene, infatti, il trattamento sia necessario alla sopravvivenza del paziente, l’assenza del consenso renderebbe l’intervento del medico un fatto produttivo di responsabilità civile, per violazione della libertà di autodeterminazione[57].
Diverso, invece, il caso in cui un trattamento non presenti i caratteri dell’urgenza. In questa ipotesi, il medico non potrebbe agire in assenza del consenso del fiduciario, poiché altrimenti si avrebbe illegittima comprensione del consenso[58].
Qualora, invece, sorga un contrasto tra fiduciario e incapace, diverse sarebbero le conseguenze giuridiche. Parte della dottrina, infatti, ritiene che il medico che abbia fatto affidamento sul consenso informato espresso dal fiduciario non incorre in responsabilità, qualora abbia iniziato o continuato un trattamento necessario anche se non urgente. Tuttavia, nulla esclude che il paziente – divenuto nuovamente capace – possa impugnare il consenso espresso dal fiduciario qualora difforme alle proprie volontà manifestatasi. Andrebbe, però, negata la responsabilità del medico, poiché comunque egli avrebbe adempiuto i propri obblighi informativi e avrebbe fatto affidamento sul consenso espresso dalla persona legittimata[59].
Altro aspetto espressamente disciplinato dalla legge riguarda la revoca del consenso, in relazione a trattamenti sanitari già in atto. A tal proposito, si afferma che il legislatore ha finalmente distinto la revoca dal rifiuto, consapevole della differenza pratica tra questi due concetti. Il rifiuto, di fatti, presuppone che il trattamento medico non sia ancora iniziato; la revoca comporta la rottura dell’alleanza terapeutica e, nella maggior parte dei casi, imporrebbe al medico di intervenire per assecondare la volontà del paziente[60]. Queste conclusioni costituirebbero una novità rispetto al passato, posto che era ferma convinzione che il consenso potesse essere revocato finché il trattamento non fosse iniziato. Tale novità troverebbe la sua giustificazione nello stesso art. 32 comma 2 Cost. e nell’art. 1 comma 1 della legge in questione. La revoca del trattamento già in corso diviene, così, espressione della personalità e della identità della persona, nell’ottica di una globale manifestazione della propria integrità fisica, psichica, morale, culturale e sociale. La revoca, dunque, si porrebbe a garanzia della libertà di cura e di autodeterminazione e sarebbe espressione di quella relazione comunicativa in continuo divenire. Non è ius poenitendi del codice civile, ma è atto di autonomia e non è riconducibile ai tradizionali schemi. Il consenso non è più un consenso iniziale, ma un consenso che sostiene il trattamento nel corso di tutta la durata del rapporto medico – paziente, come condizione di legittimità. La revocabilità del consenso trova, inoltre, la propria ratio nell’idea secondo cui il paziente non instaura con il sanitario un rapporto obbligatorio che comprime la sua libera autodeterminazione.[61].
Circa l’oggetto della revoca, la legge riconosce tale diritto non soltanto in presenza di trattamenti “ordinari” ma anche in presenza di trattamenti necessari alla sopravvivenza (nutrizione artificiale, idratazione artificiale intesi come somministrazione, su prescrizione medica, di nutrienti mediante dispositivi medici). Il paziente, dunque, ha il diritto di revocare il consenso in relazione a cure salva vita. Il medico, pertanto, dopo la revoca non è più legittimato a somministrare tali cure. Diversamente, la sua condotta lederebbe la libertà di autodeterminazione e diverrebbe illecita. In questo caso, dinnanzi alla revoca del consenso, il sanitario potrebbe solo attivare una strategia di persuasione, di supporto o di solidarietà dinanzi alla situazione di debolezza e di sofferenza[62].
Altro profilo caratterizzato da tratti innovanti riguarda la forma del consenso. Ai sensi dell’art. 1 comma 4, la legge stabilisce espressamente che il consenso deve essere documentato, in forma scritta, attraverso videoregistrazioni o attraverso altri dispostivi che consentono alla persona di comunicare le proprie volontà e di conservarle nel tempo. Il consenso così espresso deve, inoltre, essere inserito all’interno della cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico. In tema di DAT, data la sacralità del volere del paziente, è richiesto un requisito più solenne, consistente nella scrittura privata autenticata o nell’atto pubblico. L’ordinamento dunque richiede – in questo caso – la presenza non solo del medico ma anche del notaio, il quale è chiamato a verificare l’informazione realizzata dal medico e la consapevolezza del consenso espresso dal paziente. In questo specifico settore, inoltre, viene istituita una banca dati nazionale volta a conservare e preservare la volontà del paziente, garantendo anche piena tutela al diritto alla privacy.
