Sommario: 1. Premessa. – 2. La prestazione medica come tipica obbligazione di mezzi. – 3. La diligenza professionale richiesta ex art. 1176 comma 2° c.c. ed il contenuto complesso della prestazione: gli obblighi di protezione. Cenni . – 3. 1. (segue) L’apparente difficile connubio tra l’art. 1176 comma 2° c.c. e l’art. 2236 c.c. – . 4. la progressiva frantumazione della dicotomia obbligazioni di mezzi obbligazioni di risultati. – 4.1. Il reiverement giurisprudenziale del 2004. 5. La responsabilità del medico dipendente dell’Ente ospedaliero verso il paziente. Premessa. 5. 1. La tesi della responsabilità aquilana. Critiche. – 5.2. La tesi della responsabilità contrattuale. In particolare la teorica della immedesimazione organica ex art. 28 cost. Critiche. – 6. Gli obblighi di protezione quale fondamento della responsabilità del medico dipendente da un Ente ospedaliero. Una loro analisi. Gli obblighi di protezione nei confronti di soggetti terzi: il contratto con effetti protettivi a favore del terzo. Le critiche della Cassazione n. 589 del 1999. – 6.1.Gli obblighi di protezione orfani di quelli di prestazione: la responsabilità da contatto sociale qualificato. Il tentativo di una diversa ricostruzione: la responsabilità contrattuale in un’ottica di collegamento negoziale.
1.
La responsabilità medica[1] rappresenta un settore in cui hanno avuto modo di misurare la propria attendibilità molte della costruzioni dogmatiche in tema di responsabilità civile
[2]. Nata sul terreno della responsabilità extracontrattuale, la responsabilità medica solo in tempi recenti (e non ovunque, persistendo, nell’area di
common law, la tendenza a radicare detta responsabilità nell’ambito della responsabilità aquiliana) ha ricevuto una configurazione contrattuale
[3]. Lo sviluppo della società, le mutate esigenze di tutela del soggetto più debole
[4], le nuove situazioni emergenti che legittimano il controllo sull’operato del professionista, hanno comportato l’insostenibilità di posizioni privilegiate ormai non più tollerabili in uno scenario «globalizzato»
[5]. Questa nuova complessità
[6] fa sì che il giurista debba porsi la questione se le categorie usuali alle quali si ascrive la responsabilità del medico siano oggi sempre appropriate, e quali eventuali modificazioni si siano registrate nella interpretazione dottrinale e giurisprudenziale
[7]. È stato, a tal proposito, autorevolmente osservato che il regime della responsabilità medica si possa oggi configurare come un «sistema composito»
[8] dove è giusto dibattere più che sulla responsabilità del medico, sulla responsabilità medica
tout court[9]. La precisazione, lungi dal costituire una sterile ginnastica lessicale, vuole, invece, individuare una scelta di fondo del sistema, che non tiene più conto soltanto del rapporto diretto medico–paziente, quanto, piuttosto, del complesso «dei rapporti che, oltre a quello di tipo personale, si istituiscono nel momento in cui un soggetto è destinatario di prestazioni mediche di ogni tipo, diagnostiche, preventive, ospedaliere, terapeutiche, chirurgiche, estetiche, assistenziali ecc.»
[10]. Altra dottrina
[11], è addirittura giunta a considerare – forse in modo troppo radicale – la responsabilità medica come una categoria autonoma rispetto alla responsabilità aquiliana e a quella contrattuale, una responsabilità, insomma, che «taglia orizzontalmente e supera i comparti corrispondenti ai due classici tipi della responsabilità contrattuale ed extracontrattuale definendosi piuttosto in funzione del genere di attività regolata e del genere di conseguenze che possono derivarne». Infine, la consapevolezza che, nella prospettiva del diritto civile – costituzionale,
[12].
Preliminare a qualsivoglia indagine in materia, è l’identificazione di quale sia la natura dei rapporti giuridici che si possono instaurare tra la struttura sanitaria, il medico ed il paziente che richiede l’intervento del sanitario. Possono così aversi:
a) il rapporto tra medico libero professionista (e, dunque, non dipendente dalla struttura) ed il paziente, vincolo che nasce da un contratto d’opera intellettuale
[13];
b) rapporto tra struttura ospedaliera (o struttura privata) e paziente, anch’esso contrattuale
[14];
c) rapporto tra medico e struttura ospedaliera (o struttura privata) derivante da una contratto di lavoro;
d) rapporto tra medico (dipendente ospedaliero o dipendente di struttura privata) e paziente. In quest’ultimo caso, mancando tra il medico ed il paziente un contratto, il primo, secondo i princípi generali, non potrebbe, dirsi obbligato alla esecuzione della prestazione sicché il suo illecito sembrerebbe destinato a ricadere ineluttabilmente entro l’àmbito di operatività degli artt. 2043 c.c. ss.
[15]. L’estraneità al rapporto contrattuale con quest’ultimo, in effetti, ha indotto, in un primo tempo, la giurisprudenza ad affermare il carattere extracontrattuale di tale responsabilità, senza che però – giustamente – se ne inferisse una diversa operatività delle ordinarie regole di valutazione della responsabilità medica, ritenendosi, in particolare, comunque applicabile la disposizione di cui all’art. 2236 c.c.
2. La fonte della responsabilità contrattuale del medico si rinviene nel contratto d’opera intellettuale (artt. 2229 – 2238 c.c.), che il cod. civ. regola nel capo dedicato al lavoro autonomo. Esso è un contratto bilaterale, consensuale, ad effetti obbligatori, sinallagmatico e di solito oneroso.
La complessità di fondo della responsabilità medica è riflessa nella distinzione tra obbligazione di mezzi e di risultato, e più precisamente nella
vexata quaestio concernente la collocazione di questa nell’una o nell’altra tipologia di obbligazione. Secondo una distinzione tradizionale, e ancóra seguita in dottrina
[16] obbligazioni di mezzi (es., il medico si impegna a prestare la propria opera ma non già a guarire il malato) sono quelle in cui il debitore è tenuto a svolgere un’attività a prescindere dal conseguimento di una determinata finalità. Le obbligazioni di risultato (es., la costruzione di una casa) sono, invece, le obbligazioni in cui il debitore è tenuto a realizzare una determinata finalità a prescindere da una specifica attività strumentale. La contrapposizione, non senza dissensi[17], e dalla prevalente giurisprudenza
[18], salve eccezioni
[19], l’obbligazione nascente dal contratto di opera intellettuale (artt. 2230 ss. c.c.) costituirebbe una tipica obbligazione di mezzi e non di risultato
[20]. Le
[21] rileverebbe sul piano della responsabilità e dell’onere della prova. Nelle obbligazioni di mezzi, si applicherebbe la regola della responsabilità per colpa (il debitore, cioè, non è responsabile se si è comportato diligentemente ai sensi dell’art. 1176 c.c. e, dunque, l’obbligazione si estingue); nelle obbligazione di risultato, invece, si applicherebbe la regola della responsabilità oggettiva
ex art. 1218c.c.: la diligenza impiegata dal debitore sarebbe cioè irrilevante
[22] Argomentando in tale direzione, l’obbligazione del medico sarebbe pertanto quella di porre in essere un comportamento professionalmente adeguato, espressione della diligenza che lo standard medio di riferimento richiede (art. 1176 comma 2° c.c.)[24], non essendo al contrario tenuto a far conseguire un risultato consistente nella guarigione, giacché solo in parte legata causalmente alla prestazione che gli viene richiesta
[25]. Infatti, essendo oggetto della prestazione non un risultato bensì una attività professionale (pur proiettata verso un risultato e, cioè, verso la guarigione), il mancato conseguimento di questo non comporta di per sé inadempimento. Se il debitore (
id est il medico) si è obbligato ad esplicare una determinata attività in funzione della guarigione e si è adoperato per ottenerla, ne discende, quale logico corollario, che la prestazione oggetto della obbligazione è esclusivamente l’attività adeguata in tal senso, e non già il risultato (proiezione finalistica dell’agire)
[26], di guisa che vi sarà inadempimento non già a seguito del mancato conseguimento del risultato (e cioè la guarigione) bensì a causa della mancata (o negligente) esecuzione di quella attività professionale adeguata allo scopo
[27]. poiché ciò che è dovuto è solo il risultato finale
[23].
3. L’obbligo di diligenza
[28]che costituisce, sia il criterio di imputazione dell’inadempimento che di determinazione del contenuto della prestazione[29][30]. La diligenza, come è noto, costituisce un caposaldo della disciplina dell’adempimento di ogni tipo di obbligazioni, «riassumendo quel complesso di cure e cautele che ogni debitore deve normalmente impiegare, avuto riguardo alla natura del particolare rapporto ed a tutte le circostanze di fatto che concorrono a determinarlo»
[31]. Con riguardo specificatamente all’attività medica, questi, nell’adempimento delle obbligazioni inerenti alla propria attività professionale, sarà tenuto ad una diligenza che non è solo quella del buon padre di famiglia ma a quella specifica del debitore qualificato, come indicato dall’art. 1176 comma 2° c.c.
[32][33]. Tale diligenza, non può non interessare, oltre ai profili soggettivi appena descritti, anche gli strumenti materiali utilizzati per adempiere la prestazione. La perizia necessaria alla corretta esecuzione della prestazione, risulterebbe infatti mutilata ove si volessero disgiungere i due aspetti, quello soggettivo e quello materiale, prevedendo regola diverse nell’uno e nell’altro caso. Invero, la scelta del mezzo attraverso il quale la prestazione trova la sua esecuzione incide grandemente sulla prestazione stessa, potendone pregiudicare anche del tutto l’esito, qualora non fosse adeguata al tipo di prestazione sulla scorta dello
standard qualitativo richiesto. Il professionista, dunque, non potrebbe limitare la propria responsabilità alla diligenza richiestagli, dal punto di vista professionale delle conoscenze tecniche adeguate (profilo soggettivo), qualora si avvalesse di strumenti inadeguati, in quanto risulterebbe spezzata la continuità e la coerenza, nel corso della preparazione ed esecuzione della prestazione, della diligenza richiestagli. Il medico, dunque, a conoscenza della inadeguatezza degli strumenti in suo possesso, potrà liberarsi da responsabilità solo qualora dimostri di aver diligentemente informato il paziente della circostanza, invitandolo a recarsi presso strutture meglio attrezzate. Nell’adempiere le sue obbligazioni, il medico è dunque tenuto a compiere quel complesso di attività che vengano considerate idonee al raggiungimento del fine perseguito, costituito dalla salute del paziente
[34]., la quale comporta il rispetto di tutte le regole e gli accorgimenti che nel loro insieme costituiscono la conoscenza della professione medica, deve essere individuato nei suoi esatti confini del medico,
La complessità della prestazione medica, si evince non solo dal suo articolarsi in varie fasi (diagnosi, prognosi, scelta della cura ed esecuzione della stessa) ma anche dalla estrema difficoltà di determinare con precisione l’estensione dell’obbligo del professionista. Nel diritto delle obbligazione in generale, la dottrina moderna evidenzia come il concetto stesso di prestazione sia dilatato fino a ricomprendervi una serie di obblighi accessori, che, se violati, generano responsabilità contrattuale
[35]. A sostegno dell’assunto si sottolinea come il rapporto obbligatorio, generato da un contratto, dia luogo ad un rapporto complesso in seno al quale l’obbligo di prestazione è solo il nucleo fondamentale di una struttura integrata di una serie di situazioni soggettive ad esso funzionalmente collegate. Nell’ambito di questi obblighi accessori spiccano i doveri di protezione
[36] il cui fondamento è rintracciato, dalla dottrina maggioritaria nel principio di buona fede
[37] e da altra dottrina nel dovere di diligenza
[38]. Tale ultima ipostazione sembra più convincente poiché al debitore (e nel caso che ci occupa al medico), «non si richiede semplicemente un comportamento improntato a correttezza ma un comportamento obiettivamente adeguato ad evitare l’evento dannoso, cioè un comportamento diligente. Tale comportamento, inoltre, fa parte integrante della prestazione dovuta senza che si debbano costruire artificiosamente altri obblighi del debitore. Precisamente, il debitore è tenuto ad una prestazione di contenuto prudente ed anche l’attività strumentale è dovuta
[39] con puntualità e diligenza»
[40]. La prestazione professionale del medico (es. un chirurgo), allora, non si esaurisce nel compimento del puro e semplice atto operatorio, ma comprende un complesso di cure e rimedi (pre e post – operatori)
[41] cui il paziente deve essere sottoposto al precipuo scopo di praticare l’intervento con il minimo rischio e di assicurare in seguito un rapido e favorevole decorso dell’infermità, prevedendo o eliminando le possibili complicazioni attraverso le misure ritenute più opportune. Il medico, dunque, deve preoccuparsi non solo dell’intervento, ma anche di ciò che succede sia prima che dopo l’atto di cura in senso stretto
[42].
3. 1. (
segue) Una particolare disciplina è stata poi dettata dall’art. 2236 c.c. a tenore del quale, quando lo svolgimento dell’incarico professionale implichi la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il professionista risponde dei danni solo «in caso di dolo o colpa grave»
[43]. La norma, dalla quale si traeva conferma della natura di mezzi delle relative obbligazioni, fu originariamente interpretata dalla giurisprudenza degli anni trenta come espressione delle immunità e dei privilegi storicamente riconosciuti agli esercenti le c.d. attività liberali, ed in questa ottica letta come regola di attenuazione della responsabilità del professionista
[44].
La disposizione in esame non rappresenta una norma derogatoria della regola dettata dall’art. 1176 c.c. e non attribuisce alcuna speciale esenzione rispetto all’ordinario regime di responsabilità
[45]. L’interpretazione letterale dell’art. 2236 c.c., infatti, porterebbe a risultati incomprensibili sul piano della logica, risultando inspiegabile, qualora ci si dovesse accontentare di un minor grado di diligenza quando vi siano da affrontare problemi tecnici di particolare difficoltà
[46]. Si dovrebbe, all’opposto, esigere una diligenza maggiore, pretendere, cioè, un più alto livello di perizia, di prudenza, di attenzione proporzionale alla gravità del caso sottoposto e non già una diligenza attenuata come parrebbe da una prima lettura dell’art. in esame
[47].
In realtà, la esclusione di responsabilità per colpa lieve trova giustificazione nella esigenza di non mortificare e scongiurare o minimizzare i rischi di diniego di intervento proprio nei casi più difficili per il timore di incorrere in responsabilità, con pregiudizio di interesse oltre che individuali, anche collettivi
[48]. La norma, infatti, muove dal presupposto che il caso richieda una competenza superiore alla media, ed è solo rispetto a tale livello superiore di competenza (che il debitore, ordinariamente non è tenuto ad avere al fine di adempiere esattamente la sua obbligazione) che la legge sanziona solo la colpa grave: e cioè la mancanza, in tale ipotetico livello superiore, del livello minimo necessario per affrontare tali evenienze
[49].
La colpa grave era dunque il baluardo che il legislatore aveva saggiamente tentato di erigere mediante l’art. 2236 c.c., contro i prevedibili attacchi di clienti insoddisfatti di prestazioni professionali in una attività notoriamente a rischio. Un baluardo di carta per la verità
[50], che la giurisprudenza si è incaricata di abbattere nel corso dei pochi decenni successivi alla nascita del cod. civ. del 1942, confinando la norma a casi del tutto particolari, raramente riscontrabili nella pratica medico-legale, giudiziaria e quindi riconoscendo la responsabilità civile, nella maggior parte dei casi, anche per colpa lieve.
L’
iter evolutivo, che si è concluso con la sostanziale vanificazione dell’art. 2236 c.c. da parte del “diritto vivente”, è iniziata negli anni cinquanta, dapprima in dottrina e quindi in giurisprudenza con la sentenza n. 166 del 1973 della Corte costituzionale
[51]. I giudici delle leggi hanno infatti precisato che l’art. 2236 c.c.
[52], non trova applicazione ai danni ricollegabili a negligenza ed imprudenza, essendo essa circoscritta, nei limiti considerati, ai casi di
imperizia ricollegabili alla particolare difficoltà di problemi tecnici che l’attività professionale, in concreto, renda necessario affrontare. La norma, in altri termini, si applicherebbe, pertanto, soltanto quando in discussione vi sia la perizia del professionista, non trovando spazio, dunque, con riferimento ai danni causati per negligenza o imprudenza. In quest’ultimo caso, il professionista risponderà anche per colpa lieve
ex art. 1176 c.c. quando, per omissione di diligenza o imprudenza, provochi un danno nella esecuzione di un intervento operatorio o di una terapia medica
[53].
La restrizione del regime di favore alla sola “perizia” passa attraverso una interpretazione del presupposto dei “problemi tecnici di speciale difficoltà”. Tali sono quelli che presentano i caratteri della eccezionalità o della straordinarietà, perché non sono stati adeguatamente studiati o sperimentati dalla scienza, oppure perché allo stato delle ricerche, sono suscettibili di soluzioni molteplici e incompatibili tra loro
[54]. Si tratta, dunque, di casi in cui la perizia richiesta dal caso concreto trascende la preparazione professionale media
[55]. Quanto all’elemento soggettivo della «colpa grave»
ex art. 2236 c.c. (ossia per “grave imperizia”), questa sussiste in caso di errore inescusabile causato o nella mancata applicazione delle cognizioni generali e fondamentali attinenti alla professione medica, o nel difetto di quel minimo di abilità e perizia tecnica nell’uso dei mezzi manuali o strumentali che il medico deve essere sicuro di saper adoperare correttamente: insomma una condotta incompatibile con quel minimo di cultura ed esperienza che deve legittimamente ritenersi sussistente in capo ad un soggetto abilitato all’esercizio della professione medica
[56] .
