È quanto ha ribadito la Corte di Cassazione, Sezione III Civile, con l’ordinanza del 1 febbraio 2018, n. 2480, mediante la quale ha rigettato il ricorso e confermato quanto già deciso, nel caso de quo, dalla Corte d’appello di Reggio Calabria.
La vicenda
La pronuncia in esame ha avuto origine dal fatto che il Tribunale di Reggio Calabria accoglieva la domanda di risarcimento dei danni per la morte del rispettivo figlio e fratello quattordicenne, precipitato nel 1991 in una scarpata a lato di un viadotto in agro del Comune di Utopia (RC) mentre lo percorreva a bordo del suo ciclomotore, proposta nei confronti dell’ANAS da CAIO, TIZIA e MEVIA.
Il Tribunale accolse la domanda con il riconoscimento del solo 50% per il ritenuto concorso causale della vittima nella produzione del tragico evento, con liquidazione dell’importo di € 77.470 oltre accessori.
L’appello principale dell’ANAS fu però accolto, con sentenza n. 2X/2014 dalla Corte di appello di Reggio Calabria, che escluse ogni responsabilità della proprietaria della strada ed attribuì l’evento, riconosciuto conforme il guardrail alle prescrizioni di legge vigenti, ad altri fattori dotati di esclusiva efficienza causale, comunque a quella non riconducibili.
Per la cassazione di tale sentenza hanno proposto ricorso CAIO e MEVIA, affidandosi ad un unitario motivo.
Il motivo di ricorso
Con l’unico motivo di ricorso, i ricorrenti lamentano «violazione e falsa applicazione dell’art. 2051 c.c. in riferimento all’art. 360 n. 3 c.p.c.», deducendo che erroneamente la Corte di appello avrebbe escluso il nesso causale tra le condizioni della cosa custodita dall’ANAS – cioè il guardrail – e il tragico evento, anche perché sarebbe stata doverosa una sua maggiore attenzione a misure di protezione maggiori rispetto a quelle minime imposte dalle pure osservate disposizioni vigenti al tempo dei fatti.
La decisione
La Corte di Cassazione, mediante la menzionata ordinanza n. 2480/2018 ha ritenuto il motivo non fondato ed ha rigettato il ricorso.
Sul punto controverso la suprema Corte ritiene la fattispecie offra l’occasione per una puntualizzazione dei principi in materia di responsabilità per danni da cose in custodia, come via via espressi dalla propria giurisprudenza, con attenzione specifica – poi – alla custodia dei beni demaniali e, tra questi, di quelli di grande estensione, come strade e loro accessori e pertinenze.
La Corte premette alla riflessione che incombe al danneggiato l’onere di un’opzione chiara – benché anche solo di alternatività o reciproca subordinazione, ma espressa in tal senso – tra l’azione generale di responsabilità extracontrattuale, ai sensi dell’art. 2043 cod. civ., e quella della responsabilità – oggettiva – per fatto della cosa, ai sensi dell’art. 2051 cod. civ., visto che le due domande presentano tratti caratteristici, presupposti, funzioni ed oneri processuali assai diversificati (tra molte: Corte di Cassazione, 05/08/2013, n. 18609; Corte di Cassazione, 21/09/2015 n. 18463).
In primis occorre puntualizzare che la giurisprudenza di legittimità ha fissato il principio di diritto che «la responsabilità ex art. 2051 cod. civ. postula la sussistenza di un rapporto di custodia della cosa e una relazione di fatto tra un soggetto e la cosa stessa, tale da consentire il potere di controllarla, di eliminare le situazioni di pericolo che siano insorte e di escludere i terzi dal contatto con la cosa.
La citata norma non dispensa il danneggiato dall’onere di provare il nesso causale tra cosa in custodia – e danno, ossia di dimostrare che l’evento si è prodotto come conseguenza normale della particolare condizione, potenzialmente lesiva, posseduta dalla cosa, mentre resta a carico del custode, offrire la prova contraria alla presunzione iuris tantum della sua responsabilità, mediante la dimostrazione positiva del caso fortuito, cioè del fatto estraneo alla sua sfera di custodia, avente impulso causale autonomo e carattere di imprevedibilità e di assoluta eccezionalità» (tra molte: Corte di Cassazione, 29/07/2016, n. 15761).