La previsione di una forma scritta permette di superare il principio di libertà delle forme che aveva caratterizzato l’impostazione precedente. Sebbene abbia lo scopo di garantire la certezza nelle relazioni tra medico e paziente, esso comporta alcuni problemi pratici. Parte della dottrina, infatti, evidenzia che in presenza della forma scritta occorre comprendere se il medico debba verificare anche l’esistenza della capacità nel paziente, l’adeguata comprensione delle informazioni ricevute e del valore del documento, la conformità del consenso alle disposizioni di legge. Sul punto, si ritiene che il medico possa avvalersi anche di presunzioni, sulla base della specifica forma richiesta dalla legge. Ad esempio, in tema di DAT, il medico potrebbe avvalersi delle presunzioni per dimostrare che le disposizioni provengano da persona capace e siano rese mediante atto pubblico o privato autenticato. Questa situazione si imporrebbe perché, altrimenti, la prestazione del medico diventerebbe eccessivamente gravosa e si finirebbe per chiedergli lo svolgimento di una attività tipica di altre figure professionali[63]. Per dimostrare, invece, l’adeguata informazione e la consapevolezza del paziente, si ritiene si possa ricorrere anche all’ autocertificazione, che dovrebbe essere presentata dal paziente e attraverso cui si attesti l’adempimento da parte del medico di tutti gli obblighi informativi, compresi quelli attinenti alla forma del consenso[64].
Più di recente, sul tema sono intervenute le Linee Guida, pubblicate con circolare 1/2018, dell’Agenzia per l’Italia Digitale (AGID) realizzate in collaborazione con il Ministero della Salute, il Garante per la Privacy e la Società Italiana di Radiologia medica e interventistica (SIRM). Queste linee guida permettono l’acquisizione del consenso informato dei pazienti sottoposti a prestazioni radiologiche mediante la firma grafometrica. Essa rappresenta una particolare firma elettronica, consistente in una sottoscrizione prodotta personalmente dal paziente, cioè di proprio pugno, mediante un apposito hardware, quali appositi tablet. In questo modo tali dispositivi sono in grado di rilevare il tratto grafico e altri parametri. La firma acquisita viene associata ad un documento informatico in formato pdf, che rende visibile il contenuto ma non permette l’alterazione. Parte della dottrina ritiene che tale modalità rappresenta la più idonea all’acquisizione e alla conservazione del consenso informato, utilizzabile sia dalle strutture pubbliche che private. Ciò, alla luce del fatto che i documenti digitali sostituirebbero quelli cartacei, avrebbero pieno valore giuridico e permetterebbero di ridurre i costi per le aziende sanitarie, incrementare l’efficienza e tutelare i diritti di autodeterminazione del paziente[65].
L’ultimo aspetto di novità introdotto dalla legge n° 219 riguarda la natura della responsabilità del medico derivante dalla violazione degli obblighi informativi e del consenso informato. Alcuni autori ritengono che il dovere del medico di informare il paziente darebbe vita ad un rapporto obbligatorio solo nel caso in cui il sanitario agisca quale professionista intellettuale e abbia stipulato un contratto con la controparte. Da qui, in caso di violazione del consenso informato, discenderebbe una responsabilità di tipo contrattuale. Se, invece, il medico è dipendente o ausiliario della struttura, il medico è obbligato con la struttura a intrecciare la relazione con il paziente, motivo per cui discenderebbe una responsabilità di tipo extracontrattuale. L’esenzione di responsabilità prevista dal comma 6 art 1 e dal comma 5 dell’art. 4, sembrerebbe riferirsi sia alla responsabilità contrattuale o a quella extracontrattuale. La diversa natura giuridica, tuttavia, non avrebbe riflessi in tema di onere della prova. Infatti, quando il paziente lamenti che il trattamento sia stato eseguito in mancanza di informazione e senza consenso, spetta alla struttura/medico dimostrare di aver fornito tutte le informazioni necessarie e di aver acquisito il consenso per quello specifico trattamento. Questo regime troverebbe applicazione anche qualora il paziente agisca in via extracontrattuale, in virtù del criterio della vicinanza delle fonti di prova.