4. Come si è detto, la giurisprudenza tradizionalmente ritiene che l’obbligazione del professionista medico sia una obbligazione di mezzi in ragione della intrinseca aleatorietà degli esiti dell’attività considerata.
La progressiva frantumazione di questa discussa dicotomia si è avuta non solo grazie alle critiche della dottrina
[57]A tale conclusione la giurisprudenza è pervenuta sulla base della lettera dell’art. 2236 c.c., il quale fa riferimento, appunto, alla sussistenza di problemi tecnici di speciale difficoltà, che non sussistono, come è ovvio, nel caso di interventi di routine[60]ossia quegli interventi che non richiedono una particolare abilità tecnica essendo sufficiente una preparazione professionale ordinaria, in cui il rischio di esito negativo, o peggiorativo, è minimo ma anche, e soprattutto, grazie all’attività interpretativa dell’art. 2236 c.c. operata dalla giurisprudenza[58]. L’art. 2236 c.c, infatti, è stato ritenuto inapplicabile nelle ipotesi di interventi routinari o di facile esecuzione
[59].
[61]. Ed è proprio con riguardo a queste ultime, che la cassazione ha introdotto una presunzione di colpa a carico del debitore-medico, trasformando l’obbligazione di questo da obbligazione di mezzi ad obbligazione di risultato
[62]che la prestazione professionale sia stata eseguita in modo diligente e che quegli esiti peggiorativi siano stati determinati da un evento imprevisto e imprevedibile[64]. Qualora, invece, il caso specifico implichi la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà (vale adire richieda una particolare abilità e comporti un largo margine di rischio), il cattivo esito dello stesso non consente di per sé di inferirne l’imperizia del medico e l’obbligazione andrà inquadrata come obbligazione di mezzi. In tal caso il medico, dovrà provare solo la complessità dell’intervento, e spetterà al paziente che agisca in giudizio, la prova che l’insuccesso debba essere ascritto non all’alea fisiologica dell’operazione, ma alle specifiche modalità di esecuzione della stessa, in modo da evidenziare la colpa grave del medico
[65].. Si afferma, nello specifico, che se l’intervento operatorio applicato dal chirurgo è di facile esecuzione, la dimostrazione da parte del cliente di un risultato peggiorativo è sufficiente a fondare una presunzione di inadeguata e non diligente esecuzione della prestazione professionale, ossia una presunzione di colpa lieve
ex art. 1176 c.c.
[63]. Tale presunzione si fonda sul principio dell’
id quod plerumque accidit, e cioè come l’insieme delle regole tecniche appartenenti al settore specifico in cui opera il medico e che, per comune consenso e per consolidata sperimentazione, sono acquisite dalla scienza e applicate nella pratica. Dunque in tali ipotesi, il fatto stesso che l’intervento non sia andato a buon fine, e dunque che non sia stato raggiunto il risultato finale che l’attività mirava a conseguire, pone a carico del medico una presunzione di imperizia in base al principio
res ipsa loquitus. Pertanto il paziente ha l’onere di
provare solo il carattere routinario dell’intervento nonché, ovviamente, il mancato conseguimento del risultato finale, mentre spetterà al medico la prova
ex art. 1218 c.c.
L’ascrivere le operazioni di
routine nell’àmbito delle obbligazione di risultato non significa, però, affermare che per esse valga il regime di responsabilità oggettiva
ex art. 1218 c.c. Altrimenti detto, non può farsi discendere una disciplina diversa a seconda che l’obbligazione sia di mezzi o di risultato. Gli artt. 1176 e 1218 c.c., regolamentano, infatti tutte le obbligazioni, e non sono suscettibili di applicazione distinta in ragione dei diversi contenuti che una obbligazione può avere: applicabilità del severo art. 1218 c.c. solo per le obbligazioni di risultato, e applicabilità dell’art. 1176 c.c. per le obbligazioni di mezzi
[66] La natura della responsabilità non può dunque che essere unitaria e, pertanto, il rilievo della colpa, e correlativamente della diligenza, è identico in entrambe le tipologie di obbligazioni. Da ciò discende che quando il soggetto obbligato abbia dimostrato di essere stato diligente, e ciò nonostante il risultato non sia stato conseguito (nel caso dell’attività medica di routine) dimostra con ciò stesso che la prestazione era impossibile per causa lui non imputabile ex art. 1218 c.c.[67]. L’assenza di colpa costituisce, quindi, un indice presuntivo tipizzato dal legislatore, da cui si ricava la sussistenza di una causa non imputabile, ancorché non specificatamente individuata. Così opinando, la prova liberatoria richiesta dall’art. 1218 c.c. avrebbe ad oggetto una generica causa non imputabile, che non necessita di essere specificatamente individuata dal soggetto obbligato, con la conseguenza che la causa ignota graverebbe sul creditore
[68]..
4. 1.
I risultati sopra riassunti ai quali è pervenuta la giurisprudenza di legittimità vanno però oggi riletti alla luce del principio enunciato in termini generali dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la sentenza 30 ottobre 2001, n. 13533, in tema di onere della prova dell’inadempimento e dell’inesatto adempimento. Le Sezioni Unite, nel risolvere un contrasto tra le sezioni semplici, hanno enunciato il principio secondo cui
il creditore che agisce per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per l’adempimento deve dare la prova della fonte negoziale o legale del suo diritto, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell’onere della prova del fatto estintivo, costituito dall’avvenuto adempimento. La sentenza del 21 giugno 2004[69] inserendosi in quel trend giurisprudenziale teso ad alleggerire la posizione processuale del creditore-paziente, esentandolo dal fornire la prova della colpa del professionista nei casi di operazioni di routine, compie un ulteriore passo in avanti. Si afferma, infatti, che il paziente che agisce in giudizio deducendo l’inesatto adempimento dell’obbligazione sanitaria deve provare solo il contratto ed allegare l’inadempimento del sanitario restando a carico del debitore-medico l’onere di provare l’esatto adempimento, trasformando così, dal punto di vista dell’onere della prova, l’obbligazione del medico in una obbligazione di risultato. Più precisamente, dicono i giudici di legittimità, «il paziente dovrà provare l’esistenza del contratto e l’aggravamento della situazione patologica o l’insorgenza di nuove patologie per effetto dell’intervento, restando a carico del sanitario o dell’ente ospedaliero la prova che la prestazione professionale sia stata eseguita in modo diligente e che quegli esiti peggiorativi siano stati determinati da un evento imprevisto e imprevedibile. La distinzione tra prestazione di facile esecuzione, e prestazione implicante la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà, non rileva dunque più quale criterio di distribuzione dell’onere della prova, ma dovrà essere apprezzata per la valutazione del grado di diligenza e del corrispondente grado di colpa, restando comunque a carico del sanitario la prova che la prestazione era di particolare difficoltà». Si nota come da una parte la cassazione abbandoni definitivamente la dicotomia obbligazione di mezzi obbligazione di risultato, distinzione che si fondava a seconda che l’obbligazione rispettivamente fosse di difficile o di facile esecuzione, con le conseguenze che ne discendevano sia sul piano dell’onere della prova che dell’inadempimento, ma soprattutto attribuiscono un valore decisivo alla colpa quale criterio di imputabilità della impossibilità della corretta esecuzione della prestazione. In tal modo, si evita dunque, che incomba sul medico il rischio della causa ignota, in quanto non si porrebbe a suo carico l’individuazione in positivo dell’evento che è stato causa dell’insuccesso, bensì la dimostrazione di aver adottato tutte le cautele necessarie per prevenire ed evitare quanto rientra nella sfera di controllo della competenza e perizia professionale.
5.
L’obbligo di cura del sanitario può trovare il proprio fondamento in un contratto diretto con il paziente, oppure nel rapporto di lavoro alle dipendenze di una struttura sanitaria pubblica o privata. In questo ultimo caso, il paziente stipula un contratto con la casa di cura e viene affidato a un medico dipendente della stessa. Il problema che dunque si pone è a che titolo sia chiamato a rispondere il sanitario dipendente di una struttura ospedaliera che cagiona un danno a un paziente sottoposto alle sue cure. Secondo la giurisprudenza[70] il paziente che si presenta in una struttura ospedaliera per sottoporsi a una visita o a un ricovero, conclude con la stessa un contratto di prestazione d’opera[71]. Fra il medico che esercita la sua professione all’interno dell’ospedale e l’ente ospedaliero intercorre, invece, un rapporto di lavoro subordinato, che ha alla base un altro e diverso contratto rispetto a quello che lega paziente e struttura sanitaria. «Rappresentando graficamente la struttura della situazione in esame attraverso la figura allegorica del triangolo il terzo lato mette, dunque, in relazione paziente e medico»[72]. La giurisprudenza non ha mai dubitato che dei danni arrecati ai privati nell’ambito di strutture sanitarie pubbliche o private debba rispondere tanto l’ente di cura quanto il sanitario dipendente. Tuttavia, ampie discussioni[73] e diversi orientamenti si sono sviluppati con riguardo alla natura della rispettiva responsabilità e nella specie se si trattasse di una responsabilità aquilana o contrattuale[74].
5. 1.
La giurisprudenza di legittimità[75], in un primo momento, partendo da alcune indicazioni tracciate dalla dottrina[76] ha ritenuto che la responsabilità fosse di tipo extracontrattuale[77] sulla puntuale considerazione che il medico non è vincolato da alcun contratto
[78][79]. con il paziente essendo legato soltanto all’Ente ospedaliero (o alla struttura di cura privata) da un rapporto di lavoro subordinato
Tale impostazione, però, ha mostrato una serie di limiti, tanto sul piano della tenuta teorica
[80]‘ascrizione della responsabilità del medico dipendente nell’ambito contrattuale opera sul piano del riconoscimento, a suo carico, di un obbligo di cura diligente, cioè di un facere (pur in assenza di un obbligo di prestazione), suppletivo rispetto a quello di non arrecare danno alla salute del paziente, riconducibile ad un non facere[84] . Il medico, dunque, non è tenuto solo a non peggiorare la salute del paziente, ma a migliorarla. , che su quelle delle conseguenze pratiche poiché limitava grandemente la tutela offerta al paziente, sia sul piano della prescrizione (che è di cinque anni anziché di dieci come nella responsabilità contrattuale), che sul piano dell’onere della prova reso assai più difficile. Una responsabilità di tipo aquiliana porterebbe, nelle sue conseguenze, a considerare come un
quisque[81] autore di un qualsiasi fatto illecito «proprio colui che si presenta al paziente come apprestatore di cure all’uopo designato dalla struttura sanitaria»
[82], cozzando, in questo modo, con l’esigenza «che la forma giuridica sia il più possibile aderente alla realtà materiale»
[83]. A ciò si aggiunga la considerazione che la responsabilità aquilana sanziona solo la
culpa in facendo, e non già quella in
non faciendo, mentre l
Le considerazioni ora esposte hanno fatto sorgere, in dottrina e giurisprudenza il bisogno non solo concettuale, ma anche pratico di trovare una differente soluzione rispetto a quella che riconosce natura extracontrattuale al rapporto medico dipendente-paziente. Ci si è dunque sforzati di far rientrare tale rapporto tra quelli di natura contrattuale.
5. 2. Secondo una diversa interpretazione, la responsabilità del medico dipendente da struttura pubblica dovrebbe, piuttosto, essere qualificata in termini contrattuali.
Tale soluzione è stata variamente argomentata da dottrina e giurisprudenza, sino ad essere cristallizzata, sotto un peculiare profilo, dalla nota pronuncia n. 589/1999 della Suprema Corte
Secondo un primo orientamento
[85], si qualificava come contrattuale sia la responsabilità del medico che quella dell’ente ospedaliero, valorizzando il dato che entrambe trovano un fondamento unitario nell’esecuzione non diligente della prestazione sanitaria, e traendo conforto dall’art. 28 Cost.
Il sillogismo era il seguente: in primo luogo, si è evidenziato che la responsabilità dell’ente gestore del servizio è diretta, in quanto l’attività del medico dipendente è ad esso direttamente riferibile in virtù del principio dell’immedesimazione organica (art. 28 Cost.). In secondo luogo, questa giurisprudenza ha affermato che, poiché tali responsabilità hanno entrambe radice nella non diligente esecuzione della prestazione del medico, la responsabilità di quest’ultimo è, come quella dell’ente pubblico, di tipo contrattuale. Il discorso è fallace, poiché l’art. 28 Cost., si limita a statuire che è diretta la responsabilità dei funzionari e dipendenti dello Stato e degli enti pubblici per gli atti compiuti in violazione di diritti, ma nulla dice sul piano della natura (contrattuale o extracontrattuale) di tale responsabilità.
Parimenti è a dirsi in relazione alla condotta posta in essere da questi soggetti e al precetto violato, dal momento che una stessa condotta può allo stesso tempo, violare più precetti, sia di natura contrattuale che extracontrattuale. Quest’ultima circostanza sarebbe confermata, per altro, dalla considerazione che la giurisprudenza ammette il c.d. concorso proprio delle due forme di responsabilità in capo allo stesso soggetto; in quest’ottica, non può a maggior ragione negarsi la possibilità che uno stesso fatto integri, nel medesimo tempo, un’ipotesi di responsabilità contrattuale a carico dell’ente ospedaliero, ed una responsabilità aquilana a carico del medico. Pertanto, il fatto che entrambe le responsabilità abbiano radice comune nella non diligente esecuzione della prestazione da parte del medico dipendente, nell’àmbito dell’organizzazione sanitaria non comporta necessariamente che le responsabilità di entrambi i soggetti siano di natura contrattuale di tipo professionale.
6.
Negli ultimi anni, la giurisprudenza, ha accolto e riconosciuto una responsabilità da “contatto sociale” in campi nei quali la natura della responsabilità stessa era discussa, per il suo trovarsi in quella che era, come indicato in esordio, in quell’area di turbolenza tra il contratto e il torto[86].
Le ipotesi di incerta collocazione sono state finora individuate, oltre che nel caso che qui ci interessa (e cioè del professionista strutturato che, nell’adempimento di una obbligazione, cagioni un danno a soggetti che non gli sono formalmente creditori) anche nei seguenti àmbiti : nei confronti dei precettori che non vigilano adeguatamente, allievi che si autoproducono lesioni; nell’agire non corretto della pubblica amministrazione; nei confronti del professionista o dell’intermediario finanziario che rende informazioni non veritiere od inesatte ad investitori non professionali; nell’àmbito della responsabilità precontrattuale. L’affermarsi di questa teoria ha come substrato il progressivo dissolversi del distacco tra le figure della responsabilità aquiliana e di quella contrattuale che ha portato la dottrina italiana, sulla scorta di quella tedesca, a configurare la sussistenza, nel rapporto obbligatorio, dei c.d. obblighi di protezione.
Per questo motivo, pare necessario darne, qui di seguito, immediata contezza.
Si è assistiti, negli ultimi decenni, alla estensione dell’illecito extracontrattuale a beni giuridici che storicamente ne erano esclusi. È ormai pacifico il superamento della tradizionale identificazione del requisito della ingiustizia del danno con la violazione di un diritto soggettivo assoluto, ridendosi meritevoli di tutela aquilana, tra gli altri, anche interessi protetti dal contratto.
Più problematico è il fenomeno inverso, di cui ci si occupa in questa sede il quale vede la trasmigrazione nell’àmbito della responsabilità contrattuale di fattispecie tradizionalmente ricondotte all’illecito extracontrattuale.
In questa prospettiva va osservato che nel corso della esecuzione di un contratto può accadere che una parte rechi una lesione ad interessi giuridici diversi da quelli dedotti nel contratto (come, ad esempio, ai danni causati dalla caduta di un bene che si doveva consegnare). Occorre, allora, chiedersi quale sia, in questi casi, la natura giuridica della responsabilità.
In prima battuta, in applicazione del criterio discretivo tra responsabilità contrattuale ed aquilana, dovrebbe dirsi che in questi casi il danneggiante risponda a titolo extracontrattuale.
La dottrina, favorevole alla categoria degli obblighi di protezione
[87], invece, ha correttamente evidenziato che il rapporto obbligatorio ha un contenuto complesso: accanto all’obbligo principale di prestazione, infatti, ciascuna delle parti deve osservare anche una serie di obblighi accessori e di protezione rispetto alla prestazione principale, non specificatamente contemplati, e volti alla tutela della persona e del patrimonio dell’altra parte
[88].
Lo spettro del rapporto obbligatorio è dunque arricchito da una serie crescente di obblighi collaterali dal contenuto eterogeneo che trovano spazio attraverso l’applicazione degli artt. 1175, 1176 e 1375 c.c.