A tal riguardo, è prevalente in dottrina e dominante nella giurisprudenza di legittimità la tesi della qualificazione della responsabilità in esame come responsabilità oggettiva, nella quale non gioca alcun ruolo la negligenza o, in generale, la colpa del custode (responsabilità sine culpa).
Va così osservato che, purché si tratti di un danno «cagionato» da una cosa e che questa sia una cosa che si «ha in custodia», null’altro è richiesto.
Basti allora da un lato accettare quale ragione giustificatrice di tale peculiare responsabilità la sua natura e funzione di contrappeso al riconoscimento di una signoria, quale la «custodia», sulla cosa che entra o può entrare a contatto con la generalità dei consociati, signoria che l’ordinamento riconosce ad un soggetto evidentemente affinché egli ne tragga o possa trarre beneficio o in dipendenza di peculiari situazioni doverose e, dall’altro lato, rilevare come il danno, di cui si è chiamati a rispondere, deve essere causato dalla cosa.
Sotto il primo profilo, il potere sulla cosa, per assurgere ad idoneo fondamento di responsabilità, deve manifestarsi come effetto di una situazione giuridicamente rilevante rispetto alla res, tale da rendere attuale e diretto l’anzidetto potere attraverso una signoria di fatto sulla cosa stessa, di cui se ne abbia la disponibilità materiale (Corte di Cassazione, 29/09/2017, n. 22839).
Sotto il secondo profilo, quello della causazione del danno da parte della cosa, non ci si può esimere da una sommaria premessa alla problematica della causalità in diritto civile. A questo riguardo, è noto che, con la fondamentale elaborazione delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (sentenze del dì 11/01/2008, nn. 576 ss., alla cui amplissima ed esauriente elaborazione deve qui bastare un richiamo), ai fini della causalità materiale nell’ambito della responsabilità extracontrattuale va fatta applicazione dei principi penalistici, di cui agli artt. 40 e 41 cod. pen., sicché un evento è da considerare causato da un altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo (c.d. teoria della condicio sine qua non).
L’evento dannoso deve essere attribuito esclusivamente all’autore della condotta sopravvenuta, solo se questa condotta risulti tale da rendere irrilevanti le altre cause preesistenti, ponendosi al di fuori delle normali linee di sviluppo della serie causale già in atto con la precisazione che neppure è sufficiente tale relazione causale per determinare una causalità giuridicamente rilevante, dovendosi, all’interno delle serie causali così determinate, dare rilievo a quelle soltanto che appaiano ex ante idonee a determinare l’evento secondo il principio della c.d. causalità adeguata o quello similare della c.d. regolarità causale.
Quest’ultima, a sua volta, individua come conseguenza normale imputabile quella che – secondo l’id quod plerumque accidit e quindi in base alla regolarità statistica o ad una probabilità apprezzabile ex ante (se non di vera e propria prognosi postuma) ma non da un punto di vista soggettivo, cioè da quello dell’agente, ma in base alle regole statistiche o scientifiche e quindi per così dire oggettivizzata – integra gli estremi di una sequenza costante dello stato di cose originatosi da un evento (sia esso una condotta umana oppure no) originario, che ne costituisce l’antecedente necessario.
Tali principi portano a concludere che tutto ciò che non è prevedibile oggettivamente ovvero tutto ciò che rappresenta un’eccezione alla normale sequenza causale, ma appunto e per quanto detto rapportato ad una valutazione ex ante o in astratto, integra il caso fortuito, quale causa non prevedibile.
Queste conclusioni vanno poi applicate alla peculiare fattispecie del «danno cagionato dalle cose in custodia» e l’assenza di specificazioni di sorta comporta che il danno rilevante – di cui cioè il custode è responsabile – prescinde dalle caratteristiche della cosa custodita, sia quindi essa o meno pericolosa, oppure no e la fattispecie può allora comprendere, sempre dando luogo alla responsabilità ai sensi dell’art. 2051 cod. civ., una gamma potenzialmente indefinita di situazioni.