Si sottolinea, infine, che il legislatore avrebbe ripreso e cristallizzato negli art. 1 comma 5 e 1 comma 1 i principi della giurisprudenza, laddove prevedono la responsabilità del medico anche se il trattamento è stato ben eseguito e non vi sono danni alla salute[66].
La legge n°219 del 2017 costituisce, così, un parametro di riferimento di grande importanza per tutta la giurisprudenza successiva. I giudici, in questo modo, hanno a loro disposizione non solo i principi già affermatasi nella prassi interpretativa, ma anche una norma organica che disciplina sotto tutti gli aspetti la responsabilità medica dovuta alla violazione degli obblighi informativi e del consenso informato, colmando il vuoto normativo e superando i vecchi dubbi[67].
Il nuovo contesto normativo ha spinto la Corte di Cassazione a distinguere le ipotesi in cui il paziente lamenti un danno alla salute, dalle ipotesi in cui lamenti la lesione del consenso informato. Nel primo caso, il risarcimento spetta solo se il paziente alleghi e provi che se fosse stato compiutamente informato avrebbe rifiutato di sottoporsi alla terapia che gli è stata praticata. Nel secondo caso, invece, non sarebbe necessaria la prova del rifiuto del trattamento in caso di compiuta informazione. Tuttavia, ciò non significa che il danno sia incondizionatamente risarcibile. Occorre infatti, che sia superata la soglia della gravità dell’offesa, da determinarsi secondo il parametro della coscienza sociale in un determinato periodo storico[68].
La Corte, inoltre, definitivamente abbraccia l’idea secondo cui la mancata acquisizione del consenso e l’errore nell’intervento medico costituiscono prestazioni ben distinte, le quali non possono essere considerate complessivamente. In termini pratici, tale distinzione comporta che il risarcimento spettante al paziente è doppio: uno per l’errata esecuzione della prestazione sanitaria, l’altro, ulteriore e autonomo, per l’omesso consenso informato[69].
Più di recente, la Corte di Cassazione è intervenuta, dimostrando di recepire pienamente i principi elaborati dalla suddetta legge e compiendo un grande sforzo nomofilattico, concretizzatesi con l’emanazione sentenza n°28985, intervenuta a distanza di undici anni dalla precedente “sentenza San Martino”.
La sentenza muove dalla richiesta di risarcimento di un paziente che è stato sottoposto nel 1989 a eccessive dosi di irradiazione della terapia radiante (somministrata per curare un linfoma). A causa di questa sovraesposizione, aveva sviluppato un’altra patologia (mielopatia dorsale da radioterapia). Il ricorrente lamentava la lesione della sua libertà di autodeterminazione perché non sarebbe stato opportunamente informato circa le conseguenze dannose e i rischi del trattamento.
La Corte, a tal proposito, ricorda che le fonti sovranazionali (Carta di Nizza e Convenzione di Oviedo) non hanno fatto altro che recepire un principio già diffuso a livello dottrinale e giurisprudenziale, secondo cui il medico ha un dovere informativo nei confronti del paziente. Sebbene tali convenzioni e le altre fonti in tema di consenso informato siano successive rispetto al momento in cui si è verificato il trattamento, cioè nel lontano 1989, secondo la Corte sussisteva comunque un obbligo di informazione in capo al medico. Questo obbligo era stato individuato nei suoi elementi essenziali a partire dalla sentenza della stessa Cassazione n° 3906/1968, fino a quando non è stato cristallizzato nelle succitate fonti.
Recepisce così la tesi già affermata nella giurisprudenza di legittimità e della Corte Costituzionale, secondo cui la manifestazione del consenso è espressione di un autonomo diritto soggettivo e concretizza il diritto costituzionalmente sancito di libera autodeterminazione. Questo diritto, sebbene connesso al diritto alla salute, deve essere nettamente distinto da esso. Pertanto, il medico è tenuto a informare il paziente, indipendentemente dal fatto che tale attività informativa sia riconducibile ad un vincolo contrattuale o ad un obbligo legale. La condotta omissiva o reticente del medico deve essere qualificata illecita, poiché viola diritti fondamentali, e contra ius, a prescindere dall’inquadramento del rapporto medico – paziente nello schema di un contratto, del contatto sociale qualificato o dell’illecito contrattuale. Per cui, la modifica legislativa intervenuta sulla natura della responsabilità medica è irrilevante.