Al pericolo di un danno alla persona, alle cose, o al patrimonio, può tuttavia trovarsi esposto anche un soggetto che sia terzo rispetto alle parti del rapporto obbligatorio, ciò avviene quando il terzo, trovandosi in una posizione in qualche modo connessa a quella del creditore, sia coinvolto dal contatto sociale generato dall’obbligazione. Di conseguenza il terzo corre rischi sostanzialmente equivalenti a quelli cui è esposto il creditore: il comportamento tenuto dal debitore nell’esecuzione del rapporto obbligatorio, o il risultato della esecuzione stessa, può, cioè, incidere in modo pregiudizievole nella sua sfera di interesse. Per provvedere al bisogno di tutela esistente in capo al terzo, è affiorata l’idea che il terzo potrebbe avere diritto a una protezione pari a quella di cui gode il creditore. La tutela del terzo dovrebbe, dunque, seguire gli stessi princípi, vale a dire che il debitore sarebbe responsabile anche nei confronti del terzo, per i danni da esso subiti, secondo le regole della responsabilità contrattuale. Tale idea ha trovato formulazione teorica nella figura del contratto con effetti protettivi per il terzo, figura apparsa sporadicamente nella nostra giurisprudenza
[89], ma di origine germaniche
[90].
L’esigenza che è alla base di questa figura è di giustizia sostanziale, che è mossa dalla considerazione equitativa secondo cui, se la esecuzione di un contratto è pericolosa non solo per il committente ma anche per la sfera dei soggetti che con questi si trovano in una relazione qualificata che li espone ad identici rischi, l’obbligato non può non avere presente che l’intento della controparte è nel senso che siano evitati possibili danni non solo a sé stesso ma anche si suoi familiari e domestici[91].
Secondo una parte della dottrina
[92] sarebbe proprio il contratto con effetti protettivi a favore del terzo la figura che meglio si attagli a fondare la responsabilità contrattuale del tra medico dipendente nei confronti del paziente
[93]. In altri termini, oltre alla prestazione principale, dovuta nei confronti della controparte negoziale, il medesimo contratto (e cioè il contratto di lavoro concluso tra l’ente ospedaliero ed il medico) garantirebbe altresì un ulteriore diritto a che non siano arrecati danni a terzi estranei al negozio (in questo caso al paziente). Tuttavia il ricorso a tale paradigma contrattuale non è esente da critiche poiché non è configurabile, in favore del terzo, un dovere di protezione. Nella fattispecie il rapporto medico dipendente.
Questa impostazione è stata criticata dai giudici di legittimità con la sentenza n. 589 del 1999, poiché l’attività diagnostica e terapeutica è dovuta nei confronti del paziente, nell’àmbito di un preesistente rapporto, “sia dell’ente ospedaliero, sia del medico dipendente, ma da ciascuno di questi sotto un doverso profilo nei confronti di un doverso soggetto. Quanto all’ente ospedaliero, l’attività è dovuta nei confronti del paziente quale prestazione che l’ente si è obbligato ad adempiere con la conclusione del contratto d’opera professionale. Quanto al medico dipendente, l’attività è dovuta nei confronti dell’ente ospedaliero, nell’àmbito del rapporto di impiego che lo lega all’ente e quale esplicazione della funzione che è obbligato a svolgere”
[94]
6. 1. Fino ad ora si sono esaminati gli obblighi di protezione sia nei rapporti tra le parti che nei riguardi dei terzi. Tali ultimi obblighi di protezione, sono stati studiati facendo sempre riferimento alla pregressa stipulazione del contratto, e, quindi, presupponenti l’esistenza anche di obblighi di prestazione contrattuale.
La dottrina e la giurisprudenza sono peraltro ormai dell’avviso che esistano anche obblighi di protezione generati da altre vicende o contatti sociali presi in considerazione dall’ordinamento giuridico come fonti di obblighi di protezione. Viene in questo caso in rilievo o un rapporto giuridico ex lege (es., gestione di affari altrui) che genera l’esigenza di protezione del terzo non dissimile a quelle che viene in rilievo per i rapporti obbligatori contrattuali; ovvero un puro rapporto di protezione senza obblighi di prestazione di matrice contrattuale o legale (es., responsabilità medica).
La Cass. n. 589 del 1999
[95] dopo essersi occupata di demolire le precedenti impostazioni, richiama la teoria dell’obbligazione senza prestazione. Questa tesi, fondata sul contatto sociale, rompe con il tradizionale sistema delle fonti dell’obbligazione ancorato alla
summa divisio contratto – torto e inserisce, quale fonte autonoma di specifiche obbligazioni, l’
affidamento che un soggetto ripone in un altro a seguito di un contratto che fra loro si è creato. L’affidamento nasce da qualsiasi contatto sociale qualificato in base al quale una parte, a seguito di atti o iniziative di un’altra, è indotta a ritenere sussistenti doveri e pretese di comportamento
[96].
La vera chiave di lettura di questa impostazione per la Cassazione concerne, quindi, la problematica delle fonti del rapporto obbligatorio e non la struttura dell’obbligazione, potendo il contatto sociale tra medico e paziente, alla luce di una interpretazione evolutiva, rientrare tra quegli atti o fatti di cui all’art. 1173 c.c. Questo articolo non esclude, ma anzi ammette la possibilità che si inseriscano tra le fonti princípi, soprattutto di rango costituzionale, quali quello del diritto alla salute, che trascendono singole posizioni legislative. La portata dell’articolo citato, viene estesa, quindi, nel senso di ammettere che una obbligazione possa sorgere fra medico e paziente, pur se fra questi non è stato stipulato alcun contratto. Si verificherebbe, cosí, una sorta di dissociazione fra la fonte dell’obbligazione e l’obbligazione stessa poiché un’obbligazione può sorgere ed essere sottoposta alle regole contrattuali anche se il fatto generatore non è il contratto.
Il fatto del medico che cura il paziente è fonte di un’obbligazione conforme all’ordinamento giuridico, perché la professione medica è professione protetta il cui esercizio deriva da una specifica abilitazione dello Stato e la sua attività incide su di un bene costituzionalmente rilevante quale quello della salute.
La Corte ritiene, incoerentemente che l’impostazione appena introdotta, che inserisce l’affidamento tra le fonti dell’obbligazione, sia indirettamente avallata dalle ipotesi legislativamente previste in tema di contratti nulli, che comunque producono qualche effetto (i c.d. contratti di fatto), ipotesi che deporrebbero a favore della possibilità che una obbligazione sorga indipendentemente dalla sussistenza di un valido contratto o di un fatto illecito.
Il collegamento risulta, però, incoerente.
Infatti, sebbene i contratti di fatto ed il contatto sociale originino da un fatto-contratto e comportino come conseguenza l’affermazione di una responsabilità contrattuale, diverso è l’effetto che da questo fatto discende. Nel contratto di fatto, il contatto costituendo la manifestazione di volontà negoziale, comporta la nascita di un vero e proprio rapporto contrattuale con prestazioni principali reciproche; mentre nel secondo, una delle due parti negoziali assume una obbligazione senza prestazione dal cui inadempimento discenderà ugualmente una responsabilità a titolo di inadempimento contrattuale. I rapporti contrattuali di fatto richiedono il compimento di atti negoziali, benché nulli, e sono volti a produrre, sia pure nei limiti stabiliti dalla legge, rapporti obbligatori pieni. Non andrebbero quindi richiamati quando si tratta di obbligazioni senza prestazione, per l’ovvia differenza sul piano del fatto e su quello dell’effetto
[97].
Inoltre, la dottrina che si è occupata dei rapporti di fatto
[98] (e l’affermazione può essere validamente ripetuta con riferimento all’impostazione seguita dalla Cassazione n. 589 del 1999) aveva ritenuto la erroneità dell’utilizzazione del concetto di contatto sociale per giustificare il sorgere di rapporti contrattuali di fatto, in quanto dal contatto sociale possono eventualmente scaturire obblighi di protezione e di conservazione che, per loro natura, non sono obblighi primari di prestazione, ma hanno carattere accessorio e si presentano come fondamento di responsabilità. Tali obblighi operano come situazioni che stanno a lato del rapporto propriamente contrattuale.
I giudici di legittimità come detto, incoerentemente, da un lato rilevano l’esistenza di un’obbligazione senza prestazione, ma poi richiamano la categoria dei rapporti contrattuali di fatto, dai quali sorge un vero e proprio obbligo di prestazione, e infatti affermano che “il paziente non potrà pretendere la prestazione sanitaria del medico, ma se il medico in ogni caso interviene, l’esercizio della sua attività sanitaria non potrà essere differente nel contenuto da quello che abbia come fonte un comune contratto tra paziente e medico”, lasciando dunque intendere che esiste una prestazione esigibile. D’altro canto, la motivazione della sentenza, pur mancando in questa prospettiva di coerenza, è condivisibile nel suo effetto finale. Sarebbe infatti artificiosa la ricostruzione di un’obbligazione senza prestazione che configuri in capo al professionista solo obblighi di protezione e di cura, escludendo cosí che il paziente possa vantare alcun diritto in ordine all’esatto adempimento della prestazione principale. Il rapporto tra paziente e medico, pur quando questi sia dipendente dall’ospedale che ha in cura il malato, è troppo complesso ed articolato, troppor ricco di contenuto, perché possa essere esaurito solo in tale obbligo di protezione, e considerando che sempre più frequenti sono le ipotesi in cui obbligazioni del medico sono state definite come di risultato.
La categoria degli obblighi di protezione senza obbligo primario di prestazione, cosí come il contratto con effetti protettivi a favore di terzo, dunque, appaiono inidonei ad inquadrare la responsabilità del medico nei confronti del paziente, in quanto non rendono conto della attuale evoluzione del rapporto tra medico e paziente.
Ci si chiede, allora su quali basi si possa riconoscere nel contatto sociale tra medio e paziente una forma di esplicazione di autonomia negoziale. Nella prestazione del medico dipendente nei confronti del paziente, ciò che sembra sfuggire è l’accordo tra le due parti che deve precedere l’esecuzione della prestazione.
Guardano alla genesi del rapporto tra paziente e medico dipendente, l’aspetto che indebolisce la matrice negoziale è sicuramente la scelta delle parti contrattuali. Infatti, da una parte vi è il medico, che è tenuto a prestare la sua attività nei confronti del soggetto (il paziente) in virtù del rapporto di dipendenza (
ex contractu) che lo lega alla struttura ospedaliera a cui il medico stesso afferisce; dall’altra il paziente, il quale conclude un accordo con l’ente ospedaliero (e non già con il medico che in quella struttura opera) e non sarebbe dunque libero di scegliere il professionista a cui rivolgersi, essendo in ciò vincolato dalla indicazione fornita dalla struttura. Peraltro, il medico è parte attiva del rapporto e non mero strumento di esecuzione e, “rifiutandosi di adempiere l’obbligo assunto verso l’ente, potrebbe decidere di non dare vita al rapporto con il paziente, ma, una volta instaurato tale rapporto, è il medico stesso ad incidere sul suo contenuto e sulla definizione della prestazione al cui svolgimento egli si vincola personalmente”
[99]. Nell’altro senso, se è vero che il paziente non può scegliere il medico, è anche vero che costui potrà rivolgersi ad una determinata struttura in vista del medico che vi opera ovvero decidere di non ricevere la prestazione offerta dall’ente attraverso un determinato medico e sciogliere il contratto con l’ente.
L’ente, da parte sua, assicura la disponibilità di personale qualificato a cui rivolgersi, riservandosi la facoltà di condizionare la scelta del medico nel momento in cui il paziente decide di avvalersi di quella disponibilità, ed è in questo preciso àmbito che il rapporto di cura si sviluppa e la prestazione viene definita ed eseguita.
L’intermediazione dell’ente svolge una funzione di integrazione del servizio erogato e di organizzazione dello stesso, che, se da una parte riduce la capacità del paziente di scegliere il medico cui rivolgersi, dall’altra offre un interlocutore contrattuale che può dare maggiori garanzie sul piano della completezza e la qualità del servizio. Ci si trova di fronte, quindi, ad una fattispecie contrattuale a struttura complessa, dominata dalla presenza di un
collegamento negoziale tra tre rapporti
ex contractu: quello tra ente e medico, quello tra ente e paziente e quello tra paziente e medico
[100]. Mentre le prestazioni pecuniarie sono regolate dai primi due rapporti e la predisposizione di una adeguata struttura organizzativa compete all’ente, la prestazione professionale è oggetto, a diverso titolo, di entrambi i rapporti facenti capo al paziente: quello instaurato con l’ente, in quanto l’ente assicura la disponibilità di un personale qualificato; quello instaurato con il medico nel momento in cui il paziente decide di avvalersi di quella disponibilità
[101].
In base a questo collegamento negoziale, si coglie uno scopo unitario, pur nella disarticolazione delle controprestazioni nell’àmbito dei singoli rapporti, e si spiega anche la natura dei vincoli entro i quali sorge il rapporto contrattuale tra medico e paziente. Il rapporto tra questi ultimi è un rapporto contrattuale indirizzato per volontà delle parti dal precedente contratto concluso con l’ente.
[Marco Riario Sforza. Dottorando di ricerca].
[1] In argomento, si vedano, tra gli altri, R. De Matteis, La responsabilità medica. Un sottosistema della responsabilità civile,Padova, 1995, p. 3 ss.; Id., Consenso informato e responsabilità del medico, in Corriere giur., 1996, p. 218 ss.; Id., La responsabilità medica, tra prospettive comunitarie e nuove tendenze giurisprudenziali, in Contratto e impr., 1995, p. 489; A.M. Princigalli, La responsabilità del medico, Napoli, 1983, p. 17 ss.; M. Zana, Responsabilità medica e tutela del paziente, Milano, 1993, p. 1 ss.; V. Zeno Zencovich, Responsabilità penale e responsabilità civile, in Il diritto privato nella giurisprudenza, a cura di Cendon, Torino, 1998, p. 4 ss.; A De Martini, La responsabilità civile del medico, in Giust. civ., 1954, p. 1223 ss.; G. De Marzo, Appunti sulla responsabilità civile in campo medico, in Giur., it., 1986, I, c. 681; R. De Rosa, Responsabilità del medico dipendente del servizio sanitario: una nuova tipologia di obbligazioni?, in Giur., merito, 1999, IV, p. 10 ss.; C. Castronovo, Profili della responsabilità medica, in Vita not., 1997, n. 3, p. 1223 ss.; Id., Profili della responsabilità medica, in Studi in onore di P. Rescigno, Milano, 1998, p. 117; P. Stanzione, Attività sanitaria e responsabilità civile, in Resp. civ. e prev., 2003, p. 694; M. Paradiso, La responsabilità medica: dal torto al contratto, in Riv. dir. civ., 2001, I, p. 335; M. Forziati, La responsabilità contrattuale del medico dipendente: il “contatto sociale” conquista la Cassazione, in Resp. civ. e prev., 1999, p. 665; F. Galgano, Contratto e responsabilità contrattuale nell’attività sanitaria, in Riv. trim., 1984, p. 711 ss.; L. Nivarra, La responsabilità civile dei professionisti (medici, avvocati, notai): il punto sulla giurisprudenza, in Europa e dir. priv., 2000, p. 516; G. Alpa, La responsabilità medica, in Resp. civ. e prev., 1999, p. 315.
[2] M. Zana, Responsabilità medica, cit., 1993, p. 13 ss. ricostruisce l’evoluzione storica della responsabilità medica evidenziando come gli interrogativi in materia risalgano intono ai primi anni del 1800. In quell’epoca, nota l’a., i progressi della medicina non avevano determinato un vero e proprio salto qualitativo nei metodi terapeutici e di prevenzione. I primi decenni dell’800 si presentano come un periodo di maturazione della scienza medica, alle soglie di grandi scoperte che determinarono una svolta decisiva nello sviluppo della medicina moderna. Il problema di una disciplina unitaria in tale settore si ebbe per la prima volta in Francia, dove il conflitto tra le posizioni di privilegio, di cui godeva da sempre la classe medica, e l’esigenza di giustizia nei confronti di quanti avessero subito un qualsiasi danno, superò la soglia di una generica rimostranza, suscitando le prime reazioni dei diretti interessati. Due leggi del 1803 segnarono l’inizio di una disciplina, seppure frammentaria, dell’arte medica. Queste leggi sancirono, infatti, l’obbligo della registrazione dei diplomi conseguiti dagli officiers de santè, e ne delimitavano il campo di attività sotto pena di sanzioni, senza peraltro toccare l’area della responsabilità. Fu in seguito alla promulgazione del code civil che il mito della intangibilità dei medici comincio a vacillare.
[3] Cfr. C. Castronovo, Profili della responsabilità cit., p. 1223 ss.
[4] Sul punto, anche per ulteriori rilievi, M. Paradiso, La responsabilità medica cit., p. 326 il quale evidenzia che in tale evoluzione hanno sicuramente agito, in primo luogo, preoccupazioni di tipo equitativo, di tutela del paziente, a fronte di esiti infausti o dannosi delle terapie mediche che la mentalità corrente non è più disposta a subire con rassegnazione. «Si può anzi dire che si è registrata in proposito una metamorfosi paradossale: la primitiva ammirazione o gratitudine per gli straordinari progressi della medicina si è trasformata in insopprimibile desiderio di rivalsa per le ipotesi di fallimento delle cure, tanto che non si contano più gli scritti dei medici legali che giudicano inspiegabili, dal punto di vista medico-scientifico, molte affermazioni di responsabilità della giurisprudenza».
