1. Il caso.
Il PM disponeva con decreto che B.G. e D.M. fossero tratti in giudizio per rispondere del delitto di cui agli artt. 113, 590 II comma c.p. perché “in qualità di medici in servizio presso lo stabilimento ospedaliero di C., reparto di ortopedia e traumatologia, per negligenza imprudenza ed imperizia, omettendo adeguate indagini strumentali sulla scorta di erronea diagnosi ed errata scelta terapeutica in ordine all’intervento chirurgico da eseguirsi, ponendo in essere l’intervento chirurgico da eseguirsi, ponendo in essere l’intervento chirurgico programmato con imperizia, cagionavano lesioni personali colpose ad A.M.”.
L’istruttoria dibattimentale, articolatasi nell’acquisizione della denuncia querela della persona offesa e delle relazioni peritali depositate dal consulente tecnico nominato dalla Procura e dal consulente di parte civile, si concludeva con l’escussione del consulente tecnico della difesa che, all’esito della stessa, depositava la propria relazione.
Il Tribunale, nel corso del giudizio e nelle motivazioni della sentenza di primo grado, ripercorreva lo svolgimento del fatto per cui era processo per addivenire ad una soluzione di colpevolezza degli imputati: “concesse le circostanze attenuanti generiche, li condanna alla pena di giorni venti di reclusione ciascuno, oltre al pagamento delle spese processuali per quanto di rispettiva ragione”.
Peculiare snodo della sentenza, invero, è la documentazione medica prodotta dalla parte civile nelle more del processo, che documenta la vicenda ed assiste il giudice nella ricerca di un nesso causale che conduca alla genesi eziologica del reato ascritto in rubrica.
A.M., la parte offesa, veniva tradotto al pronto soccorso del locale nosocomio a causa di un trauma al gomito destro. In quella sede, a seguito di un esame radiografico, veniva riscontrato quanto segue: “lussazione del gomito, frattura del capitello radiale, non si può escludere un’infrazione dell’olecrano ulnare”.
Nei giorni successivi, il paziente veniva ricoverato nel reparto di ortopedia e traumatologia del medesimo ospedale per essere sottoposto ad un intervento chirurgico di “capsulo plastica e stabilizzazione con F.E. Orthofix”.
Esecutori del predetto intervento erano B.G. e D.M., rispettivamente primo e secondo operatore.
A.M., regolarmente dimesso, alcuni mesi dopo veniva sottoposto all’intervento di rimozione del fissatore esterno che avrebbe dovuto rappresentare la conclusione dell’iter sanitario.
Ciononostante, il persistere del dolore lasciava presagire un aggravio delle condizioni, ragione per cui A.M. si sottoponeva spontaneamente ad una ulteriore radiografia che rilevava “esiti mal consolidati di frattura di gomito con perdita dei rapporti articolari e marcate calcificazioni paraarticolare”.
L’iter medico, pertanto, lungi dal concludersi, proseguiva con una risonanza magnetica ed una visita medico-legale che evidenziavano l’urgenza di un nuovo intervento.
A.M. si recava dunque presso altra ASL, ove gli eseguivano un intervento chirurgico riparativo di “Artrolisi e resezione del capitello radiale con impianto di protesi di capitello radiale in pyrocarbon e ricostruzione del compartimento capsulo-legamentoso laterale con 1 Threvo in artromia gomito destro”.
A giudizio del Tribunale, il percorso clinico affrontato – rectius, subìto! – dalla persona offesa risulta senz’altro errato e grossolano.
Il Giudice, infatti, ha ritenuto indubbia la connessione causale tra le complicazioni mediche e la condotta degli imputati perché, sebbene la radiografia eseguita nell’immediatezza dei fatti evidenziasse una frattura del capitello radiale, i medici avevano omesso di approfondire la natura della stessa e non avevano inteso eseguire ulteriori approfondimenti diagnostici, limitandosi alla frettolosa applicazione di un fissatore esterno.
Come si evince dalle motivazioni addotte dal giudice in sentenza, l’imperizia degli imputati è consistita in una condotta bifasica, ovvero articolatasi in più omissioni.
Nella fase iniziale del trattamento sanitario, i medici avevano ignorato la frattura del capitello radiale, anzi escludendola nel corso dell’esplorazione diretta.
Si aggiunga che non si era proceduto nemmeno alla prescrizione di una terapia antibiotica che scongiurasse il pericolo di probabili infezioni.
Peraltro, sebbene al momento del secondo ricovero presso lo stesso ospedale l’operazione chirurgica avesse sortito effetti tutt’altro che positivi, gli imputati liquidavano il paziente rimuovendo il fissatore esterno, dimettendolo senza altre indagini diagnostiche né terapie farmacologiche.
La diagnosi approssimativa, l’inadeguatezza del trattamento, le manovre chirurgiche poco accurate e l’urgenza di intervenire a scopi riparativi per contenere i postumi irreversibili della malattia sono indiscutibili indizi di un operato imperito da parte dei medici.
Pertanto, avvalendosi di un ragionamento ipotetico mirato a verificare la probabilità logica degli accadimenti, il Tribunale riteneva che laddove i sanitari avessero scelto di indagare adeguatamente la frattura del capitello radiale rilevata dalla radiografia, non avrebbero applicato il fissatore esterno senza prima effettuare ulteriori accertamenti, impiegando dunque un modus operandi suscettibile di contenere i predetti esiti deficitari verificatisi ai danni del paziente.
L’inadeguatezza del trattamento sanitario, illustrata in astratto dal Tribunale mediante il ricorso al ragionamento logico controfattuale (Cass.,sent. n. 41158 del 25.08.2015), integra la condotta omissiva dei medici e ne determina il trattamento sanzionatorio.