Si richiama, infine, la recente legge n° 219 alla luce della quale la violazione di questo obbligo integra responsabilità civile e penale. Tale riferimento permette di risolvere anche i dubbi e le incertezze circa il contenuto e le modalità di informazione.
Circa la condotta posta in essere dal medico, la Corte si sofferma sulla omissione totale dell’informazione e sulla rilevanza del nesso eziologico.
La condotta illecita per omessa informazione è autonoma rispetto alla condotta inerente il trattamento terapeutico, così come sono distinti i diritti di libera autodeterminazione e della salute. Nonostante ciò, la relazione medico – paziente si caratterizzerebbe per la sua unitarietà. Ciò significa che a fronte di un unico rapporto, sorgono molteplici obbligazioni e altrettanti prestazioni in capo al medico, unite tra loro da un nesso di strumentalità. Esse, infatti, tendono alla cura e alla salute del soggetto, secondo la definizione di salute fornita dalla OMS. Pertanto, le condotte illecite del medico non sono assolutamente autonome, ma interferiscono nella produzione del medesimo danno – conseguenza. Anche la violazione degli obblighi informativi può inserirsi tra i fattori che concorrono alla serie causale che determina il pregiudizio. L’omessa informazione ha, dunque, astratta capacità plurioffensiva, idonea potenzialmente a ledere sia il diritto alla salute sia il diritto alla libera autodeterminazione. Entrambi sono cosi suscettibili di risarcimento laddove sia fornita la prova della lesione.
La violazione del principio di autodeterminazione costituisce, per la Corte, eventus damni. Tale eventus damni si colloca in una fase cronologicamente e logicamente antecedente allo sviluppo della fattispecie illecita dannosa (danno alla salute). Infatti, l’inadempimento della obbligazione informativa o l’errore nella esecuzione del trattamento producono, quale conseguenza, l’aggravamento o la determinazione di un certo stato patologico del paziente (evento lesivo della salute). Questo evento lesivo, a sua volta, comporta l’invalidità temporanea o permanente, cioè il danno – conseguenza. Quindi, la violazione del consenso informato non rileva ex se.
Rispetto alla lesone del bene salute, la violazione del consenso informato appare neutro sul piano eziologico. Pertanto, nel caso in cui tale violazione comporti solo un “danno biologico”, per accertare la causa immediata e diretta del danno conseguenza, deve essere analizzata la relazione tra inadempimento degli obblighi informativi e inesatta esecuzione della prestazione, cercando di ricostruire la possibile scelta compiuta dal paziente.
Sulla base di queste premesse, la Corte distingue varie ipotesi.
In un primo caso, se il paziente fosse stato compiutamente informato dei rischi prevedibili derivanti dal trattamento e se avesse comunque prestato il suo consenso a quel tipo di intervento, l’inadempimento all’obbligo informativo costituisce una fattispecie autonoma di illecito priva di conseguenze dannose. L’omissione non concorre né costituisce presupposto del danno biologico. Tale danno, invece, sarebbe da imputare alla successiva errata esecuzione della prestazione professionale. Dunque, verrebbe solo risarcito il danno alla salute, nella sua duplice componente morale e relazionale.
In un secondo caso, se il paziente fosse stato debitamente informato e se avesse rifiutato di sottoporsi al trattamento, l’atto medico successivo sarebbe da qualificare come lesione personale. L’effetto negativo per la salute, cagionato dalla inesatta esecuzione della prestazione costituisce danno – conseguenza riferibile alla violazione degli obblighi informativi. In questo caso, il risarcimento sarà esteso anche al danno dovuto alla libertà di autodeterminazione.
Una ulteriore ipotesi si verifica se il paziente – debitamente informato – avesse potuto prestare il consenso ma a condizioni diverse e avesse potuto scegliere se differire il trattamento o realizzarlo in modo diverso, in modo da perseguire altri interessi o impegni. La Corte sottolinea, però, che il paziente dovrebbe allegare e dimostrare quali ulteriori pregiudizi (da intendere quale danni conseguenza) ha subito rispetto al danno biologico. Se si tratta di pregiudizi di natura non patrimoniale, essi devono essere seri e gravi, non tollerabili e determinati dal giudice attraverso un giudizio di bilanciamento, secondo lo stesso insegnamento della giurisprudenza di legittimità.
La violazione degli obblighi informativi, dunque, può causare due tipi di danni: un danno alla salute, quando sia ragionevole pensare che il paziente avrebbe rifiutato di sottoporsi al trattamento se informato; il danno alla libertà di autodeterminazione, se il paziente ha subito un danno patrimoniale o non patrimoniale diverso dalla salute.