In questo complessivo contesto va calata la conclusione, tradizionale nella giurisprudenza di legittimità, dell’accollo al danneggiato della sola prova del nesso causale tra la cosa e il danno: ove la cosa oggetto di custodia abbia avuto un ruolo nella produzione – a tanto deve limitarsi l’allegazione e la prova da parte del danneggiato – incombe poi al custode o negare la riferibilità causale dell’evento dannoso alla cosa, ciò che esclude in radice l’operatività della norma, cioè dare la prova dell’inesistenza del nesso causale.
Su quest’ultimo punto, la recente decisione della Corte di Cassazione, ordinanza del 31/10/2017, n. 25837, ha puntualizzato che il caso fortuito è ciò che non può prevedersi (mentre la forza maggiore è ciò che non può evitarsi), per poi giungere, dopo un’accurata disamina del ruolo della condotta del danneggiato, alla conclusione che anche questa può integrare il caso fortuito ed escludere integralmente la responsabilità del custode ai sensi dell’art. 2051 cod. civ., ma solo purché abbia due caratteristiche: sia stata colposa, e non fosse prevedibile da parte del custode.
Può concludersi quindi che l’imprevedibilità – idonea ad esonerare il custode dalla responsabilità – deve essere oggettiva, dal punto di vista probabilistico o della causalità adeguata, senza alcun rilievo dell’assenza o meno di colpa del custode; tuttavia, l’imprevedibilità è comunque di per sé un concetto relativo, necessariamente influenzato dalle condizioni della cosa, di più o meno intrinseca pericolosità in rapporto alle caratteristiche degli eventi in grado di modificare tali condizioni ed alla stessa interazione coi potenziali danneggiati.
L’operazione logica che il giudice deve compiere è allora quella di identificazione del nesso causale, sulla base dei fatti prospettati dalle parti ed acquisiti in causa: ma occorre distinguere a seconda che con la relazione causale tra cosa e danno interferisca una diversa relazione causale tra la condotta umana del danneggiato ed il danno stesso oppur no.
Va sottolineato, al riguardo, che la ricostruzione del nesso causale tra il criterio di imputazione della responsabilità e l’evento dannoso va operata dal giudice anche di ufficio (Corte di Cassazione, 22/03/2011, n. 6529: anche quando il danneggiante o il responsabile si limiti a contestare in toto la propria responsabilità): pertanto, in tema di responsabilità per i danni cagionati da una cosa in custodia ai sensi dell’art. 2051 cod. civ., l’allegazione del fatto del terzo o dello stesso danneggiato, idonea ad integrare l’esimente del caso fortuito, deve essere esaminata e verificata anche d’ufficio dal giudice, attraverso le opportune indagini sull’eventuale incidenza causale del fatto del terzo o del comportamento colposo del danneggiato nella produzione dell’evento dannoso, indipendentemente dalle argomentazioni e richieste formulate dalla parte, purché risultino prospettati gli elementi di fatto sui quali si fonda l’allegazione del fortuito (integrando così una mera difesa la fattispecie di cui al primo comma dell’art. 1227 cod. civ.: per tutte, Corte di Cassazione, 30/09/2014, n. 20619; Corte di Cassazione, Sez. U. 03/06/2013, n. 13902).
Tanto in ipotesi di responsabilità per cose in custodia ex art. 2051 cod. civ., quanto in ipotesi di responsabilità ex art. 2043 cod. civ., il comportamento colposo del danneggiato (che sussiste quando egli abbia usato un bene senza la normale diligenza o con affidamento soggettivo anomalo) può – in base ad un ordine crescente di gravità – o atteggiarsi a concorso causale colposo (valutabile ai sensi dell’art. 1227 cod. civ., comma 1), ovvero escludere il nesso causale tra cosa e danno e, con esso, la responsabilità del custode (integrando gli estremi del caso fortuito rilevante a norma dell’art. 2051 cod. civ.).
