La responsabilità dirigenziale

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La responsabilità dirigenziale risponde alla logica di avere uno strumento di verifica della rispondenza al pubblico interesse dell’organizzazione amministrativa. Sotto questo aspetto, è importante considerare che gli atti di conferimento degli incarichi dirigenziali hanno natura privatistica. Tale natura privatistica può essere contemperata con il vincolo di scopo soltanto ritenendo che, nei confronti degli atti posti in essere con le capacità e i poteri del privato datore di lavoro[1], la finalizzazione ai principi di efficacia, efficienza, trasparenza, imparzialità e rispondenza al pubblico interesse riguardi “l’attività amministrativa colta nel suo insieme, e non i singoli atti[2]”.

Conseguentemente, il punto di osservazione andrebbe spostato dai singoli momenti di esercizio del potere organizzativo all’attività amministrativa nel suo complesso e alla valutazione dei relativi risultati.

In tale ottica, “il vincolo di scopo, che non emerge giuridicamente negli atti organizzativi di diritto privato, trova in conclusione la sua strumentazione nel momento della valutazione dell’attività[3], e si concretizza nella corrispondente responsabilità dei dirigenti[4].

    Indice

  1. La contraddizione nel Testo unico del pubblico impiego
  2. Il passaggio dal regime pubblicistico al regime privatistico e il sistema dei controlli dal punto di vista dirigenziale
  3. La separazione tra politica e amministrazione
  4. La responsabilità dirigenziale

1. La contraddizione nel Testo unico del pubblico impiego

Il decreto legislativo del 30 marzo 2001, n. 165, c.d. TUPI, all’articolo 5, comma 1, prevede che “Le amministrazioni pubbliche assumono ogni determinazione organizzativa al fine di assicurare l’attuazione dei principi di cui all’articolo 2, comma 1, e la rispondenza al pubblico interesse dell’azione amministrativa”. Il successivo comma 2, fa riferimento, invece alla capacità dei dirigenti di definire le “determinazioni per l’organizzazione degli uffici e le misure inerenti alla gestione dei rapporti di lavoro sono assunte in via esclusiva dagli organi preposti alla gestione con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro[5]

Pertanto, possiamo verificare come si contrappone la funzione di stampo pubblicistico, prevista dal comma 1, con la funzione di stampo privatistico, prevista dal comma 2. Sotto questo profilo, il comma 3 collega e risolve l’apparente contraddizione tra i commi 1 e 2, disponendo che gli organismi di controllo interno hanno il compito di verificare la rispondenza delle determinazioni organizzative previste dal comma 1, anche al fine di proporre l’adozione di eventuali interventi correttivi e di fornire elementi per l’adozione delle misure previste nei confronti dei responsabili della gestione.

2. Il passaggio dal regime pubblicistico al regime privatistico e il sistema dei controlli dal punto di vista dirigenziale

Con il passaggio dal regime pubblicistico al regime privatistico sono stati previsti degli strumenti idonei ad assicurare la rispondenza dell’interesse pubblico da parte dell’amministrazione, il tutto attraverso un controllo volto non tanto sull’atto, ma bensì su una valutazione generale dell’attività amministrativa.

Si è dato avvio, così, nella prima parte degli anni Novanta in modo più sostanziale, ad un mutamento del concetto di controllo, che è passato da una revisione della regolarità legislativa e procedurale improntata sull’atto, ad una cultura del risultato, mirata a raggiungere obiettivi di natura prettamente economica, quali efficacia, economicità[6] ed efficienza, non a caso tra i principi guida dell’attività amministrativa[7] e che costituiscono il corollario del buon andamento dell’azione amministrativa[8].

Difatti, l’articolo 97 della Costituzione può essere interpretato nel senso di non imporre una stretta corrispondenza tra riserva di legge in materia di organizzazione e regime giuridico degli atti e la legge ben può ritenere più congeniale alla garanzia dei principi di imparzialità e di buon andamento l’assunzione di determinati atti organizzativi con i poteri e le capacità del privato datore di lavoro.

Gli atti ascritti al diritto privato, in definitiva, non possono che essere assoggettati ai principi fondamentali dell’autonomia privata e, in primo luogo, alla regola della normale irrilevanza dei motivi. Conseguentemente, ai sensi dell’articolo 5, comma 3, del Tupi il controllo, esclusivamente interno all’organizzazione del soggetto agente, non influenza la disciplina dell’atto, che resta libero nei fini e non funzionalizzato.

Questo non significa, però, che il nuovo sistema dei controlli non possa rivelarsi addirittura più funzionale del precedente ad assicurare la rispondenza al pubblico interesse dell’organizzazione amministrativa.

Difatti, i rischi connessi al regime pubblicistico degli atti sono, in primo luogo, il disporre di un controllo necessariamente frammentato, episodico, relativo ai singoli atti oppure, in secondo luogo, un eccesso di garanzia per gli interessi dei terzi.

Pertanto, Un controllo diffuso sull’attività nel suo complesso e incentrato sulla valutazione dei risultati di gestione e delle prestazioni dirigenziali potrebbe assicurare altrimenti la rispondenza al pubblico interesse di ogni determinazione organizzativa, rivelandosi più efficiente.


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3. La separazione tra politica e amministrazione

Nella seconda metà degli anni Novanta la politica ha voluto fidelizzare il proprio rapporto con la dirigenza pubblica[9], compensando l’autonomia gestionale di quest’ultima e la sua separazione dalla politica stessa, con un rapporto basato su criteri aziendalistici, introducendo così una sorta di privatizzazione del pubblico impiego. Si è voluto disciplinare la separazione tra politica e amministrazione, rispettivamente la prima deputata a funzioni di indirizzo e controllo, mentre la seconda a funzioni di gestione[10]. Scopo dell’amministrazione, per cui, è l’applicazione dell’indirizzo politico e la scelta di soluzioni idonee, con un grado di autonomia ampio in modo da raggiungere gli obiettivi prefissati dalla politica scegliendo la strada reputata più congrua.