Infine, se l’omessa informazione è dovuta ad una condotta non colposa del medico, e se il paziente avesse potuto scegliere di non sottoporsi al trattamento, il risarcimento riguarda sia il diritto di autodeterminazione (attraverso valutazione equitativa) sia il danno alla salute, da valutare come danno differenziale. Per danno differenziale si deve intendere la differenza tra il maggiore danno biologico che è conseguenza dell’intervento e il preesistente stato patologico del soggetto.
Invece, in caso di omessa informazione, qualora dal trattamento non derivi un danno alla salute del paziente e qualora egli avrebbe comunque scelto di sottoporsi, non si avrebbe alcun risarcimento.
Così facendo, la Corte si pone l’obiettivo di implementare e perfezionare l’elaborazione compiuta negli ultimi decenni in tema di consenso informato.
In tema di onere probatorio, la Corte ritiene che spetti al paziente dimostrare l’inadempimento del medico e il nesso causale con il danno. Il fatto da provare consisterebbe nel rifiuto opposto al medico in seguito all’informazione doverosa. Tale prova può essere fornita con ogni mezzo: fatto notorio, massime di esperienza, presunzioni gravi, dirette e concordanti.
In tema di prescrizione, la Corte afferma che ai fini della decorrenza del termine di cui all’art. 2935 c.c., è necessario che si concretizzino tutti gli elementi costitutivi del diritto. In particolare, nel caso di specie, è necessario che il danno sia riferibile alla condotta del medico. Se manca questa riferibilità, non sarebbe astrattamente configurabile un inadempimento di una obbligazione da realizzare secondo la normale diligenza e non sarebbe percepibile la patologia quale danno ingiusto. In questo modo, non verrebbe in esistenza alcun diritto e lo stesso non potrebbe nemmeno prescriversi.
La terza sezione della Corte di Cassazione, attraverso questa sentenza, sembra così misurarsi con la dottrina e la giurisprudenza precedente, elaborando principi di ordine generale anche su aspetti del tutto nuovi rispetto a quelli analizzati in passato. In questo modo, si cerca di superare lo statuto della persona scritto nel lontano 2008 e di creare un “programma di razionalizzazione” tra indirizzi sempre più consolidati. Nonostante tale sentenza sia frutto dell’operato e dello studio di una singola sezione, parte della dottrina ritiene che essa svolga comunque un importante ruolo nomofilattico. Infatti, tramite le sentenze “San Martino” dello scorso novembre, la terza Sezione della Cassazione sembra dimostrare un grado altissimo di specializzazione nel settore della responsabilità medica[70].
I principi sin ora esposti sono stati, subito dopo, ribaditi in un’altra sentenza della medesima sezione. Si tratta della sentenza del 15 novembre 2019 n° 29709. In questa occasione si discuteva circa la violazione degli obblighi informativi da parte di un ginecologo nei confronti di una paziente in relazione a test diagnostici, screening e soft markers. Nello specifico, la paziente non sarebbe stata informata della possibilità di ottenere una diagnosi certa sulle possibili malformazioni fetali a partire dal terzo mese di gravidanza. Tale omissione privava la madre della possibilità di decidere in ordine all’interruzione volontaria della gravidanza.
Nel decidere la questione, la Corte segue il medesimo inter logico e argomentativo della sentenza n°28985. Riconosce il consenso informato quale diritto che trae il suo fondamento nella Costituzione, sebbene poi cristallizzato e concretizzato nella legge del 2017 n° 219. Ribadisce il superamento del paternalismo sanitario tipico del passato, permettendo di valorizzare e tutelare la volontà del paziente. Sottolinea che anche la violazione della libera autodeterminazione può condurre ad una lesione della salute, tranne che nei casi di urgenza e nei casi espressamente previsti dalla legge. Afferma esplicitamente che il medico ha sempre l’obbligo di informare il paziente, in modo adeguato e completo. Questo obbligo informativo non può mai essere scisso dalla attività sanitaria in senso stretto: qualora abbia omesso di fornire le indicazioni dovute è sempre inadempiente. Oggetto dell’obbligo informativo sono anche le scelte diagnostiche e terapeutiche e, in particolare, le possibili conseguenze e prosecuzioni di attività trattamenti.
In questo modo, sembrano avvalorarsi le ipotesi della dottrina: i principi esposti dalla sentenza San Martino avrebbero forza nomofilattica.