[5]Del resto, nota V. Carbone Sviluppi ed orientamenti della responsabilità professionale medica nei confronti dell’embrione, in Danno e resp. 2000, n. 12, p. 1173, «la disciplina tutta italiana della responsabilità del professionista nel c.c., ben lontana da quella degli altri Stati europei che pur fan parte della CE, non tiene il passo rispetto alla prospettazione di un codice europeo che intenda dar conto delle incisive trasformazioni della società dei possidenti, non più ancorata al latifondo e alla proprietà immobiliare, in cui è esaltata l’attività economica e anche i rischi di chi agisce». In tal senso si veda anche C. Castronovo, Profili della responsabilità, cit., p. 1223 ss.
[6] Complessità dovuta anche dal fatto che la salute si profila quale contenuto essenziale della persona umana e che ha condotto ad un progressivo allontanamento dallo schema generale di riferimento offerto dall’art. 2236 c.c., mettendo in discussione l’assioma secondo cui il medico sarebbe tenuto a una obbligazione di mezzi e non di risultato. Come nota F.D. Busnelli,
o.c., p. 1 ss. «il contratto d’opera intellettuale viene ad interagire con un bene, la salute, oggetto di un diritto fondamentale, costituzionalmente garantito che esso riconosce in una delle parti (il paziente), un soggetto ontologicamente debole che si affida al medico in quanto portatore di uno specifico
status professionale». Inoltre, il rappoero obbligatorio che ne consegue, si confronta con una scienza (la medicina) sempre più in grado, per l’alto livello di sviluppo tecnologico, di controllare e prevenire effetti collaterali indesiderati di trattamenti e di garantire risultati certi. Sul concetto di
status professionale, cfr.,
amplius,
B. Carboni, Status ed autonomia privata, Milano, 1998, p. 9 ss. cui si rimanda per i relativi approfondimenti ed indicazioni bibliografiche.
[7]Cfr. C. Amodio, Responsabilità medica, in Dig. disc. priv., Sez. civ., vol. Aggiornamento, Torino, 2003, p. 1174 ss.; M Paradiso, La responsabilità medica. dal torto al contratto, in Riv. dir. civ., 2001, p. 326; V. Zeno Zencovich, La sorte del paziente – La responsabilità del medico per l’errore diagnostico, Padova, 1994, p. 2.
[8] R. De Matteis, La responsabilità medica, in I grandi orientamenti della giurisprudenza civile e commerciale, diretta da Galgano, Padova, 1995, p. 15 ss.
[9]Cfr. in tal senso G. Alpa, o.c., p. 315; F.D. Busnelli, Illecito civile, in Enc. giur. Treccani, XV, Roma, 1988, p. 1 afferma che parlando «di responsabilità medica, si vuol significare anzitutto che non si è più in presenza di un semplice capitolo della trattazione generale dedicata alla responsabilità del professionista, ma che qui viene in considerazione, piuttosto, un aspetto della tutela della salute dell’individuo in relazione ai pericoli connessi con lo svolgimento di un’ attività medica, o più in generale di un trattamento sanitario. È mutato il quadro legislativo di riferimento: il quale non si esaurisce più nella logica patrimonialistica e sinallagmatica della disciplina di un contratto d’opera intellettuale, ma tende irreversibilmente a coordinarsi con i princípi e con gli obiettivi del servizio sanitario (ora specificati negli artt. 1 e 2 della l. 23. 12. 78, n. 833) e a trarre ispirazione dall’art. 32 cost. Lo scopo, dunque, non è più tanto quello di sanzionare l’inadempimento del medico professionista, quanto quello di assicurare al cittadino che si sottopone ad un trattamento sanitario una tutela preventiva e risarcitoria della propria salute».
[10] G. Alpa, o.c. p. 315; M. Paradiso, o.c., p. 325 ss.; F. Galgano, o.c., p. 712 ss.
[11] V. Roppo, La responsabilità civile dell’impresa nel settore dei servizi innovativi, in Contr. e impr., 1993, p. 89. Critica tale ricostruzione C. Castronovo, La nuova responsabilità civile, Milano, 1997, p. 224 s. nonché L. Nivarra, La responsabilità civile cit., p. 516.
[13] E. Guerrioni, Vecchio e nuovo nella responsabilità del medico, in Resp. civ. e prev., 2001, p. 598; M. De Luca – A. Galione – S. Maccioni, La responsabilità medica, Milano, 2003 p. 121; Cass., 1 gennaio 1998, n. 2144, in Foro it., 1998, I, c. 2296; Cass., 18 giugno 1975, n. 2439, ivi, 1976, I, c. 745; Cass., 13 marzo 1998, n. 2750, in Giur. it., 1999, c. 2279.
[14] Cass., 21 dicembre 1978, n. 6141, in
Foro it., 1979, I, c. 4, sentenza questa che per prima affermò il principio per cui «l’accettazione in ospedale del paziente da parte dell’ente ospedaliero ai fini del ricovero comporta la conclusione di un contratto d’opera professionale con il quale l’ente ospedaliero, assume a proprio carico, nei confronti del paziente, l’obbligazione di svolgere attività diagnostica e la conseguente attività terapeutica in relazione alla specifica situazione patologica del paziente preso in cura». In tal senso v. Cass., 24 marzo 1979, n. 1716, in
Foro it., 1980, I, c. 1115, Cass., 22 ottobre 1993, n. 11503,
ivi 1994, I, c. 2479; Cass., 11 aprile 1995, n. 4152, in
Riv. it. med. leg., 1997, p. 1073; Cass., 13 marzo 1998, n. 2750, in
Resp. civ. e prev., 1999, p. 272; App. Venezia, 11 febbraio 1993, in
Giur. mer., 1994; Trib. Lucca, 18 gennaio 1992, in
Foro it., 1993, I, c. 264 ss. La qualificazione come contratto d’opera professionale, però, non sembra cogliere nel segno poiché l’opera professionale prestata dal medico alle dipendenze della struttura costituisce, infatti, solo una parte della più complessa e articolata obbligazione assunta dall’ente, il cui contenuto non si esaurisce certo nella mera prestazione terapeutica. Vi sarebbe, infatti, una prestazione complessa a favore dell’ammalato formata da un fascio di prestazioni di carattere intellettuale, tecnico e,
lato sensu alberghiero (es., somministrazione de vitto, predisposizione di un ambiente di degenza quanto più possibile confortevole ecc.), nonché di sorveglianza (c.d. prestazioni accessorie). Nell’àmbito di tale rapporto, poi, vi sarebbero anche obblighi di protezione con funzione di salvaguardia del diritto alla salute dei pazienti ricoverati che si concretizzerebbero, in particolare, nel «garantire la sicurezza dell’ambiente in cui i pazienti ricoverati vengono accolti ed al modo in cui vengono trattati dal personale paramedico in caso di difficoltà di deambulazione». Cosí
P. Sanna, Osservazioni critiche in tema di contratto di spedalità, in Resp. civ. e prev., 1998, p. 1556. Da qui, la qualificazione del contratto come contratto c.d. di spedalità. Tale contratto è definito come misto da
A.M. Princigalli, La responsabilità del medico, Napoli, 1983, p. 18 ss. essendo un contratto che comprende sia il trattamento medico e sia i servizi aggiunti. E come atipico da R. Pulcella Nota a Cass., 1 marzo 1988, n. 2144, in Nuova giur. civ. commentata, 1988, p. 610. In tema di obblighi di protezione si veda per tutti C. Castronovo, La nuova responsabilità cit., p. 177 ss; id Obblighi di protezione e tutela del terzo, in Jus, 1976, p. 123 ss.; id voce Obblighi di protezione, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1988; F. Galgano, Contratto e responsabilità contrattuale nell’attività sanitaria, in Riv. trim., 1984, p. 712 ss. Circa i motivi che spinge l’interprete a considerare come contrattuale e non già come aquilina la responsabilità dell’Ente verso il paziente, v. Cass., 1° marzo 1988, n. 2144, in Foro it., 1988, c. 2296, con nota di A.M. Princigalli il quale evidenzia che «i servizi pubblici, assunti ed organizzati dallo Stato o da altro ente pubblico che li gestisce, sono predisposti a vantaggio e nell’interesse dei privati, che, fattane richiesta, ne usufruiscono. Non esiste, in tal caso, una posizione di potere dello Stato o dell’ente pubblico che gestisce il servizio, a differenza dell’attività amministrativa svolta per la realizzazione di interessi generali. Il privato, fattane richiesta, ha un diritto soggettivo alla prestazione del servizio pubblico in suo favore; e al diritto del privato, corrisponde, ed è correlato, il dovere di prestazione dello Stato o del diverso ente pubblico in favore del privato richiedente. A seguito, e per effetto della richiesta si costituisce, quindi, un rapporto giuridico tra due soggetti, strutturato da un diritto soggettivo a da un correlato dovere di prestazione; pertanto la responsabilità dell’ente pubblico verso il privato, per il danno a questi causato dalla non diligente esecuzione della prestazione non è extracontrattuale, essendo configurabile questo tipo di responsabilità quando non preesista tra danneggiante e danneggiato un rapporto giuridico nel cui àmbito venga svolta dal primo l’attività causativa del danno. Sicché, per esclusione, la responsabilità dell’ente pubblico, gestore del servizio pubblico, va qualificata come contrattuale, intesa in tal senso, come responsabilità insorta nel compimento di una attività dovuta nell’àmbito di un preesistente rapporto giuridico, privato o pubblico, tra i due soggetti».
[15] Un tempo, infatti, il rapporto tra medico e paziente era o di tipo contrattuale (se un contratto all’uopo era stato stipulato) ovvero di natura extracontrattuale, se il contatto specifico tra medico e paziente era mediato da una struttura pubblica o privata. Da ciò ne discendeva un diverso regime di responsabilità (rispettivamente contrattuale o aquiliana il medico in caso di suo inadempimento o di danno ingiusto inferto al paziente. Così
G. Alpa, La responsabilità medica, cit., p. 316. Altro orientamento, inserendo la prestazione del medico nel quadro del rapporto privatistico tra ente gestore e paziente, nonché rilevando il diretto rapporto che lega detta prestazione all’aspettativa del privato che richiede il servizio, ravvisa una responsabilità contrattuale sia del sanitario che dell’ente da cui questi dipende in quanto, nell’esercizio del servizio pubblico sanitario, non vengono in rilievo pubblici poteri e, dunque, il privato acquisisce, una volta entrato in contatto con l’ente, un diritto soggettivo, cui corrispondono l’obbligo e la relativa responsabilità dell’ente stesso, nonché, ai sensi dell’art. 28 cost., dei suoi dipendenti. In tal senso si vedano Cass., 2 dicembre 1998, n. 12233, in Danno e resp., 1999, p. 777; Cass., 1° dicembre 1998, n. 12195, in Foro it., 1999, I, c. 77; Cass., 1° febbraio 1991, n. 977, in Giur. it., 1991, I, c. 1379.
[16] L. Mengoni, Obbligazioni «di risultato» e obbligazioni «di mezzi», in Riv. dir. comm., 1954, I, p. 185 ss.; II, p. 280 ss.; III, p. 366 ss. ma già Id., L’oggetto dell’obbligazione, in Jus, 1952, p. 158 ss.; G Osti, Revisione critica della teoria sulla impossibilità della prestazione; in Riv., dir. comm., 1918, I, p. 209 ss.; II, p. 313 ss.; III, p. 417 ss.; V. De Lorenzi, Obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato, in Dig. disc. priv., Sez. civ., XII, Torino, 1995, p. 397 ss.; D. Carusi, Responsabilità del medico e obbligazione di mezzi, in Rass. dir. civ., 1991, p. 497; A. Di Majo, Delle obbligazioni in generale, in Comm. del cod. civ. Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1988, sub artt. 1173- 1176, p. 105 ss.
[17] A. De Martini, La responsabilità civile cit., p. 1223 ss.; C. Lega, Le prestazioni del medico come oggetto di «obbligazione di mezzi»,in Giur. it., 1962, I, c. 1249 ss.; P. Rescigno, Obbligazioni (diritto privato), in Enc. dir., XXIX, Milano, 1979, p. 205; M. Giorgianni, Obbligazioni (teoria generale), in Noviss. dig. it., XI, Torino, 1965, p. 598; C.M. Bianca, Diritto civile, 4, L’obbligazione, Milano, 1993, p. 71 ss.
[18] Cass., 28 marzo 1961, n. 961, in Resp. civ. e prev., 1962, p. 296 ss.; Cass., 29 settembre 1965, n. 2065, ivi 1965, p. 249 ss.; Cass., 21 dicembre 1978, n. 6141, in Giur. it., 1979, I, c. 957.
[19] Cfr. V. Carbone Sviluppi e orientamenti cit., p. 1175, che sottolinea come, a partire dalla metà degli anni 90, la giurisprudenza ha sempre più avuto modo di evidenziare che il professionista (si esso notaio, avvocato o ingegnere) sia sempre più spesso chiamato a rispondere, nei confronti del cliente, del risultato richiesto. Questo risultato è collegato o direttamente all’attività espletata ovvero ai c.d doveri accessori, che sono integrativi dell’obbligo primario della prestazione. Si vedano in tal senso Cass., 3 gennaio 1994, n. 6 in Corriere giur., 1994, p. 1268; Cass., 8 maggio 1993, n. 5325, ivi, 1994, p. 1270; Cass., 21 marzo 1997, n. 2540, ivi, 1997, p. 547.
[20] La distinzione tra obligation de moyen e obligation de résultat si è diffusa in Francia ad opera di F. Doumage, Traitè des obligations en gènèral, V, Paris, 1928, p. 1237 ss. e fu poi ripresa in Italia da L. Mengoni, Obbligazione di «risultato» cit., p. 185 ss.; U. Breccia, Diligenza e buona fede nell’attuazione del rapporto obbligatorio, Milano, 1968, p. 105. In giurisprudenza si veda Cass., 18 giugno 1975, n. 2439, in Foro it., 1976, I, c. 745 ss.; Cass., 25 novembre 1994, n. 10014, ivi, 1995, I, c. 2913 ss.
[21] Il criterio della distinzione tra obbligazione di mezzi e di risultato è utilizzata per risolvere il problema di individuare in quali casi il debitore possa essere ritenuto responsabile e debba risarcire il danno. Al riguardo, in linea generale, vi è, come è noto, una annosa disputa che nasce dall’apparente contrasto degli artt. 1218 c.c. e 1176 c.c. Infatti, dalla lettura dell’art. 1176 c.c., sembrerebbe che il debitore, per non essere ritenuto responsabile, debba solo dimostrare di essere stato diligente; mentre, dalla lettura dell’art. 1218 c.c., sembrerebbe che il debitore, per non essere ritenuto responsabile, debba provare non solo il fatto specifico che ha causato la impossibilità della prestazione ma, altresì, che tale fatto non è a lui imputabile, in quanto evento estraneo imprevedibile ed inevitabile. La regola ex art. 1218 c.c. è, dunque, più sfavorevole proprio in quanto un soggetto potrebbe anche essere diligente, ma nonostante tutto essere inadempiente. Per comprendere, allora, in quali casi il debitore possa essere ritenuto responsabile e debba risarcire il danno, sono state proposte varie teorie: la c.d. teoria oggettiva, la c.d. teoria soggettiva e la teoria che distingue il contenuto della obbligazione a seconda che si tratti di un risultato o di un comportamento (appunto l’obbligazione di mezzi e quella di risultato). Secondo la teoria oggettiva, nel momento in cui la prestazione dedotta nel rapporto obbligatorio non è stata posta in essere, sorge per ciò stesso l’esigenza di tutelare l’interesse del creditore prescindendo completamente dalla valutazione del comportamento diligente del debitore ex art. 1176 c.c. L’art. da ultimo citato, infatti, si dice, regolerebbe solo la fase dell’adempimento (la diligenza cioè sarebbe solo una modalità della condotta). Il debitore, dunque, sarebbe responsabile per il solo fatto oggettivo dell’inadempimento sia esso in colpa oppure no e potrebbe liberarsi da questa responsabilità solo se provasse che l’inadempimento è dipeso da un fatto che non era prevedibile ed evitabile. Pertanto a lui non giova minimamente fornire la prova di aver tenuto un comportamento diligente nell’attività esecutiva e dunque di non essere in colpa. All’opposto, secondo la teoria soggettiva, la colpa del soggetto costituirebbe l’unico criterio per valutare la sua responsabilità. In caso di inadempimento, dunque, il giudice dovrà accertare se il soggetto si sia comportato con diligenza ex art. 1176 c.c. L’impossibilità è considerata non imputabile al debitore, in questa prospettiva, quando il debitore si sia comportato con la diligenza dovuta ex art. 1176 c.c.. Pertanto, secondo la tesi in discorso quando il soggetto obbligato abbia dimostrato di essere stato diligente dimostra – in caso di mancata esecuzione della prestazione – con ciò stesso, che la prestazione era impossibile per causa a lui non imputabile. Utilizzando, invece, il criterio “intermedio” che distingue l’obbligazione a seconda che sia di mezzi o di risultato, si giunge ad affermare che si applicherebbe la regola della responsabilità per colpa ex art. 1176 c.c., in caso di obbligazione di mezzi (il debitore non è responsabile se si è comportato diligentemente), mentre si applicherebbe la regola della responsabilità oggettiva ex art. 1218 c.c. in caso di obbligazioni di risultato. In quest’ultimo caso, la diligenza impiegata dal debitore sarebbe, cioè, irrilevante poiché ciò che è dovuto è solo il risultato. In dottrina, sull’argomento e relativamente alla responsabilità del medico, si veda la fondamentale opera di A.M. Princigalli, La responsabilità del medico, cit., p. 37 secondo cui «con la conclusione del contratto il medico si obbliga nei confronti del malato a svolgere l’attività professionale necessaria e utile in relazione al caso concreto e in vista del risultato che attraverso il mezzo tecnico-professionale il malato spera di conseguire. Il professionista si obbliga a prestare la sua opera con la dovuta necessaria diligenza senza garantire al malato la guarigione che dovrebbe essere prodotta dal trattamento. L’inadempimento consiste nella violazione dei doveri inerenti allo svolgimento dell’attività professionale, cioè nell’inosservanza della diligenza prevista dall’art. 1176, comma 2° c.c. ».