In particolare, quanto più la situazione di possibile pericolo è suscettibile di essere prevista e superata attraverso l’adozione delle normali cautele da parte dello stesso danneggiato, tanto più incidente deve considerarsi l’efficienza causale del comportamento imprudente del medesimo nel dinamismo causale del danno, fino a rendere possibile che detto comportamento interrompa il nesso eziologico tra fatto ed evento dannoso (espressamente in tali termini: Corte di Cassazione, 06/05/2015, n. 9009; in precedenza, peraltro, già Corte di Cassazione, n. 10300/2007).
In altri termini si verifica l’imposizione di un dovere di cautela in capo a chi entri in contatto con la cosa risponde anch’essa a criteri di ragionevole probabilità e quindi di causalità adeguata.
Tale dovere di cautela corrisponde già alla previsione codicistica della limitazione del risarcimento in ragione di un concorso del proprio fatto colposo e può ricondursi – se non all’ormai non più in auge principio di auto responsabilità – almeno ad un dovere di solidarietà, imposto dall’art. 2 Cost., di adozione di condotte idonee a limitare entro limiti di ragionevolezza gli aggravi per gli altri in nome della reciprocità degli obblighi derivanti dalla convivenza civile.
A tal proposito occorre ricordare il principio di diritto affermato dalla Corte di Cassazione, con la sentenza del 23/05/2014, n. 11532 secondo cui «la persona che, pur capace di intendere e di volere, si esponga volontariamente ad un rischio grave e percepibile con l’uso dell’ordinaria diligenza, tiene una condotta che costituisce causa esclusiva dei danni eventualmente derivati, e rende irrilevante la condotta di chi, essendo obbligato a segnalare il pericolo, non vi abbia provveduto».
Ne consegue che, quando il comportamento del danneggiato sia apprezzabile come ragionevolmente incauto, lo stabilire se il danno sia stato cagionato dalla cosa o dal comportamento della stessa vittima o se vi sia concorso causale tra i due fattori costituisce valutazione (squisitamente di merito), che va compiuta sul piano del nesso eziologico ma che comunque sottende sempre un bilanciamento fra i detti doveri di precauzione e cautela: e quando manchi l’intrinseca pericolosità della cosa e le esatte condizioni di queste siano percepibili in quanto tale, ove la situazione comunque, ingeneratasi sia superabile mediante l’adozione di un comportamento ordinariamente cauto da parte dello stesso danneggiato, va allora escluso che il danno sia stato cagionato dalla cosa, ridotta al rango di mera occasione dell’evento, e ritenuto integrato il caso fortuito (in termini sostanzialmente analoghi: Corte di Cassazione, 05/12/2013, n. 28616).
Pertanto, ove la condotta del danneggiato assurga, per l’intensità del rapporto con la produzione dell’evento, al rango di causa esclusiva dell’evento e del quale la cosa abbia costituito la mera occasione, viene meno appunto il nesso causale tra la cosa custodita e quest’ultimo e la fattispecie non può più essere sussunta entro il paradigma dell’art. 2051 cod. civ., anche quando la condotta possa essere stata prevista o sia stata comunque prevedibile, ma esclusa come evenienza ragionevole o accettabile secondo un criterio probabilistico di regolarità causale.