Ma la sentenza non si ferma qui. Infatti, a differenza della precedente che rimaneva estranea alla questione circa la natura giuridica della responsabilità del medico, limitandosi a riconoscere l’inadempimento a obblighi costituzionalmente sanciti, in questo caso la Corte afferma il medico “che ha espletato in modo corretto la sua attività sanitaria in senso tecnico ma non ha fornito l’adeguata informazione alla persona interessata è sempre inadempiente nella responsabilità contrattuale, mentre in quella extracontrattuale viola sempre il diritto costituzionale di autodeterminazione, limite della sua autonomia professionale”.
La Corte, con un’affermazione ambigua, sembra così risolvere il contrasto dottrinale e giurisprudenziale nel caso di omesso consenso informato. La soluzione prospettata sembra essere nel senso del cumulo (o concorso) di responsabilità. Questa soluzione acquisterebbe importanza perché permetterebbe di apprezzare il medesimo evento sia quale inadempimento ex art. 1218 c.c, sia come fatto illecito ex art. 2043 c.c. Questo concorso di azioni favorirebbe il creditore, che potrebbe fare valere la responsabilità da fatto illecito anche quando l’azione contrattuale sia già prescritta o viceversa, e gli permetterebbe di conseguire il risarcimento dei danni non patrimoniali. Tuttavia la dottrina, già in passato, aveva messo in evidenza alcuni dei rischi connessi al cumulo: per esempio un più gravoso onere probatorio per il paziente (creditore/danneggiato)[71].
Tra l’altro, dalla formulazione della Corte, non si intende se le due azioni siano alternative o cumulative. Il dubbio sorge poiché la tradizione giurisprudenziale ha – nel corso del tempo – ribadito che se la parte non specifica il titolo per cui si agisce, si intende azionato il rimedio di cui all’art. 2043 c.c. Pertanto, se le due azioni fossero alternative, al primo atto possibile in giudizio il paziente dovrebbe specificare se intende agire in via extracontrattuale o contrattuale e da tale scelta deriverebbero numerose conseguenze giuridiche. Se, invece, le azioni fossero cumulative, il paziente avrebbe modo di ottenere una più ampia tutela, sebbene il suo sforzo probatorio sia maggiore. In questo caso, dovrebbe operare anche la clausola compensatio lucri cum damno, volta a evitare che il creditore/danneggiato ottenga una somma maggiore rispetto al danno concretamente sofferto.
Nonostante l’aporia lasciata dalla sentenza, si ritiene che quest’ultima sia l’opzione interpretativa più probabile. Infatti, se l’intenzione della Corte è quella di comporre i contrasti, svolgendo una funzione nomofilattica, non avrebbe senso abbracciare la tesi della alternatività delle azioni, che avrebbe come presupposto una delle due teorie circa la natura della responsabilità medica. Pertanto, le due azioni si dovrebbero ritenere cumulative, riconoscendo alla responsabilità medica conseguente alla violazione del consenso informato sia natura contrattuale che extracontrattuale. La natura contrattuale deriverebbe dall’obbligo legale sancito dalla legge 219 del 2017; la natura extracontrattuale deriverebbe dal fatto che la condotta del medico si dovrebbe qualificare quale illecito rispetto a diritti costituzionalmente sanciti.
Sulla base dei principi sopra esposti e condivisi dalla giurisprudenza di legittimità, la Corte di Cassazione, ancor più recentemente, è intervenuta in tema di danni derivanti dalla violazione del consenso informato mediante l’ordinanza 26 maggio 2020 n° 9887. A tal proposito la Corte ritiene che la violazione del dovere informativo può causare due tipi di danni: un danno alla salute e un danno da lesione del diritto di autodeterminazione. Il primo sussiste quando sia ragionevole ritenere che il paziente – ove informato – avrebbe evitato di sottoporsi all’intervento e di subirne le conseguenze invalidanti. Il secondo si verifica quando a causa dell’omessa informazione, il paziente subisce un pregiudizio patrimoniale o non patrimoniale diverso dal diritto alla salute, ad esempio, sofferenze soggettive e limitazione di disporre di sé stessi. Circa l’onere della prova, si riprendono le conclusioni già affermate: spetta al paziente che dichiara di aver subito la lesione della propria libera autodeterminazione allegare la violazione del consenso e dimostrare l’inadempimento del medico, anche mediante presunzioni.