[22] Cfr. Cass., 10 dicembre 1979, n. 6416, in
Mass. giur. it.,1979, p. 1596; Cass., 18 giugno 1975, n. 2439, cit., c. 745 ss.; Cass., 28 aprile 1961, n. 961, in
Giur. it., 1962, I, c. 1248; App., Roma, 25 gennaio 1978, in
Giur. mer., 1980, I, p. 326; Pret. Frascati, 28 dicembre 1971, in
Temi Romana, 1972, p. 152 afferma che «nell’àmbito degli interventi sanitari, deve osservarsi che sovente affiora una situazione di incertezza; che la soluzione di problemi tecnico-diagnostici-terapeutici talora è particolarmente difficoltosa, per l’impossibilità di individuare tutte le innumerevoli variazioni delle caratteristiche psicosomatiche, e di prevedere, caso per caso, con gli ordinari sussidi semiologici, quale sarà l’espressione reattiva del particolare organismo all’azione terapeutica. Ciò rende insicuro o addirittura aleatorio il raggiungimento del risultato (la guarigione), al quale aspirano tanto il malato che il medico (…) donde la definizione di obbligazione di mezzi in contrapposizione a quella di risultati materiali (
opus) od immateriali (la guarigione) e, sul terreno pratico, la valutazione più indulgente della colpa professionale».
[23] In sintesi, nelle obbligazioni di mezzi il comportamento del debitore è in
obligatione, nel senso che la diligenza è considerata quale criterio determinativo del contenuto del vincolo, con la conseguenza che il risultato è caratterizzato dalla aleatorietà, poiché dipende, oltre che dal comportamento del debitore, anche da altri fattori esterni oggettivi o soggettivi. Nelle obbligazioni di risultato, invece, è in
obligatione non già il comportamento del debitore bensì il risultato cui mira il creditore.
[24] Cass., 18 giugno 1975, n. 2439, in Foro it., 1976, I, c. 745 ss.; Cass., 18 maggio 1988, n. 3463, in Corriere giur., 1988, p. 989; Cass., 22 gennaio 1999, n. 589, in Danno e resp., 1999, p. 298 ss. Con riguardo ad altre figure professionali, si vedano, fra le tante, Cass., 28 aprile 1994, n. 4044, in Resp. civ. e prev., 1994, p. 635.
[25] C.M. Bianca, Dell’inadempimento delle obbligazioni, in Comm. del cod. civ. Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1988, sub artt. 1218- 1229, p. 31 precisa che «secondo questa distinzione, nelle obbligazioni c.d. di risultato, l’oggetto della obbligazione si identificherebbe nella realizzazione di un certo risultato finale: ciò che è dovuto sarebbe appunto questo risultato e non l’attività svolta per conseguirlo. Conseguentemente non avrebbe luogo il richiamo alla diligenza come criterio di determinazione della prestazione. Viceversa, nelle obbligazione di mezzi, dette anche di generale prudenza e diligenza, sarebbe dovuto esclusivamente un comportamento diligente, esulando dal contenuto del rapporto il risultato di tale comportamento».
[26]Cfr. in tal senso M. Bilancetti,
La responsabilità penale e civile del medico, Padova, 1995, p. 329.
[27] Cfr.
M. Paradiso, La responsabilità medica dal torto al contratto, in Riv. dir. civ., 2001, p. 329 «il risultato della guarigione, certo non dovuto, idica e seleziona le terapie adeguate al su (sperato) conseguimento: il medico perciò, pur se il malato non guarisca, avrà adempiuto la sua obbligazione ove abbia diligentemente scelto e applicato le cure appropriate per conseguire la guarigione. Sarà invece inadempiente quando la terapia sia stata inadeguata o, magari, sia stata scelta essenzialmente per un fine diverso dalla guarigione, come sperimentare un farmaco o un nuovo metodo terapeutico. E analogamente, il medico risulterà comunque inadempiente, pur quando il malato sia guarito, ove egli abbia omesso le cure appropriate o commesso un errore terapeutico; e ciò potrà rilevare, se non sul piano del risarcimento, nel senso di escludere ad es. il diritto al compenso».
[28] Sulla elasticità del concetto di diligenza si veda U. Natoli, L’attuazione del rapporto obbligatorio, in Tratt. di dir. civ. e comm. Cicu e Messineo, continuato da L. Mengoni, XVI, Milano, 1984, p. 106 ss.; L. Mengoni, La responsabilità contrattuale, in Enc. dir., XXXIX, Milano, 1988, p. 1091; M. Giorgianni, L’inadempimento, cit., p. 187 ss.; C. Osti, Deviazioni dottrinali in tema di responsabilità per inadempimento delle obbligazioni, in Riv. trim., 1954, p. 609; C.M. Bianca, voce Negligenza, (dir. priv.), in Noviss. dig. it., XI, Torino, 1965, p. 190.
[29] In tal senso si veda P. Stanzione, Attività sanitaria cit., p. 694; nello stesso senso M. Paradiso, La responsabilità medica cit., p. 335; M. Forziati, La responsabilità contrattuale cit., p. 665; L. Mengoni, Responsabilità contrattuale (diritto vigente) in Enc. dir., XXXIX, 1988, p. 1097.
[30] Il concetto di diligenza del buon padre di famiglia è spiegato al par. 25 della Relazione al Re: «la diligenza del buon padre di famiglia, come è noto, è una di quelle formule elaborate dalla
giurisprudenza romana e dalla giurisprudenza romanistica, che desumono il loro contenuto dalle concezioni dominanti nella coscienza sociale e che, per la loro adattabilità alle situazioni di fatto, rispondono in modo eccellente ai bisogni vari della vita di relazione. La figura del buon padre di famiglia non si risolve nel concetto di uomo medio, ricavabile dalla pratica delle media statistica; ma è un concetto deontologico che è frutto di una valutazione espressa dalla coscienza sociale. È il modello di cittadino o di produttore, che a ciascuno è offerto dalla società in cui vive, modello per sua natura mutevole secondo i tempi, le abitudini sociali, i rapporti politici ed il clima politico». Risulta chiaro che il concetto di diligenza del buon padre di famiglia sia una clausola generale, mutevole secondo i tempi e i luoghi, che il giudice preciserà di volta in volta.
[31] Cfr. Relazione al Re par. 25. Si tratta, dice la Relazione al Re di un «concetto oggettivo e generale, non soggettivo ed individuale; sicché non basterebbe al debitore, per esimersi da responsabilità, di aver fatto tutto quanto stava in lui per cercare di adempiere l’obbligazione. Ma d’altra parte è un criterio che va commisurato al tipo speciale del singolo rapporto ed è per questo che al 2° comma è chiarito a titolo di esemplificazione legislativa, che, trattandosi di obbligazioni inerenti alla organizzazione o all’esercizio di una attività professionale, la diligenza deve valutarsi avuto riguardo alla natura dell’attività esercitata».
[32]Cass., 18 giugno 1975, n. 2439, in Giurisprudenza. it., 1980, I, c. 953 «La diligenza che il professionista deve porre nello svolgimento dell’attività professionale in favore del cliente è quella media: la diligenza, cioè, del professionista di preparazione media e di attenzione media nell’esercizio della propria attività: in definitiva, la diligenza che, a norma dell’art. 1176 secondo comma c.c., deve valutarsi con riguardo alla natura dell’attività esercitata».
[33] Secondo la Cass., 8 marzo 1979, n. 1441, in
Giur. it., 1979, I, c. 1493, nella valutazione del comportamento diligente del medico rientra senz’altro il suo aggiornamento costante del professionista svolge in punto di valutazione della sua condotta diligente. Lo stesso codice deontologico afferma tale necessità imprescindibile e del resto risulta ricompreso nello stesso principio di riferibilità allo standard medio, che per forza di cose deve essere lo standard aggiornato, che la prestazione del medico debba nascere da conoscenze aggiornate e quindi tecnicamente apprezzabili. Si tratta dunque di un concetto ben più specifico di quello della diligenza del buon padre di famiglia di cui al primo comma dell’art. 1176 c.c., in quanto va rapportato alle specificità tecnico–scientifiche e morali della professione esercitata. Di contrario avviso è
G. Cattaneo, La responsabilità cit., p. 53 secondo cui «sembra evidente che la diligenza del 2° comma dell’art. 1176 c.c. non possa essere qualche cosa di completamente diverso da quella del 1° comma: in realtà la norma del 2° non è che una applicazione particolare della regola generale enunciata nel 1°». Critica tale impostazione
M. Fortino, La responsabilità civile cit., p. 99 s. il quale, pur concordando sul fatto che il contenuto della diligenza del professionista subisce, in relazione all’attività tecnica da esso svolta, «un’alterazione rispetto al contenuto della diligenza di un comune debitore», evidenzia come, questa non possa essere l’unica interpretazione del 2° comma dell’art. 1176 c.c. «In esso, infatti, si stabilisce che la “valutazione” della diligenza deve essere operata tenuto conto dell’attività esercitata. Il collegamento sistematico con il primo comma dell’articolo in esame dimostra che, più che voler indicare il contenuto della diligenza del professionista, si è inteso precisare che il parametro di valutazione non può essere fornito dalla figura del buon padre di famiglia (…) ma deve essere diverso e precisamente connesso alla natura dell’attività esercitata. Il rapporto tra valutazione della diligenza e natura dell’attività potrebbe, in questa diversa visione, essere inteso in due modi: che la natura dell’attività del professionista è tale da richiedere una valutazione meno rigorosa della diligenza usata; che la natura dell’attività è tale da esigere una valutazione più rigorosa della diligenza impiegata, rispetto ai normali parametri».
[34] Cfr., Cass., 26 marzo 1990, n. 2428, in
Giur. it., 1991, I, c. 600 «la diligenza che il medico chirurgo deve impiegare nello svolgimento di tale professione è quello del regolato ed accorto professionista esercente la sua attività con scrupolosa attenzione ed adeguata preparazione professionale. Sulla base di detti princípi il professionista risponde, pertanto, a titolo di colpa lieve, quando per omissione di detta diligenza o comunque per preparazione inadeguata provochi un danno che sia comunque da collegarsi alla esecuzione di una terapia medica o di intervento operatorio, mentre si ha una attenuzione di tale responsabilità quando il caso affidato allo stesso professionista sia di particolare complessità o perché non ancóra a sufficienza sperimentato e studiato o perché ancóra dibattuto con riferimento ai metodi terapeutici da seguire, ed, in tale ipotesi, il medico sarà tenuto al risarcimento dei danni solo per dolo o colpa grave».
[35] La diligenza e la perizia del medico, si esprimono, anche, nella valutazione della opportunità di effettuare il ricovero e l’intervento del paziente in una determinata struttura sanitaria piuttosto che in un’altra. In tal senso si esprimono Cass., 16 maggio 2000, n. 6318, in
Resp. civ. e prev., 2000, p. 940 ss.; Cass., 16 febbraio 2001, n. 2335,
ivi, 2001, p. 581 ss. con nota di
E. Guerinoni, «Vecchio»
e «
nuovo»
nella responsabilità del medico: un campionario di questioni e soluzioni, p. 598 ss.
[36]C. Castronovo, La nuova responsabilità cit., Milano, 1997, pp. 188 e 219; id Obblighi di protezione e tutela del terzo,cit., p. 123 ss.; id voce Obblighi di protezione, cit.; F. Cafaggi, Responsabilità del professionista, in Dig. disc. priv., Sez. civ.,XVIITorino, 1997, p. 198; A. Di Majo, L’obbligazione senza prestazione approda in Cassazione, in Corriere giur., 1999, p. 450; Id, Una dottrina unitaria della obbligazione civile (a proposito del secondo libro del BGB), in Europa e dir. priv., 1998, II, p. 240 ss.
[37]Si rinvia alla fondamentale opera di E. Betti, Teoria generale delle obbligazioni, Milano, I, 1953, p. 96; A. Di Majo, Obbligazioni in generale, in Comm. del cod. civ. Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1985, p. 316;G. Cattaneo, La responsabilità del professionista, Milano, 1958, p. 91 afferma che «durante e dopo l’esecuzione del contratto la buona fede fa sorgere doveri particolari a carico del professionista, distinguibili dal dovere di prestazione strettamente inteso. Si tratta di doveri positivi, come quello di tenere informato il cliente e di consigliarlo, o quello di chiedere il suo parere durante il corso della prestazione, e negativi, come il dovere del segreto e quello di non assumere contemporaneamente la cura degli interessi contrari fra loro di due clienti. È opportuno distinguere qui tra gli obblighi integrativi strumentali, i quali non sono altro che specificazioni ed estensioni dell’obbligo di prestazione e gli autonomi obblighi di protezione o di correttezza i quali tutelano, invece, più che l’interesse del cliente alla prestazione, altri suoi interessi patrimoniali o personali che potrebbero essere lesi in occasione del rapporto obbligatorio».
[38] C.M. Bianca, Dell’inadempimento cit., p. 94.
[39] Secondo Cass., 8 marzo 1973, n. 1441, in Giur. it., I, c. 1493 «qualunque sia la natura, contrattuale o meno, dell’opera professionale, da lui prestata nei confronti del paziente, il chirurgo è sempre tenuto al loro assolvimento, trattandosi di compiti strettamente inerenti all’attività professionale del chirurgo stesso».
[40] Cosí C.M. Bianca, Dell’inadempimento, cit., p. 94.
[41] P. Martini e M. Gabrielli, L’evoluzione dottrinaria e giurisprudenziale della responsabilità medica, Milano, 1985, p. 175; V. D’Orsi, La responsabilità civile del professionista, Milano, 1981, p. 11 ss; A. M. Princigalli, La responsabilità del medico, cit., p. 15 ss.
[42] G. Marzo, Appunti sulla responsabilità civile del medico, in Giur. it., 1986, I, c. 684, evidenzia che «(…) tenendo conto del significato che viene ad assumere l’affidamento del paziente e tendendo conto nel contempo della deontologia professionale, sembra più realistico e sensato affermare che gli operatori sanitari abbiano un generico obbligo di protezione, nei confronti del paziente, per l’intero contesto e per l’intero tempo in cui quest’ultimo possa considerarsi affidato al controllo sanitario». Da ciò deriva che rientra nei suoi compiti anche l’espletamento di attività dirette a eliminare o a attenuare le conseguenze di complicanze che dovessero eventualmente manifestarsi in seguito all’intervento chirurgico. In tal senso Cfr. Cass., 8 marzo 1979, n. 1441, in
Giur. it., 1979, I, c. 1494.
[43] Secondo G. Cattaneo, La responsabilità cit., Milano, 1958, p. 78, la colpa grave dell’art. 2236 «non è che la colpa lieve valutata tenendo conto della speciale difficoltà della prestazione»; secondo, invece A. Bonifacio, Natura e limiti della obbligazione della prestazione medica, in La responsabilità medica in ambito civile. Attualità e prospettive, a cura di Fineschi, Milano, 1988, p. 271 «ove si proceda a una analisi semantica, logica e grammaticale del testo dell’art. 2236, emerge chiaramente che la norma si incentra non già sui problemi tecnici più o meno difficili, bensì sul fatto che vi sia la necessità di trovare per essi una soluzione; il che implica, lapalissianamente che, ove si tratti di problemi tecnici, ancorché di estrema difficoltà, che siano già stati risolti, non può sussistere alcuna necessità di ricercarne la soluzione. Ove cosí non fosse tutti gli interventi chirurgici di alta specializzazione e richiedenti vasta esperienza o anche solo particolare abilità manuale e, perciò stesso, di difficile esecuzione tecnica, mai potrebbero comportare responsabilità, al di fuori delle ipotesi estreme di dolo o della colpa grave; paradossalmente sarebbe sufficiente che qualsiasi medico si dedichi esclusivamente a interventi di alta chirurgia per essere praticamente immune da responsabilità». L’elemento comune a queste diverse posizioni dottrinali è la consapevolezza che l’art. 2236 c.c. non riserva alcun trattamento di favore ai medici.
[44] Tale constatazione è ormai unanime in dottrina, cfr. per tutti G. ALPA, La responsabilità cit., p. 321; S. Amodio, La responsabilità medica, in Dig. disc, priv., Sez. civ., (volume aggiornamento), Torino, 2003, p. 1185.
[45] Cosí
M. Paradiso, La responsabilità medica cit., p. 340.
[46] L. Mengoni, Obbligazioni «di risultato»cit., p. 204.
[47] L’osservazione, manifestata da molti autori in dottrina è espressa in modo assi efficace da M. Bilancetti, La responsabilità penale e civile cit, p. 299. Il Legislatore del ’42, come si legge nella Relazione del Ministro Guardasigilli, n. 917, si trovò di fronte «a due opposte esigenze, quella di non mortificare l’iniziativa del professionista col timore di ingiuste rappresaglie da parte del cliente in caso di insuccesso e quella viceversa di non indulgere verso non ponderate decisioni o riprovevoli inerzie del professionista».