In definitiva, la fattispecie della responsabilità per danni da cose in custodia può dirsi regolata dai seguenti principi di diritto:
– l’art. 2051 cod. civ., nel qualificare responsabile chi ha in custodia la cosa per i danni da questa cagionati, individua un criterio di imputazione della responsabilità che prescinde da qualunque connotato di colpa, sicché incombe al danneggiato allegare, dandone la prova, il rapporto causale tra la cosa e l’evento dannoso, indipendentemente dalla pericolosità o meno o dalle caratteristiche intrinseche della prima;
– la deduzione di omissioni, violazioni di obblighi di legge di regole tecniche o di criteri di comune prudenza da parte del custode rileva ai fini della sola fattispecie dell’art. 2043 cod. civ., salvo che la deduzione non sia diretta soltanto a dimostrare lo stato della cosa e la sua capacità di recare danno, a sostenere allegazione e prova del rapporto causale tra quella e l’evento dannoso;
– il caso fortuito, rappresentato da fatto naturale o del terzo, è connotato da imprevedibilità ed inevitabilità, da intendersi però da un punto di vista oggettivo e della regolarità causale (o della causalità adeguata), senza alcuna rilevanza della diligenza o meno del custode; peraltro le modifiche improvvise della struttura della cosa incidono in rapporto alle condizioni di tempo e diventano, col trascorrere del tempo dall’accadimento che le ha causate, nuove intrinseche condizioni della cosa, di cui il custode deve rispondere;
– il caso fortuito, rappresentato dalla condotta del danneggiato, è connotato dall’esclusiva efficienza causale nella produzione dell’evento; a tal fine, la condotta del danneggiato che entri in interazione con la cosa si atteggia diversamente a seconda del grado di incidenza causale sull’evento dannoso, in applicazione – anche ufficiosa – dell’art. 1227 cod. civ., primo comma; e deve essere valutata tenendo anche conto del dovere generale di ragionevole cautela riconducibile al principio di solidarietà espresso dall’art. 2 Cost. Pertanto, quanto più la situazione di possibile danno è suscettibile di essere prevista e superata attraverso l’adozione da parte dello stesso danneggiato delle cautele normalmente attese e prevedibili in rapporto alle circostanze, tanto più incidente deve considerarsi l’efficienza causale del comportamento imprudente del medesimo nel dinamismo causale del danno, fino a rendere possibile che detto comportamento interrompa il nesso eziologico tra fatto ed evento dannoso, quando lo stesso comportamento, benché astrattamente prevedibile, sia da escludere come evenienza ragionevole o accettabile secondo un criterio probabilistico di regolarità causale.
Tali conclusioni vanno applicate alla fattispecie in esame: di un impatto del ciclomotore contro il guardrail – di altezza pienamente rispettosa delle prescrizioni generali in materia – dovuto alla perdita di controllo da parte del conducente, per causa remota a sua volta rimasta ignota; di un impatto tale da lanciare il conducente contro il guardrail e, essendo quegli collocato su di un sellino ad altezza dal suolo particolarmente prossima al limite più alto della protezione, idoneo allora a sbilanciare il primo verso il vuoto al di là della seconda; di un evento occorso in un tratto di viadotto di cui non è stata dimostrata alcuna particolare pericolosità, del resto a presidio di carreggiata con andamento regolare e rettilineo (v. pag. 6 della gravata sentenza).
In tale complessivo contesto, l’applicazione dei criteri più sopra puntualizzati alla fattispecie in esame porta a concludere che la condotta del danneggiato abbia in concreto assunto un ruolo causale esclusivo nella produzione dello stesso evento dannoso, non potendo ritenersi prevedibile, nel senso sopra specificato, la perdita di controllo da parte del conducente del motoveicolo di caratteristiche tali da farlo collidere e scavalcare con la sua persona il limite più alto della protezione.
Pertanto, è impossibile evitare di concludere che è stata proprio la condotta, appunto in quanto inadeguata o sconsiderata e tale da non potere essere attesa anche in relazione alle condizioni dei luoghi come accertate con apprezzamento di fatto incensurabile in questa sede, del danneggiato a porsi quale causa esclusiva del danno da quel medesimo patito, con elisione del nesso causale rilevante dal punto di vista giuridico con la cosa, la quale degrada, per la preponderanza del ruolo di quella condotta, a mera occasione del pur tragico evento dannoso.
Tanto comporta che risponde a diritto la conclusione cui è pervenuta la Corte territoriale, in applicazione del seguente principio di diritto: «è esclusa la responsabilità da cose in custodia in capo all’ente proprietario e gestore della strada, munita di guardrail di altezza a norma di legge, per i danni patiti dal superamento del medesimo da parte del conducente di un veicolo che ne aveva, per causa ignota, perso il controllo, non potendo il custode rispondere dei danni cagionati in via esclusiva da una condotta del danneggiato da qualificarsi oggettivamente non prevedibile come corrispondente alla normale regolarità causale nelle condizioni date dei luoghi».
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