Si conclude così, in attesa di ulteriori sviluppi, il lungo iter normativo ed interpretativo sul tema del consenso informato. L’ultima pronuncia attesta l’attualità del problema e soprattutto la necessita – ancor viva – di specificare in maniera puntuale gli aspetti essenziali della responsabilità medica.
Bibliografia
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Giurisprudenza
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- Cassazione 9887/2020.
- Corte Costituzionale n°233/2003.
- Corte Costituzionale n°438/2008
Note
[1] TODESCHINI N., Diretto da CENDON P., Rapporto medico paziente e alleanza terapeutica, in Responsabilità civile – trattati giuridici, volume II, Utet, Vicenza, 2017, pp. 2753 – 2763.
[2] Cassazione Civile sezione III n° 364/1997 e n°10014/1994.
[3] CHINÈ G. – ZOPPINI A., a cura di Garofoli R., Manuale di diritto civile, Edizione XI, nel Diritto Editore, 2019, pp. 1801.
[4] Cassazione Civile n° 3604/1982, n ° 6735/2002, n°2847/2010.
[5] Cassazione Civile n° 6464/1994, n° 5444/ 2006, Tribunale di Milano n° 3520/ 2005.
[6] ROSSI S., diretto da CENDON P., Consenso informato e diritto di scelta del paziente, in Responsabilità civile – trattati giuridici, volume II, Utet, Vicenza, 2017, pp. 2809 – 2810.
[7] CHINÈ G. – ZOPPINI A., a cura di Garofoli R., Manuale di diritto civile, Edizione XI, nel Diritto Editore, 2019, pp. 1802.
[8] ROSSI S., diretto da CENDON P., Consenso informato e diritto di scelta del paziente, in Responsabilità civile – trattati giuridici, volume II, Utet, Vicenza, 2017, pp. 2783 – 2785.
[9] Ivi, pp. 2785 – 2790.
[10] Ivi, pp. 2806 – 2807.
[11]ROSSI S. Diretto da CENDON P., Consenso informato e diritto di scelta del paziente, in Responsabilità civile – trattati giuridici, volume II, Utet, Vicenza, 2017, pp. 2782 – 2785
[12] GALGANO F., I fatti illeciti, Cedam, 2017, Edizione IX, pp. 161 – 162.
[13] ROSSI S. Diretto da CENDON P., Consenso informato e diritto di scelta del paziente, in Responsabilità civile – trattati giuridici, volume II, Utet, Vicenza, 2017, pp. 2782 – 2785.
[14] GALGANO F., I fatti illeciti, Cedam, 2017, Edizione IX, pp. 170 – 171.
[15] Cassazione Civile n° 9430/ 1987.
[16] Di seguito: Cassazione Civile n°22390/2006, n°14024/ 2013.
[17] Tribunale Venezia 04/10/20104; Tribunale Milano n° 2231/2005; Cassazione Civile n° 5444/ 2006; Tribunale Novara n°40/2007.
[18] Vedi Cassazione Civile n° 6688/ 2018 e n° 7258/2018.
[19] ROSSI S. Diretto da CENDON P., Consenso informato e diritto di scelta del paziente, in Responsabilità civile – trattati giuridici, volume II, Utet, Vicenza, 2017, pp. 2809 -29810.
[20] Ibidem.
[21] Cassazione Civile n°9806/2018.
[22] CHINÈ G. – ZOPPINI A., a cura di Garofoli R., Manuale di diritto civile, Edizione XI, nel Diritto Editore, 2019, pp. 1799.
[23] Tribunale di Milano n°5510/1998.
[24] Tribunale Roma, 22.12.2004.
[25] Tribunale Milano, 13/07/2000.
[26] ROSSI S. Diretto da CENDON P., Consenso informato e diritto di scelta del paziente, in Responsabilità civile – trattati giuridici, volume II, Utet, Vicenza, 2017, pp. 2812 – 2816.
[27] Tribunale Milano n° 3520/2005; Tribunale di Genova 2006; Tribunale Forlì n°209/2007; Cassazione Civile n° 17157/ 2007; Cassazione Civile n°1135/2008.
[28] Cassazione Civile n° 19212/ 2015.
[29] ALBERGHI J., Il consenso informato: per la Cassazione la forma orale non basta, in riv. Il Diritto quotidiano, 02/11/2015.
[30] ROSSI S. Diretto da CENDON P., Consenso informato e diritto di scelta del paziente, in Responsabilità civile – trattati giuridici, volume II, Utet, Vicenza, 2017, pp. 2812 – 2816.