[48] Cosí
A. Bertocchi, Responsabilità del medico libero professionista, in La responsabilità medica, a cura di U. Ruffolo, Milano, 2004, p. 42.
[49] M. Paradiso, La responsabilità medica cit., p. 340.
[50] Cosí testualmente
A. Fiori e E. D’aloia, In tema di cosiddetta «certezza del dritto»: la colpa grave del medico, ovvero in qual modo le buone intenzioni del legislatore sono state vanificate e tramutate in danno, in
Riv. it. med. legale, 2000, p. 1326.
[51] Corte cost., 28 novembre 1973, n. 116, in Giur. cost., 1973, II, p. 676 ss.
[52] La colpa grave ex art. 2236 c.c. consiste nell’errore inescusabile che torva origine o nella mancata applicazione delle cognizioni generali e fondamentali attinenti alla professione o nel difetto minimo di abilità e perizia tecnica nell’uso dei mezzi manuali o strumentali che il medico deve essere sicuro di saper adoperare correttamente o, infine, nella mancanza di prudenza o diligenza che non devono mai difettare in chi esercita la professione sanitaria. Cfr. in materia R. De Matteis, La responsabilità medica cit., p. 147 ss.
[53] Cfr. Cass., 28 novembre 1973, n. 166, in
Foro it., 1974,I, c. 19 ss. «In altri termini, il medico che, pur nella esecuzione di un delicatissimo intervento chirurgico, dimentichi una garza nell’addome del paziente, ovvero che, apprestandosi ad un difficile intervento ortopedico, intervenga sull’art sbagliato, non potrà beneficiare di alcuna limitazione di responsabilità, l’esito infausto essendo connesso non già ad un contegno imperito, bensì negligente o imprudente». Cosí
A. Bertocchi Responsabilità del medico cit., p. 44 e note n.n. 67 e 68.
[54] Cass., 19 maggio 1999, n. 4852, in
Foro it., 1999, I, c. 2874 ss.; Cass., 22 gennaio 1999, n. 589, in
Danno e resp., 1999, p. 294; Cass., 23 febbraio 2000, n. 2044, in
Giur. it., 2000, c. 2015; Trib. Roma, 28 marzo 1978, in
Giur. merito, 1980, I, p. 326.
[55] In tal senso tra le altre Cass., 12 agosto 1995, n. 8845, in Rep. Foro. it., 1995, voce Professioni intellettuali, [5230], n. 170 In dottrina G. Cattaneo, La responsabilità cit., p. 78.
[56] Per tutti si veda
R. De Matteis, La responsabilità medica cit., p.147 ss. In giurisprudenza si veda Cass., 18 giugno 1975, n. 2439, in Giur. it., 1976, I, c. 953 «la responsabilità del professionista è attenuata quando l’attività da svolgere richieda un impegno intellettuale superiore a quello del professionista medio; in tal caso il professionista risponde verso il cliente se nella sua attività si riscontri dolo o colpa grave, con esclusione, quindi, della colpa lieve. Si ha attenuazione della responsabilità del professionista solo quando il caso concreto affidatogli è eccezionale e straordinario, per non essere ancóra stato adeguatamente studiato nella scienza e sperimentato nella pratica, ovvero per essere oggetto di dibattiti scientifici con sperimentazioni di sistemi diagnostici, terapeutici e di tecnica chirurgica diversi o incompatibili». Concludendo sul punto, una colpa lieve verificatasi nell’esecuzione di una prestazione particolarmente difficile, nei termini ora riferiti, escluderà, sotto questo punto di vista, qualsiasi responsabilità (e conseguente obbligo risarcitorio) del medico (sempre che, ben inteso, questi abbia tenuto un comportamento inappuntabile anche dal punto di vista della diligenza e della prudenza ai sensi dell’art. 1176 cpv. c.c.). All’opposto, una condotta gravemente colposa (
rectius, una grave imperizia) commessa dal medico nell’affrontare «problemi tecnici di speciale difficoltà» determinerà una sua responsabilità ai sensi dell’art. 2236 c.c. Come detto, l’art. 2236 c.c non troverà applicazione qualora venga imputato al medico non già una imperizia bensì una condotta negligente o imperita, trovando in tal caso applicazione l’art. 1176 c.c. Sul piano concettuale le nozioni di diligenza e perizia divergono: la perizia indica il possesso di nozioni tecniche acquisite con lo studio e l’esperienza; la diligenza, invece, esprime la misura dell’impegno che il professionista deve porre nello svolgimento dell’attività, al fine di esplicare la propria capacità professionale nel modo più adeguato alla situazione concreta, cioè con la cura, con lo zelo, l’attenzione ecc. Come osservato, un professionista dotato di grande competenza tecnica può talvolta comportarsi in modo negligente o imprudente e, viceversa.
[57] La dottrina più attenta, si vedano tra gli altri C. Lega,
Le prestazioni del medico cit., 1247 ss.;
A. De Martini, La responsabilità civile cit., p. 1224 ss.; C.M. Bianca Diritto civile, 4, cit., p. 71 ss.; D. Carusi, Responsabilità del medico cit., p. 488 ss.; C. Castronovo, Profili della responsabilità cit., p. 1223 ss., P. Rescigno,
Obbligazioni cit
., p. 190 ss.,
M. Giorgianni o.c., p. 50. A. Di Majo, Responsabilità contrattuale, Torino, 1997, p. 56 invece, rifiuta tale articolazione a causa del rischio di frantumare l’unitario fenomeno dell’obbligazione. Si evidenzia come la distinzione in esame manchi nel cod. civ., ma, soprattutto, si sottolinea la difficoltà di immaginare l’esistenza di obbligazioni in cui un risultato non sia comunque dovuto, quanto meno sotto il profilo del diligente comportamento. Chi si sottopone ad una cura, anche in vista di un esito incerto, si attende, infatti, dal medico una condotta diligente che in quanto dovuta, è già essa stessa da intendersi come risultato. «Emerge, dunque, la tendenza a ricercare comunque un risultato all’interno della struttura dell’obbligazione medica: o come immancabile substrato teleologico dell’azione terapeutica, o quale elemento intermedio tra la condotta del medico e guarigione del paziente, consistente nell’attività di cura, suscettibile di essere espresso in termini, appunto, di risultato». Cosí
A. Bertocchi, Responsabilità del medico libero professionista, in La responsabilità medica, a cura di U. Ruffolo, Milano, 2004, p. 35. In questa prospettiva, è possibile cogliere come, nella prestazione medica, il risultato dovuto sia non già la guarigione, quanto, piuttosto, un
complesso di cure atte a guarire che vengono a profilarsi in realtà come un mezzo nella serie teleologica che costituisce il contenuto dell’interesse primario del creditore. Insomma, per dirla con L. Mengoni,
Obbligazioni «
di risultato»cit., p. 187 «un fatto valutato come mezzo in ordine a un fine successivo,
rappresenta già un risultato quando sia considerato in se stesso, come termine finale di una serie teleologica più limitata. Le cure del medico sono un mezzo per la guarigione del malato, ma sono un risultato se lo scopo preso in considerazione è quello di essere curato».. Non è dunque la mancanza di un “risultato dovuto” a contrassegnare la categoria della obbligazioni di mezzi, quanto piuttosto la possibilità che in esse vi possa essere una eventuale divergenza tra la buona cura (in quanto risultato dovuto) ed il perseguimento dell’interesse primario del paziente-creditore finalizzato alla guarigione, potendo interagire su di essa fattori che non sono sempre controllabili
[57]. Cfr in tal senso R. De Matteis, La responsabilità medica. Un sottosistema della responsabilità civile cit., p. 363 ss . Nulla di più. Inoltre, sottolinea C.M. Bianca, Diritto civile, 4, p. 72 ss., la dicotomia in esame ha «carattere relativo» poiché non sono certo riscontrabili obbligazioni in cui sia dovuto soltanto il risultato e non già lo sforzo diligente per realizzarlo. Tale sforzo è necessario per qualsiasi tipo di obbligazione ivi compresa, dunque, l’obbligazione di risultato. In tali obbligazioni, infatti, non è dovuta, a differenza di quella di mezzi, una specifica attività strumentale, ma ciò non esclude ma anzi implica che il debitore sia pur sempre tenuto ad impiegare la prescritta diligenza per conseguire il risultato previsto e, più in generale, per evitare l’inadempimento. Inoltre, dal punto di vista della fase patologica del rapporto obbligatorio, non può farsi discendere una disciplina diversa a seconda che l’obbligazione sia di mezzi o di risultato. Gli artt. 1176 e 1218 c.c., regolamentano, infatti tutte le obbligazioni, e non sono suscettibili di applicazione distinta in ragione dei diversi contenuti che una obbligazione può avere: applicabilità del severo art. 1218 c.c. solo per le obbligazioni di risultato, e applicabilità dell’art. 1176 c.c. per le obbligazioni di mezzi. Cosí
P. Rescigno, Manuale di diritto privato, Milano,2000, p. 528, ma anche in Obbligazioni cit
., p. 190 ss., il quale evidenzia il profilarsi, casomai, di una tipologia di obbligazioni nelle quali la diligenza, «oltre che la misura per valutare l’esattezza dell’adempimento, costituisce ed esaurisce l’oggetto stesso dell’obbligazione». In conclusione il comportamento negligente integrerebbe già, di per sé solo, gli estremi dell’inadempimento, senza doversi attendere il proseguimento della prestazione (nel nostro caso, il felice esito, ad esempio, di un intervento chirurgico). In dottrina circa la unitarietà della disciplina della responsabilità per inadempimento fondata sul combinato disposto degli artt. 1176 c.c. e 1218 c.c. cfr. C.M. Bianca,
Diritto civile, 4, p. 72; per la limitazione al solo art. 1218 c.c. si veda C. Castronovo,
Profili della responsabilità, cit., p. 1228.
[58] Anche a voler continuare a conservare, nei termini tradizionalmente intesi, la distinzione tra obbligazione di mezzi e di risultato, risulterebbe comunque semplicistico qualificare l’obbligazione del medico sempre e comunque come una obbligazione di mezzi avendo il progresso scientifico notevolmente ridotto i margini di incertezza circa la conseguibilità di un determinato “risultato”. Come infatti osserva M. Comporti,
La colpa professionale, in
La giurisprudenza per massime e il valore del precedente con particolare riguardo alla responsabilità civile, Padova, 1988, p. 353, nei casi in cui, attraverso dati statistici o di esperienza, sia, infatti, possibile ragionevolmente attendersi dal professionista un particolare “risultato”, allora il rischio del mancato raggiungimento di questo graverà su di lui, con ogni conseguenza relativa. Inoltre, nulla esclude che sia il medico stesso (così come un qualunque professionista) ad impegnarsi a fornire un risultato. La giurisprudenza,in particolare, ha ritenuto il risultato come obbligo contrattuale nella chirurgia estetica, in cui l’intervento è dettato non da esigenze terapeutiche, ma soltanto migliorative dell’aspetto estetico. Il risultato, assume rilevanza anche nel caso in cui il medico debba eseguire alcuni accertamenti diagnostici da effettuarsi con strumenti tecnologicamente avanzati, dove il risultato può essere compromesso solo dall’errore umano. Cfr. in tal senso Cass., 6 ottobre 1997, n. 9705, in
Giust. civ., 1998, I, p. 424. Come osservato da V. Carbone,
Sviluppi ed orientamenti della responsabilità professionale medica nei confronti dell’embrione, in
Danno e resp., 2000, n. 12, p. 1178, «storicamente, il cavallo di Troia che ha fatto saltare le mura di confine della dicotomia obbligazione di mezzi / obbligazione di risultato, intesa come parametro e limite della responsabilità medica, va identificato nel dovere accessorio ed integrativo di informazione, che sempre più diviene elemento caratteristico della responsabilità nell’intero settore della medicina e chirurgia, anche se nato in origine nel limitato settore della chirurgia estetica». Infatti, la previsione in capo al professionista dell’obbligo di prospettare al paziente la possibilità dell’ottenimento del risultato perseguito, fa sì che l’obbligazione del professionista in termini di mezzi non sembra più idonea a dissimulare il fatto che la realizzazione del risultato sperato entra a far parte del contenuto della prestazione promessa in capo al professionista. Può osservarsi come la dottrina [M. Forziati,
La responsabilità contrattuale del medico cit.,p. 667; L.
Rossi Carleo, Brevi considerazioni sulla problematica della forma del consenso negli atti di disposizione del proprio corpo, in Studi in onore di M. Giorgianni, Napoli, 1988, p. 700] abbia progressivamente ampliato il contenuto di tale dovere fino a farvi rientrare tutte le circostanze attinenti alla complessiva situazione clinica del paziente, alla attività terapeutica che in concreto deve essere svolta, nonché ai rischi e alle prospettive di successo ad essa legate. Il diritto al consenso informato è, dunque, parte integrante del programma obbligatorio tra il medico ed il paziente ed ha la propria fonte in un contratto concluso tra lo stesso medico ed il paziente
(contratto sussistente sia nel caso di un rapporto tra medico libero professionista e paziente, sia nel caso di rapporto tra medico dipendente ospedaliero e paziente). La giurisprudenza sul punto precisa che il dovere di informazione diretto a ottenere un consapevole consenso del cliente «interviene dopo che la esplicazione di tale attività, è già iniziata con l’esecuzione del contratto d’opera professionale: e quindi ha natura contrattuale, cosi come contrattuale è la responsabilità derivante dal suo mancato assolvimento». Cosí testualmente Cass., 26 marzo 1981, n. 1773, in Arch. civ., 1981, p. 544. Nello stesso senso v. Cass. 8 agosto 1985, n. 4394, in Foro it., 1986, I, c. 122 nonché Cass., 23 maggio 2001, n. 7027, ivi 2002, I, c. 2504 ss. ove espressamente si legge che «il contratto d’opera professionale si conclude tra il medico ed il cliente quando il primo, su richiesta del secondo, accetta di esercitare la propria attività professionale in relazione al caso prospettatogli; che tale attività si scinde in due fasi, quella, preliminare, diagnostica, basta sul rilevamento dei dati sintomatologici, e l’altra, conseguente, terapeutica o di intervento chirurgico, determinata dalla prima; che l’una e l’altra fase esistono sempre, e compongono entrambe l’iter dell’attività professionale, costituendo perciò entrambe la complessa prestazione che il medico si obbliga ad eseguire per effetto del concluso contratto di opera professionale; che poiché solo dopo l’esaurimento della fase diagnostica sorge il dovere del chirurgo di informare il cliente sulla natura e sugli eventuali pericoli dell’intervento operatorio risultato necessario, questo dovere di informazione diretto ad ottenere un consapevole consenso alla prosecuzione dell’attività professionale, non può non rientrare nella complessa prestazione. Di qui, in definitiva, la natura contrattuale della responsabilità derivante dalla omessa informazione». Il dovere d’informazione assume un rilievo fondamentale, in una duplice direzione: da una parte, infatti, la corretta informazione costituisce il presupposto per la valida prestazione del consenso al trattamento medico, dall’altra, assume i contorni di un dovere autonomo rispetto alla stessa colpa professionale, potendone addirittura prescindere. Cfr. Cass., 25 novembre 1994, n. 10014, in
Foro it., 1995, I, c. 2913 «nel contratto di prestazione d’opera intellettuale tra il chirurgo ed il paziente, il professionista anche quando l’oggetto della sua prestazione sia solo di mezzi, e non di risultato, ha il dovere di informare il paziente sulla natura dell’intervento, sulla portata ed estensione dei suoi risultati e sulle possibilità e probabilità dei risultati conseguibili, sia perché violerebbe, in mancanza, il dovere di comportarsi secondo buona fede nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto (art. 1337 c.c.) sia perché tale informazione è condizione indispensabile per la validità del consenso, che deve essere consapevole, al trattamento terapeutico e chirurgico, senza del quale l’intervento sarebbe impedito al chirurgo tanto dall’art. 32 comma 2 della costituzione, a norma del quale nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge, quanto dall’art. 13 cost., che garantisce l’inviolabilità della libertà personale con riferimento anche alla libertà di salvaguardia della propria salute e della propria integrità fisica, e dall’art. 33 della l. 23 dicembre 1978 n. 833, che esclude la possibilità di accertamenti e di trattamenti sanitari contro la volontà del paziente se questo è in grado di prestarlo e non ricorrono i presupposti dello stato di necessità (art. 54 c.p.)».