L’istituto della responsabilità dirigenziale, tuttavia non sembra aver svolto la sua funzione, anzi, si è rivelato “il vero e proprio tallone d’Achille della riforma dell’impego pubblico, in primis della dirigenza”.

4. La responsabilità dirigenziale

La responsabilità dirigenziale o di risultato nasce con l’obiettivo di migliorare l’efficienza dell’azione amministrativa, ottimizzare l’organizzazione della pubblica amministrazione e quindi migliorare la qualità della performance amministrativa[11].

Tale responsabilità dirigenziale è prevista dall’articolo 21 del decreto legislativo del 30 marzo 2001, n. 165, che dispone che:

“1. Il mancato raggiungimento degli obiettivi accertato attraverso le risultanze del sistema di valutazione di cui al Titolo II del decreto legislativo di attuazione della legge 4 marzo 2009, n. 15, in materia di ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni ovvero l’inosservanza delle direttive imputabili al dirigente comportano, previa contestazione e ferma restando l’eventuale responsabilità disciplinare secondo la disciplina contenuta nel contratto collettivo, l’impossibilità di rinnovo dello stesso incarico dirigenziale. In relazione alla gravità dei casi, l’amministrazione può inoltre, previa contestazione e nel rispetto del principio del contraddittorio, revocare l’incarico collocando il dirigente a disposizione dei ruoli di cui all’articolo 23 ovvero recedere dal rapporto di lavoro secondo le disposizioni del contratto collettivo.

1-bis. Al di fuori dei casi di cui al comma 1, al dirigente nei confronti del quale sia stata accertata, previa contestazione e nel rispetto del principio del contraddittorio secondo le procedure previste dalla legge e dai contratti collettivi nazionali, la colpevole violazione del dovere di vigilanza sul rispetto, da parte del personale assegnato ai propri uffici, degli standard quantitativi e qualitativi fissati dall’amministrazione, conformemente agli indirizzi deliberati dalla Commissione di cui all’articolo 13 del decreto legislativo di attuazione della legge 4 marzo 2009, n. 15, in materia di ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni, la retribuzione di risultato è decurtata, sentito il Comitato dei garanti, in relazione alla gravità della violazione di una quota fino all’ottanta per cento.”.

Pertanto, si evince che le ipotesi di responsabilità dirigenziali individuate dal Tupi sono:

  • Il mancato raggiungimento degli obiettivi accertato attraverso le risultanze del sistema di valutazione;
  • L’inosservanza delle direttive imputabili ai dirigenti;
  • Il colpevole violazione del dovere di vigilanza sul rispetto, da parte del personale assegnato ai propri uffici, degli standard quantitativi e qualitativi fissati dall’amministrazione.

Mentre, le misure nel caso in cui si configurino tali ipotesi sono:

  • La decurtazione della retribuzione di risultato;
  • L’impossibilità di rinnovo dello stesso incarico dirigenziale;
  • La revoca dell’incarico e collocamento a disposizione dei ruoli;
  • Il recesso dal rapporto di lavoro secondo le disposizioni del contratto collettivo;
  • Il procedimento di garanzia per il dirigente – previa contestazione – nel rispetto del principio del contraddittorio, sentito il comitato dei garanti – parere obbligatorio ma non vincolante.

È fonte di responsabilità dirigenziale anche il mancato rispetto del benessere organizzativo, nonché la mancata differenziazione dei giudizi del personale per l’attribuzione dei premi collegati alla performance.

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Note

[1] Come dispone l’articolo 5, del decreto legislativo del 30 marzo 2001, n. 165, recante “Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche”.

[2] Orsi Battaglini A., e Corpaci A., , sub art.2, in Corpaci Rusciano e Zoppoli, (a cura di), La riforma dell’organizzazione, dei rapporti di lavoro e del processo nelle amministrazioni pubbliche, in Le nuove leggi civili commentate, n.5-6, del 1999.

[3] Messineo D., Massimo D’Antona e la Sua riforma della Pubblica Amministrazione , www.lavoro-confronto.it, 2015.

[4] M. D’Antona, Il ruolo della dirigenza nei processi di riforma, in Riforme dello Stato e riforme dell’amministrazione in Italia ed in Francia (atti del seminario di studio organizzato dal centro di ricerca sulle amministrazioni pubbliche Vittorio Bachelet, Roma, 21 maggio 1997), Milano, Giuffrè, 1997, pp. 109-116.

[5] Fatte salve la sola informazione ai sindacati ovvero le ulteriori forme di partecipazione.

[6] Principi enunciati all’articolo 1, co. 1, legge del 7 agosto 1990, n. 241.

[7] Cusumano C., I principi dell’azione amministrativa e le forme di autotutela, www.diritto.it, 2017.

[8] Articolo 97 della Costituzione.

[9] Gardini G., L’autonomia della dirigenza nella (contro) riforma Brunetta, www.astrid-online.it, 2010.

[10] Colapietro C., Il rapporto tra politica e amministrazione nella recente giurisprudenza costituzionale, ssaistorico.interno.gov.it, 2012.

[11] David D., Le nuove fattispecie di responsabilità dirigenziale, ovvero come il legislatore abbia rivoluzionato (o forse trasformato) l’istituto ex art. 21 d.lgs. 165/2001, www.amministrazioneincammino.luiss, 2017.

Armando Pellegrino

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