[31] Ibidem.
[32] Cassazione civile n°9705/ 1997.
[33] Corte d’appello di Napoli, n°242/2005;
[34] Tribunale di Milano 29/03/2005
[35] Cassazione Civile n° 24742/2007
[36] Cassazione civile n°2854/ 2015;n°10414/ 2016; n° 17022/2018; n° 16892 /2019.
[37] CHINÈ G. – ZOPPINI A., a cura di Garofoli R., Manuale di diritto civile, Edizione XI, nel Diritto Editore, 2019, pp. 1803 – 1804.
[38] Cassazione Civile n° 24742/2007; n°37875/2009; n° 20806/2009.
[39] MARTINI F., Responsabilità civile della struttura sanitaria e dell’esercente la professione sanitaria, in Il civilista – Responsabilità sanitaria: tutte le novità della Legge Gelli Bianco, Giuffrè Editore, 2017, pp. 39.
[40]Tribunale di Milano 29/03/2005.
[41] GALGANO F., I fatti illeciti, Cedam, 2017, Edizione IX, pp. 170 – 171.
[42] Cassazione Civile n°7283/2003; Corte Costituzionale n°233/2003.
[43] Cassazione Civile 2010 n° 2847; n° 19731 / 2014 ; n° 2854 /2015.
[44] Tribunale di Milano n°2847/2008.
[45] Cassazione Civile n°2847/2010, n° 11005/2011; n° 24072/2016;
[46] Tribunale di Milano n°8243 /2017.
[47] Cassazione Civile n°12408/2011.
[48] CATALANO R. e MARTINO A., Il consenso informato: la violazione del diritto all’autodeterminazione del paziente e la tutela risarcitoria, in Questione Giustizia, 2/2016.
[49] RAPISARSA I., Consenso informato e autodeterminazione terapeutica, in Nuove leggi civili commentate, 1/2019, Cedam, pp. 43.
[50] Idem.
[51] DI ROSA G., La relazione di cura e di fiducia tra medico e paziente, in Nuove leggi civili commentate, 1/2019, Cedam, pp. 29 – 34.
[52] Ivi, pp. 31 – 32.
[53] Ivi, pp. 37 – 39.
[54] IULIANO F., Consenso informato e disposizioni anticipate di trattamento, in Diritto Civile, 15 aprile 2019, pp.5 – 6.
[55] DELLE MONACHE S., La nuova disciplina sul testamento biologico e sul consenso ai trattamenti medici, in Diritto Civile, volume 4, 2018, pp. 5-9.
[56] SALANITRO U., Il consenso attuale e anticipato nel prisma della responsabilità medica, in Nuove leggi civili commentate, 1/2019, pp. 145 -147.
[57] DELLE MONACHE S., La nuova disciplina sul testamento biologico e sul consenso ai trattamenti medici, in Diritto Civile, volume 4, 2018, pp. 2 – 3.
[58] SALANITRO U., Il consenso attuale e anticipato nel prisma della responsabilità medica, in Nuove leggi civili commentate, 1/2019, pp. 145 -147.
[59] Ivi, pp. 150.
[60] RAPISARSA I., Consenso informato e autodeterminazione terapeutica, in Nuove leggi civili commentate, 1/2019, Cedam, pp. 48.
[61] Ivi, pp. 52 – 53.
[62] Ivi, pp. 54 – 61.
[63] SALANITRO U., Il consenso attuale e anticipato nel prisma della responsabilità medica, in Nuove leggi civili commentate, 1/2019, pp. 138 – 140.
[64] Ivi, pp. 143 – 146.
[65] CRISAFI M., Radiografie con consenso informato digitale, in Il Diritto quotidiano, 06/05/2018.
[66] SALANITRO U., Il consenso attuale e anticipato nel prisma della responsabilità medica, in Nuove leggi civili commentate, 1/2019, pp. 126 – 130.
[67] Cassazione Civile n° 10608/ 2018; n° 11749 /2018.
[68] Cassazione Civile n°20885/2018.
[69] Cassazione Civile n° 16892/2018.
[70] PONZANELLI G., Alcune considerazioni generali sulle dieci sentenze della Corte di Cassazione dell’11 novembre 2019, in Corti supreme e salute, volume 3, 2019.
[71] GALGANO F., I fatti illeciti, Cedam, 2017, pag. 237 – 238.
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