E. Quadri La responsabilità medica cit., p. 1168 sottolinea proprio come «la violazione della libertà di autodeterminazione del paziente, dunque, l’omissione della necessaria informazione è considerata, di per se stessa, fonte di responsabilità per i riflessi pregiudizievoli dell’intervento eseguito, appunto in violazione di un simile diritto di autodeterminazione, indipendentemente, cioè, dalla ricorrenza di qualsiasi colpa di tipo tecnico – professionale addebitabile al medico nella scelta e nell’esecuzione dell’intervento medesimo». L’a., inoltre, evidenzia come tale assunto sia accolto anche dalla giurisprudenza di merito, «come per esempio, quella della Corte d’Appello di Milano, del 2 maggio 1995, in cui raggiunta la priva della mancata informazione, la violazione del diritto di scelta da parte del paziente, quale inadempimento contrattuale, è ritenuta senz’altro idonea a fondare la responsabilità in ordine al danno subito dal paziente: la lesione del diritto alla salute, è reputata infatti eziologicamente collegata alla lesione del diritto alla autodeterminazione come può agevolmente dedursi dal fatto che, rispettato quel diritto, o non si sarebbe verificata la grave ed irreparabile lesione, ovvero se ne sarebbe trasferito il relativo rischio contrattuale in capo al paziente stesso». Conseguentemente, il professionista, prima di acquisire il consenso, ha l’obbligo di illustrare, anche ai sensi dell’art. 29 del cod. deontologico integralmente al paziente la situazione che ha di fronte, le possibilità d’intervento, gli eventuali effetti benefici che ne dovrebbero conseguire, nonché i rischi che potrebbero deviarne. Cfr. Cass., 24 marzo 1999, n. 2793, in
Giust. civ., 1999, I, p. 1598; Cass., 6 ottobre 1997, n. 9705,
ivi, 1998, I, p. 424.
Cass., 25 novembre 1994, n. 10014, in Nuova giur .civ. commentata, 1995, I, p. 940 ss. Il medico, quindi, deve mettere il paziente nelle condizioni di effettuare, nel limite delle proprie possibilità, una valutazione, quanto più cosciente e completa, dei «costi» e dei «benefici» e prestare di conseguenza il consenso all’effettuazione delle operazioni che la scelta comporta. Questo obbligo costituisce una delle concrete applicazioni proprie della diligenza del «regolato e accorto professionista»
ex art. 1176 comma 2 c.c. Sulla effettiva esistenza del consenso informato, cfr. in modo critico,
G. Calabresi, Funzione e struttura dei problemi di responsabilità medica, in AA.VV., La responsabilità medica, Milano, 1983, p. 53; In materia si vedano
L. Mengoni, Obbligazioni «
di risultato»cit., p. 206;
A. De Martini, La responsabilità civile cit., p. 1225 ss.; C.M. Bianca, Dell’inadempimento cit., p. 40; M. Fortino, La responsabilità civile del professionista, Milano, 1984, p. 78; C. Castronovo, Obblighi di protezione e tutela del terzo, in Jus, 1976, p. 136; E. Quadri, La responsabilità medica tra obbligazioni di mezzi e di risultato, in Danno e resp. 1990, n. 12, p. 1172 cui si rimanda per ulteriori indicazioni bibliografiche e giurisprudenziali. È interessante notare, evidenzia l’a., come l’obbligo di informazione si avverta soprattutto in tema di chirurgia estetica. Le ragioni che inducono a considerare il trattamento ai fini estetici come una obbligazione di risultato vanno cercate nella mancanza di un quadro fisio–patologico di tale gravità da suggerire l’intervento e, consequenzialmente, nel maggior rigore con cui il medico dovrebbe vagliare le possibilità di miglioramento estetico.
[59] Un intervento è considerato di facile e routinaria esecuzione quando «non richiede una particolare abilità, essendo sufficiente una preparazione professionale ordinaria, ed il rischio di esito negativo o addirittura peggiorativo è minimo». Cfr. in tal senso, Cass., 21 dicembre 1978, n. 6141, in Giur. it., 1979, I, c. 953. Tale rilievo si basa sull’id quod plerumque accidit inteso come l’insieme delle regole tecniche appartenenti al settore specifico in cui opera il medico e che, per comune consenso e consolidata sperimentazione, sono acquisite dalla scienza ed applicate dalla pratica.
[60] E. Quadri, La responsabilità medica cit., p. 1171 nota come «l’art. 2236 c.c. ha finito con l’apparire sempre più un ramo secco dell’ordinamento, confinato oltretutto esclusivamente al profilo della perizia e non a quelli dell’imprudenza e della negligenza. Destinato a operare solo quando il caso concreto sia straordinario od eccezionale, sì da essere non adeguatamente studiato nella scienza medica e sperimentato nella pratica, ovvero quando nella scienza medica siano proposti e dibattuti diversi, ed incompatibili tra loro, sistemi diagnostici, terapeutici e di tecnica chirurgica».
[61] Cass., 18 giugno 1975, n. 2439, in
Giur. it., 1976, I, c. 953 «la responsabilità del professionista è attenuata quando l’attività da svolgere richieda un impegno intellettuale superiore a quello del professionista medio; in tal caso il professionista risponde verso il cliente se nella sua attività si riscontri dolo o colpa grave, con esclusione, quindi, della colpa lieve. Si ha attenuazione della responsabilità del professionista solo quando il caso concreto affidatogli è eccezionale e straordinario, per non essere ancóra stato adeguatamente studiato nella scienza e sperimentato nella pratica, ovvero per essere oggetto di dibattiti scientifici con sperimentazioni di sistemi diagnostici, terapeutici e di tecnica chirurgica diversi o incompatibili».
[62]L. Nivarra,
La responsabilità cit. p. 518
, l’obbligazione, in tali casi (c.d. di
routine), «si trasformerebbe in obbligazione di risultato». La qualificazione dell’obbligazione del medico come obbligazione di risultato esplica poi i suoi più rilevanti effetti sul piano della ripartizione dell’onere della prova, poiché il creditore-paziente Sarà, infatti il creditore – paziente ad avere l’onere di provare la difettosa o inadeguata esecuzione prestazione professionale, l’esistenza del danno ed il rapporto di causalità tra la difettosa o inadeguata prestazione professionale e il danno, mentre incombe sul professionista l’onere di provare l’impossibilità, a lui non imputabile, della perfetta esecuzione della prestazione.
[63] C. Castronovo,
Profili della responsabilità, cit., p. 1228 evidenzia come tale distinzione costituisca, indubbiamente, una importante evoluzione dal punto di vista dei contenuti in materia di prestazione d’opera intellettuale, ed in particolare in materia di obbligazione medica. Secondo l’a. «quello che non è possibile sottovalutare dal punto di vista della teoria del rapporto obbligatorio è comunque il chiarimento che la svolta della Cassazione, nonostante uno strumentario un po’ rudimentale, ci ha consentito di conseguire: la messa in luce, in
corpore vili, dell’inconsistenza della distinzione tra obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato. Già il semplice fatto di continuare a qualificare l’obbligazione in questione come di mezzi per poi applicarle il modello di responsabilità che da sempre i teorici proclivi alla distinzione e la stessa giurisprudenza hanno attribuito alle obbligazioni di risultato basterebbe a screditare la distinzione. Essa è ormai soltanto fonte di confusione e va abbandonata per evitare la persistenza dell’equivoco su cui si fonda. Si faccia capo alla condotta del prestatore dell’opera medica o all’esito (o a quello che si pretende esserne l’esito) che ne sia conseguito, l’una e l’altra non rilevano in maniera diversa e non mettono capo […] a un regime diverso di responsabilità. La prova circa la prima, cioè, non attiene alla colpa come criterio di imputazione di una responsabilità che invece ne prescinde, ma attiene soltanto a un risultato diverso: precisamente quello che, secondo la natura della prestazione, deve reputarsi originariamente dovuto dal debitore e sul quale si misura l’adempimento o l’inadempimento con la conseguente responsabilità. Questo significa che anche nelle obbligazioni che implicano la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà
ex art. 2236 c.c., la colpa grave, pur oggetto di prova da parte del creditore, lo è in quanto prova di inadempimento
in re ipsa, quell’inadempimento che in ogni caso è onere del creditore provare ai fini del giudizio di responsabilità».
[64] Cass., 21 dicembre 1978, n. 6141, in
Giur. it., 1979, I, c. 953.
[65]Cass., 2 agosto 2001, n. 10610, in Corriere giur., 2001, p. 1274; Cass., 16 febbraio 2001, n. 2335, in Resp. civ. e prev., 2001, p. 580; Cass., 27 agosto 1998, n. 7336, ivi, 1999, p. 996; Cass., 23 febbraio 2000, n. 2044, in Giur. it., 2000, c. 2015; Cass., 19 maggio 1999, n. 4852, ivi, 2000, I, c. 479; Cass., 18 ottobre 1994, n. 8470, in Rep. Foro it., 1994 voce Professioni intellettuali, [5230], n. 107; Cass., 18 ottobre 1994, n. 8470, in ivi, 1995, voce Professioni intellettuali, n. 107. Secondo una sentenza del Trib. di Spoleto del 18 marzo 1999, in Danno e resp.,1999, n. 12. p. 1247 «la limitazione di responsabilità ex art. 2236 c.c. non si applica al medico generico che consapevolmente abbia omesso di consultare uno specialista il quale avrebbe potuto indirizzarlo, oltre che a una diagnosi più esatta, verso un intervento con conseguenze meno dannose».In dottrina, L. Nivarra, La responsabilità civile dei professionisti, cit., p. 520; M. Forziati, La responsabilità contrattuale cit., p. 666; R. Zuccaro, Responsabilità del medico e regime probatorio, in Giur. it., 2000, I, c. 2016 ss.; E. Guerinoni, «Vecchio» e «nuovo»cit., p. 602 ss.
[66] Cosí
P. Rescigno, Manuale di diritto privato, Milano,2000, p. 528, ma anche in Obbligazioni cit
., p. 190 ss., il quale evidenzia il profilarsi, casomai, di una tipologia di obbligazioni nelle quali la diligenza, «oltre che la misura per valutare l’esattezza dell’adempimento, costituisce ed esaurisce l’oggetto stesso dell’obbligazione». In conclusione il comportamento negligente integrerebbe già, di per sé solo, gli estremi dell’inadempimento, senza doversi attendere il proseguimento della prestazione (nel nostro caso, il felice esito, ad esempio, di un intervento chirurgico). In dottrina, circa la unitarietà della disciplina della responsabilità per inadempimento fondata sul combinato disposto degli artt. 1176 c.c. e 1218 c.c., v. C.M. Bianca,
Diritto civile, 4, p. 72; per la limitazione al solo art. 1218 c.c. si veda C. Castronovo,
Profili della responsabilità, cit., p. 1228.
[67] Cfr.
M. Giorgianni, L’inadempimento, Milano, 1975, p. 296 ss. Nello stesso senso si veda M. Paradiso, La responsabilità medica, cit., p. 330 «Quando oggetto dell’obbligazione è un risultato – ad es., la realizzazione di una protesi o un trapianto di capelli – l’attività impiegata per conseguirlo rileverà propriamente come mezzo o strumento a discrezione del debitore, ma, anche in tal caso, la diligenza dovuta è quella media, con la conseguenza che il debitore non sarà inadempiente se il risultato non era comunque conseguibile con l’impiego di tale livello di diligenza: semplicemente, non avrà diritto al corrispettivo non avendo conseguito il risultato dovuto».
[68] In tal senso si veda anche
V. De Lorenzi, Obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato, in Dig. disc. priv., Sez. civ., Torino, 1990, p. 400: «La distinzione non incide sul criterio di imputazione della responsabilità poiché il fondamento della responsabilità contrattuale è identico nelle due ipotesi e permane soggettivo per i fautori della teoria soggettiva ed oggettivo per i fautori di quella obiettiva». Cfr. altresì
M. Giorgianni, L’inadempimento, cit., p. 296 ss.; C.M. Bianca, Diritto civile, 4, p. 72 ss. Nello stesso senso si veda
M. Paradiso, La responsabilità medica, cit., p. 330: «Quando oggetto dell’obbligazione è un risultato – ad es., la realizzazione di una protesi o un trapianto di capelli – l’attività impiegata per conseguirlo rileverà propriamente come mezzo o strumento a discrezione del debitore, ma, anche in tal caso, la diligenza dovuta è quella media, con la conseguenza che il debitore non sarà inadempiente se il risultato non era comunque conseguibile con l’impiego di tale livello di diligenza: semplicemente, non avrà diritto al corrispettivo non avendo conseguito il risultato dovuto»..Da ciò discende che nella obbligazione di mezzi, non obbligandosi il medico alla guarigione, bensì ad un comportamento professionalmente adeguato,
rivolto alla guarigione, comporterà che se questo risultato non viene conseguito, il medico non sarà per questo responsabile; sarà il paziente, eventualmente insoddisfatto della prestazione professionale ricevuta, a dover dimostrare che il medico è in colpa. Il debitore può liberarsi provando di aver svolto diligentemente la propria attività. Nella obbligazione «di risultato», spetterà, invece, al debitore-medico, secondo il generale disposto dell’art. 1218 c.c., provare, in caso di mancato conseguimento di quel risultato, che, nonostante ciò, egli non è in colpa. La differenza risiede nel fatto che, in questo caso è il medico-debitore e non il paziente-creditore danneggiato a dover dimostrare che la sua condotta è stata diligente e, dunque, esente da censure per il mancato conseguimento del risultato perseguito In conclusione, il rilievo pratico della distinzione, che attiene alle caratteristiche della prestazione, si manifesta sul piano dell’adempimento e, più specificatamente, del giudizio di impossibilità dello stesso: nelle obbligazioni di mezzi il debitore è esonerato quando risulta impossibile la specifica attività assunta a contenuto della prestazione, mentre nelle obbligazioni di risultato è esonerato solo quando sia impossibile realizzare il risultato dovuto mediante qualsiasi attività strumentale.
[69] Cass., 21 giugno 2004, n. 11488, in
Danno e resp., 2005, p. 27.
[70] Cass., 13 marzo 1998, n. 2750, in Arch. civ., 1998, n. 6, p. 659; Trib. Napoli 15 febbraio 1995, in Jus, 1996, p. 87 il paziente che si presenta in una struttura ospedaliera per sottoporsi a una visita o a un ricovero, conclude con la stessa un contratto di prestazione d’opera.
[72] L’espressione è di F.G. Pizzietti, La responsabilità del medico dipendente, come responsabilità da contrattuale da contatto sociale, in Giur. it., 2000, c. 739.
[73] Lo sottolinea anche E. Guerinoni, «Vecchio» e «nuovo»cit., p. 605.
[74] Sulla scorta degli studi di C. Castronovo, La nuova responsabilità civile, cit., p. 177 ss., si osserva che la responsabilità del medico rientra «in quell’area di turbolenza ai confini tra responsabilità aquiliana e responsabilità contrattuale, nella quale confluiscono una serie di ipotesi di danno connotate da profili che le accostano ora all’una ora all’altra senza riuscire a rendere persuasivo e soddisfacente l’inquadramento che se ne voglia fare nella prima o nella seconda. Ascriverle alla responsabilità contrattuale sembra frutto di una enfatizzazione e ricondurle a quella extracontrattuale si rivela un impoverimento». V. Roppo, La responsabilità civile dell’impresa cit., p. 89 afferma che la responsabilità medica «taglia orizzontalmente e supera i comparti corrispondenti ai due classici tipi della responsabilità contrattuale ed extracontrattuale definendosi piuttosto in funzione del genere di attività regolata e del genere di conseguenze che possono derivarne».
[75] Cfr. Cass., 24 marzo 19879, n. 1716, cit., c. 1115 ss.; Cass., 5 gennaio 1979, n. 31, in Giur. it., 1979, I, c. 954; Cass., 6 maggio 1971, n. 1282, in Foro it., 1971, I, c. 1456; Trib. Vicenza, 27 gennaio 1990, in Nuova giur. civ. commentata, 1990, I, p. 734. In dottrina M. Clarich, La responsabilità del medico nelle strutture sanitarie pubbliche, in AA. VV. La responsabilità medica, Milano 1982, p. 175 ss. In senso difforme, sulla natura contrattuale della responsabilità del medico dipendente di una struttura sanitaria cfr. Cass., 13 novembre 1970, n. 2392, in Giur. it., I, c. 622.
[76] A. Monateri, La responsabilità civile, cit., p. 770.
[77] La responsabilità extracontrattuale non era di ostacolo alla applicazione analogica dell’art. 2236 c.c. Infatti, la ratio di questa norma, consiste nella necessità di non mortificare l’iniziativa del professionista nella risoluzione di casi di particolare difficoltà e ricorre, pertanto, indipendentemente dalla qualificazione dell’illecito. Cfr. in tal senso Cass., 6 maggio 1971, n. 1282, in Foro it., 1971, I, c. 1476 ove si legge che l’art. 2236 c.c. «è applicabile non solo in campo contrattuale ma anche extracontrattuale, in quanto prevede un limite di responsabilità per la prestazione dell’attività professionale in genere, sia che essa si svolga nell’àmbito di un rapporto contrattuale vero e proprio».Nello stesso senso cfr. Cass., 6 marzo 1971, n. 606, ivi, 1971, c. 1850. Tra le sentenze di merito, cfr., tra le altre, App. Roma, 6 settembre 1983, in Resp. civ. e prev., 1984, p. 89.
[78] Infatti, perché vi sia una responsabilità contrattuale occorre la sussistenza, ai sensi dell’art. 1321 c.c., di un accordo, cioè
l’incontro delle volontà dei contraenti su di un assetto disciplinare che realizza i loro interessi anche se contrapposti che, nell’ipotesi in esame sembra mancare.
[79] Va detto che seguendo questa impostazione, la giurisprudenza successiva è pervenuta a costruire una particolare ipotesi di cumulo «improprio» tra responsabilità contrattuale dell’ente ospedaliero e quella extracontrattuale del medico dipendente, in quanto un unico comportamento risalente al medesimo autore (e quindi un evento dannoso unico nella sua genesi soggettiva) appare di per sé lesivo non solo di specifici diritti derivanti ex contractu al contraente, ma anche dei diritti soggettivi assoluti, che in quanto tali fanno capo alla persona umana, di non subire una lesione alla propria incolumità ed integrità fisica che, in quanto tale, è meritevole di tutela secondo l’ordinamento anche a prescindere dalla sussistenza di una fattispecie contrattuale.[Cosí M. Forziati, La responsabilità contrattuale del medico dipendente cit., p. 673; A. Princigalli, La responsabilità del medico, Napoli, 1983, p. 265]. Si veda, per la giurisprudenza, Cass., 23 giugno 1994 n. 6064, in Giur. it., 1995, I, c. 412; Cass., 13 marzo 1998, n. 2750, in Danno e resp., 1998, p. 820.
[80] I fautori della tesi della responsabilità aquilana sostengono che il paziente non ha certo la possibilità di far cadere la scelta su quale medico dovrà averlo in cura in quanto, di solito, i medici curanti vengono scelti dalla struttura in base alla disponibilità, alla specializzazione, all’orario e, dunque, il paziente non ha certo la possibilità di scegliere con quale parte contraente concludere il contratto. Tale obiezione non sembra, però, decisiva, poiché il paziente, in linea teorica, può rivolgersi ad una determinata struttura in vista del medico che vi opera ovvero decidere di non ricevere la prestazione offerta dall’ente attraverso un determinato medico e sciogliere il contratto con l’ente.
[81] C. Castronovo, La nuova responsabilità civile cit., p. 180 ss.
[82] Cosí, Cass., 22 gennaio 1999, n. 589 in Giur. it., 2000, c. 740. Si vedano, tra gli altri, i commenti di F. G. Pizzietti, o.c., c. 740; V. Carbone, La responsabilità del medico ospedaliero come responsabilità da contatto sociale, in Danno e resp., 1999, p. 294; A. Di Majo, L’obbligazione senza prestazione cit., p. 441; G. Di Ciommo, Note critiche sui recenti orientamenti giurisprudenziali in tema di responsabilità del medico ospedaliero, in Foro it., 1999, c. 3332; A. Giancalone, La responsabilità del medico dipendente del servizio sanitario nazionale: contrattuale, extracontrattuale o «transtipica»?, in Giust. civ., 1999, I, p. 1003.
[83] La Cass., 22 gennaio 1999, n. 589 cit., riprende la nota tesi di C. Castronovo, La nuova responsabilità civile, cit. p. 221 il quale evidenzia come «proprio colui che si presenta al paziente come apprestatore di cure nell’ambito di un intervento in cui al primo è stato affidato il secondo viene considerato come l’autore di un qualsiasi fatto illecito, ancora una volta alla stregua di un passante. L’esito sembra cozzare contro le esigenze di una forma giuridica che sia il più possibile aderente all’idea materiale (della materia che si distingue dalla forma ma ne reclama in pari tempo una a sé omogenea) che del rapporto abbiano i soggetti che vi partecipano». La dottrina, e la giurisprudenza, nello sforzo di superare i limiti di tutela di questa impostazione, hanno tentato in vario modo di ricondurre allora la responsabilità del medico dipendente della a.s.l., nella struttura della responsabilità contrattuale. C. Castronovo, Obblighi di protezione cit., p. 132 ss. cercò di spiegare la responsabilità contrattuale del medico attraverso l’applicazione della normativa relativa al contratto a favore di terzo. L’a. ha infatti affermato che, l’ente gestore del servizio sanitario, nel momento in cui assicura la prestazione del professionale del medico, stabilisce anche che il beneficiario di detta prestazione sia il paziente che successivamente richiederà la prestazione. Tale ricostruzione, secondo la sentenza del 1999 n. 589, va scartata in quanto «il soggetto danneggiato che agisce non aziona il contratto esistente tra l’ente ed il medico ma aziona il diverso contratto intervenuto tra lui e l’ente gestore per ottenere la prestazione sanitaria, rispetto al quale egli non è terzo beneficiario, ma parte contrattuale, ovvero propone un’azione di responsabilità extracontrattuale per le lesioni del suo diritto soggettivo assoluto, quale è il diritto alla salute». Secondo un orientamento antecedente a quello del 1999, nel tentativo di ricondurre nell’alveo della responsabilità contrattuale Per la giurisprudenza si veda Cass., 11 maggio 1988, n. 2144, in Foro it., 1988, I, c. 696. La sentenza affermò che la responsabilità dell’ente ospedaliero, gestore di un servizio pubblico sanitario, e del medico suo dipendente per i danni subiti da un privato a causa della non diligente esecuzione della prestazione medica, inserendosi nell’ambito del rapporto giuridico pubblico (o privato) tra l’ente gestore ed il privato che ha richiesto ed usufruito del servizio, ha natura contrattuale di tipo professionale. I giudici delle leggi, richiamando l’art. 28 cost.(che, accanto alla responsabilità dell’ente pubblico, prevede quella del funzionario o del dipendente per gli atti compiuti da questi ultimi in violazione di diritti) affermano che, dovendo l’ente ospedaliero rispondere a titolo contrattuale, ed essendo «identica la radice di responsabilità» (il negligente svolgimento della attività diagnostica–terapeutica), identica sarebbe la natura della responsabilità (e, quindi, contrattuale). Tale tesi è stata criticata dalla sentenza Cass n. 589 del 1999 in quanto il richiamo all’art. 28 cost., «non è esaustivo poiché non statuisce sulla natura della responsabilità», che è rimessa alle leggi civili, penali ed amministrative, «ma solo sulla natura diretta di essa». Ne discende che «poiché la legge civile tra l’altro contempla sia una responsabilità contrattuale che extracontrattuale, il solo richiamo al citato art. 28 cost., non è esaustivo del problema relativo alla natura della responsabilità del medico dipendente». A ciò si aggiunga che l’argomento relativo alla «radice comune della responsabilità» dipende dalla natura della norma violata e non dalla condotta in concreto tenuta dal soggetto agente. È evidente, allora, che la medesima condotta può ben essere imputata in base a diversi titoli («ciò comporta che una stessa condotta può violare due o più precetti, uno di natura contrattuale ed uno di natura extracontrattuale, fondando quindi due diverse responsabilità»).
[84] P. Girolami La responsabilità contrattuale (o da contatto) del medico dipendente. alcune considerazioni alla luce della sentenza cassazione civile, 22 gennaio 1999, n. 589 in Riv. it. medicina legale 2001, p. 311 ss.
[85] Cass., 1° marzo 1988, n. 2144, in
Foro it., 1988, c. 2296; Cass., 7 ottobre 1998, n. 9911,
ivi, c. 3520 che da riferimento all’art. 1228 c.c.; Cass., 11 aprile 1995, n. 4152, in
Riv. it, medicina legale, 1997, p. 1073; Cass., 3 marzo 1995, n. 2466, in
Giur. it., I, c. 91, con nota di
D. Carusi, Responsabilità del medico, diligenza professionale, inadeguata dotazione della struttura ospedaliera; Cass., 27 luglio 1998, n. 7336, in Resp. civ. e prev., 1999, p. 996, con nota di M. Gorgoni, Disfunzioni tecniche e di organizzazione sanitaria e responsabilità professionale medica, Cass., 2 dicembre 1998, n. 12233, in Danno e resp., 1999, p. 777, con nota di R. De Matteis, La responsabilità medica tra scientia iuris e regole di formazione giurisprudenziale.
[86] Cosí
C. Castronovo, L’obbligazione senza prestazione cit., p. 177 ss.
[87] C. Castronovo, Obblighi di protezione e tutela del terzo cit., p. 123 ss.; ID, Obblighi di protezione cit., p. 1 ss.; L. Mengoni, La parte generale delle obbligazioni, in Riv. crit. dir. priv., 1984, p. 508 ss.; F. Benatti, voce Doveri di protezione, in Dig. disc. priv., Sez. civ., VII, Torino, 1994; ID Osservazioni in tema di doveri di protezione, in Riv. trim., 1960, p. 1342 ss.; A. Di Majo, Delle obbligazioni in generale, in Comm. del cod. civ. Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1988, p. 121 ss.; L. Bigliazzi Geri voce Buona fede nel diritto civile, in Dig. disc. priv., Sez. civ., II, Torino,1988, p. 169; C.M.Bianca, Dell’inadempimento cit., p. 34.
[88] Entro tale impostazione, in pratica, fatti e comportamenti che di per sé rientrerebbero nell’area della responsabilità aquilana vengono ricondotti, quando si verifichino in connessione con l’adempimento di un’obbligazione, entro la sfera di dominio della responsabilità contrattuale. La funzione dell’assorbimento in esame sarebbe quella di attribuire alle parti del rapporto obbligatorio una tutela più intensa di quella prevista dall’art. 2043 c.c. per la generalità dei soggetti, in ragione dei rischi specifici (e dell’aumentata possibilità di danno) conseguenti al rapporto instauratosi fra le parti ed al contratto tra le rispettive sfere giuridiche, che giustificherebbero per l’appunto l’insorgere, in capo alle parti, di specifici doveri di salvaguardia dell’altrui interesse, più intensi rispetto al dovere generico del
neminem laedere.
[89] Lo schema teorico è presente in App. Roma, 30 marzo 1971, in
Foro pad., 1972, I, p. 552 s. (che riconosce a soggetti terzi, i quali erano membri conviventi della famiglia di un prestatore di lavoro, un’azione contrattuale di danno nei confronti del datore di lavoro, nell’àmbito di un contratto di portierato in base al quale al capofamiglia era stato assegnato un alloggio malsano nel quale i familiari si erano ammalati). Per giungere a configurare espressamente la figura del contratto con effetto di protezione per il terzo occorre però attendere Cass., 22 novembre 1993, n. 11503, in
Giur. it., 1994, I, c. 550 ss., con nota di
D. Carusi, Responsabilità contrattuale ed illecito anteriore alla nascita del danneggiato (la sentenza attribuisce al contratto intercorrente tra ente ospedaliero e una gestante ricoverata per il parto la qualità di fonte di effetti protettivi nei confronti del neonato).
[90] Le maggiori critiche che sono state mosse a questo istituto attengono al principio della relatività degli effetti del contratto sancito dall’art. 1372 comma 2° c.c. Il principio di relatività del contratto
ex art. 1372 c.c. osterebbe infatti alla possibilità, al di fuori dell’art. 1411 c.c., che le parti possano assumere obblighi nei confronti di terzi e questi possano rivendicare una tutela risarcitoria di tipo contrattuale in caso di violazione di detti obblighi. Si dice, infatti, che in tali ipotesi si avrebbe un soggetto terzo non titolare di un diritto alla esecuzione della prestazione ma legittimato a lamentare a titolo contrattuale il danno da violazione degli obblighi di protezione. L’obiezione non è però decisiva poiché tale principio è valido solo nei casi in cui al soggetto terzo possa derivare uno svantaggio. È stato infatti osservato che la regola del 2° comma dell’art. 1372 c.c., combinata con la normativa
ex art. 1411 c.c., porta come sintesi ad una unica norma del seguente tenore: il contratto non produce effetto rispetto ai terzi, salvo che non sia stipulato in loro favore. Inoltre, la tutela dell’interesse del terzo al cui vantaggio gli effetti del contratto si sono prodotti è, peraltro, sempre tutelata attribuendogli il potere di rifiuto che si ricava dal sistema e, in particolare, dall’art. 1411 c.c. In sostanza, la protezione del terzo si fonda sul principio ovvio per cui le parti nella loro autonomia non possono danneggiare i terzi. L’autonomia, cioè non va intesa come autoregolamento egoistico dei propri interessi ma anche come regolamentazione funzionale alla tutela della sfera e degli interessi di terzi ai quali si è variamente legati. La Cassazione, a tal proposito, evidenzia come «molti contratti hanno ad oggetto una pluralità di prestazioni in cui, accanto e oltre alla prestazione principale, è garantito e rimane esigibile un ulteriore diritto a che non siano arrecati danni a terzi estranei al contratto».
[91] Tale contratto con effetti protettivi nei confronti di terzi si distingue, poi, dal contratto a favore di terzo
ex art. 1411 c.c. Qui, infatti, il terzo ha diritto di chiedere l’esecuzione della prestazione, mentre nel contratto con effetti protettivi, l’unico soggetto titolare del diritto alla prestazione è il contraente. Purtuttavia, in caso di inadempimento della prestazione accessoria, può agire per il risarcimento dei danni non solo la controparte, ma anche e soprattutto il soggetto a protezione del quale è posta quella previsione.
[92] D. Carusi, Responsabilità contrattuale ed illecito anteriore cit., c. 550; V. Zeno Zencovich, Il danno al nascituro, in Nuova giur. civ. comm., 1994, p. 690; A. R. Venneri, Diritto del nascituro a nascere sano, obbligo di prestazione del medico e sua responsabilità contrattuale, in Rass. dir. civ., 1995, p. 908 ss. Sull’istituto del contratto con effetti protettivi per il terzo, v. da ultimi, M. Maggiolo, Effetti contrattuali a protezione del terzo, in Riv., dir. civ., 2001, p. 41 ss.; A Di Majo, La protezione del terzo tra contratto e torto, in Europa e dir. priv., 2000, p. 20
[93] Una parte della dottrina, definisce il rapporto medico dipendente/paziente in termini di contratto con effetti protettivi nei confronti di un terzo in forza del quale quest’ultimo (ossia il paziente) vanterebbe un vero e proprio diritto alla diligente esecuzione della prestazione oggetto del contratto (intercorrente tra il medico e l’ente ospedaliero), al fine di evitare ogni pregiudizio.
[94] Cfr. Cass., 22 gennaio 1999, n. 589,
in Danno e resp., 1999, p. 296.
[95] V. Carbone, La responsabilità del medico come responsabilità da contatto, in Danno e resp ., 1999, n. 31, p. 303; Trib. Verona, 4 marzo 1991, in Giur. merito, 1992, I, p. 823; Trib. Lucca, 18 gennaio 1992, in Foro it., 1993, I, c. 264. Molto critico con questa ricostruzione è L. Nivarra, Responsabilità civile dei professionisti (medici, avvocati, notai): il punto sulla giurisprudenza, in Europa e dir. priv., p. 517; A. Di Majo, L’obbligazione senza prestazione approda in Cassazione, in Corriere giur., 1999, p. 450.
[96] L’affidamento può generare una responsabilità contrattuale solo in presenza di un altro elemento in grado di giustificare il superamento dei confini della responsabilità aquilana. Questo elemento è dato dalla professionalità ad esempio, il rapporto obbligatorio senza obbligo primario di prestazione può scaturire solo da soggetti professionali che, in relazione al loro particolare status o alla loro specializzazione in materia, assumono una posizione di garanzia nei confronti dei destinatari della prestazione. Cfr. in tal senso
P. Girolami La responsabilità contrattuale (o da contatto) del medico dipendente cit., p. 312 evidenzia che «sul dato epistemologico dello status professionale che qualifica il medico e dell’imperativo della buona fede che connota il rapporto medico-paziente, in qualsiasi ambito esso si realizzi – sia libero professionale sia nel contesto di una struttura sanitaria – prende forza l’idea che l’attività professionale implica l’adempimento di obblighi di conservazione della sfera giuridica altrui, obblighi che nascono dall’affidamento inevitabilmente generato dalla stessa professionalità, la cui violazione, in caso di danno, ascrive la responsabilità del professionista all’ambito contrattuale».
[97] Cosí,
C. Castronovo, La responsabilità civile in Italia al passaggio del millennio, in Europa e dir. priv., 2003, p. 157; A. Thiene, La Cassazione ammette la configurabilità di un rapporto obbligatorio senza obbligo primario di prestazione, in Nuova giur. civ. comm. 2000, p. 334; nello stesso senso v. anche R. De Rosa, Responsabilità del medico cit., pp. 1152- 1153 che, con grande lucidità, evidenzia l’incongruenza del ragionamento della Cassazione. L’a. nota che la Cassazione, dopo aver incluso il rapporto tra medico e paziente nelle categorie delle obbligazioni senza prestazione, giustifica tale inserimento richiamando la diversa figura del rapporto contrattuale di fatto. In un caso si ha infatti un’obbligazione generica ed accessoria di prestazione, mentre nell’altro, è il contatto a creare l’obbligazione principale del contratto.
[98] Con riferimento alla incidenza della teoria dei contratti di fatto nel nostro ordinamento, v.
R. Sacco, Il contratto di fatto, in Tratt. dir. priv., Rescigno, X, 1995, p. 54 ss.; I contratti in generale, I, in Giur. sist. civ. e comm., Bigiavi, Torino 1991, p. 411 ss.; E. Roppo, Il contatto sociale e i rapporti contrattuali di fatto, in Casi e questioni di diritto privato, a cura di M Bessone, V, Milano, 1993, p. 1 ss.; G. Stella Richter, Contributo allo studio dei rapporti di fatto nel diritto privato, in Riv. trim., 1977, p. 151 ss.
[99] Cfr.
P. Iamiceli, Responsabilità del medico dipendente: interessi protetti e liquidazione del danno, in Corriere. giur., n. 3, 2000, p. 381.
[100] In questo senso in dottrina,
P. Iamiceli, o.c., p. 381.
[101] Cfr.
P. Iamiceli, o.c., p. 382
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