Volume consigliato:
Responsabilità medica e valutazione del danno
La mancata risoluzione del problema non attribuibile all’operato del medico rappresenta una complicanza che deve essere prospettata al paziente con una corretta informazione e quindiaccettata dal paziente sottoscrivendo il Consenso Informato. Aggiornata alle novità introdotte dalla Riforma Gelli (L. 8 marzo 2017, n. 24), questa nuovissima Opera chiarisce al Professionista legale la metodologia per stabilire se l’inadempimento del medico sia ascrivibile a errore oppure no, in particolare attraverso lo studio della documentazione sanitaria e della cartella clinica. Vengono approfonditi nella prima parte della trattazione, le tematiche relative al consenso, alle conseguenze derivanti dalla mancata obbligazione informativa, ai doveri del medico e all’assicurazione R.C. sanitaria. La seconda parte invece, fornisce un’utile raccolta di casi concreti derivati dall’osservazione clinica e medico-legale, che esemplificano le problematiche più ricorrenti (infezioni, embolia polmonare, lesioni iatrogene nell’endoscopia, alcune tematiche della sfera ostetrico-ginecologica e della chirurgia vascolare ecc.), senza tralasciare i risvolti assicurativi e di valutazione del danno.Fabio M. Donelli, Specialista in Ortopedia e Traumatologia, Medicina Legale e delle Assicurazioni e in Medicina dello Sport. Docente nella scuola di Medicina dello Sport dell’Università di Brescia e docente in Scienze Biomediche all’Università degli Studi di Milano. Già professore a contratto in Traumatologia Forense presso l’Università degli Studi di Bologna e collaboratore per la Traumatologia Forense con il docente dell’insegnamento di Medicina Legale nel corso di laurea di Giurisprudenza presso l’Università di Siena. Coordinatore di studio di Traumatologia Forense per la società italiana di Ortopedia e Traumatologia. Promotore e coordinatore scientifico di corsi in ambito ortogeriatrico, ortopedico-traumatologico e medico-legale.Mario Gabbrielli, Specialista in Medicina Legale, già assistente di ruolo presso la USL 30 Area Senese. Già Professore Associato in Medicina Legale presso l’Università di Roma La Sapienza. Professore ordinario di Medicina Legale presso l’Università di Siena. Direttore della UOC Medicina Legale nell’Azienda Ospedaliera Universitaria Senese. Direttore della Scuola di Specializzazione in Medicina Legale dell’Università di Siena, membro del Comitato Etico dell’Area Vasta Toscana Sud, Membro del Comitato Regionale Valutazione Sinistri della Regione Toscana, autore di 160 pubblicazioni.
Fabio M. Donelli – Mario Gabbrielli | 2017 Maggioli Editore
38.00 € 36.10 €
2. La legge del tempus commissi delicti.
La legge vigente all’epoca dei fatti era la Legge 8 novembre 2012 n.189 di conversione del cosiddetto decreto Balduzzi, la cui disciplina era già ispirata al ridimensionamento dell’area di responsabilità del medico.
Sul piano penalistico, la citata legge aveva parzialmente depenalizzato le fattispecie incriminatrici colpose di cui agli artt. 589 e 590 c.p., escludendone la rilevanza penale laddove la condotta del medico fosse connotata da colpa lieve e fosse altresì rispettosa delle linee guida indicate dalla comunità scientifica.
In tal modo la Legge Balduzzi aveva determinato il passaggio da una prospettiva giuridica dominata – quanto all’illecito in materia sanitaria – dalla teoria della causalità (cfr., a riguardo, ex pluribus, Cass., sez. un., 30328/02, Franzese) ad una valorizzazione della “colpa” quale elemento selettivo della responsabilità sanitaria.
Aveva inteso, inoltre, sottrarre il medico dalla balìa della discrezionalità dei giudici e dalla tensione emotiva dell’evento-morte inquadrandone la condotta in un più oggettivo metro di valutazione (“il concetto di linee guida e buone pratiche mediche”).
Tuttavia, l’intervento legislativo del 2012 aveva posto alcuni problemi di natura ermeneutica.
In particolar modo, l’art. 3 comma 1 della normativa de qua aveva destato non poche perplessità interpretative in ordine alla sua sfera di applicazione, specie allorquando non chiariva se la decriminalizzazione si limitasse all’ambito delle sole condotte connotate da imperizia o se si estendesse anche alle altre “gradazioni” di colpa.
La letteratura, di concerto con la giurisprudenza, aveva interpretato l’operatività del criterio della colpa lieve, di cui al citato art. 3 comma 1, come esteso alla sola imperizia del medico e non anche alla sua imprudenza o alla sua negligenza.
Conseguentemente, la normativa limitante la responsabilità sanitaria non poteva invocarsi qualora la condotta professionale fosse stata caratterizzata da imprudenza o negligenza.
D’altronde, dato che la disciplina del menzionato articolo era applicabile solo nei casi in cui il medico si fosse attenuto alle linee guida,veniva da sé che la predetta norma potesse operare solo in caso di imperizia, in quanto l’aderenza alle linee guida è astrattamente incompatibile con gli altri profili di colpa.
Se ne deduce che, ut supra accennato, il medico imprudente o negligente non avrebbe potuto invocare una pretesa adesione alle linee guida per eludere la propria responsabilità e usufruire di un qualsivoglia spazio di impunità concesso dalla levità della colpa.
Nell’art. 3 comma 1 della legge de qua era chiaro l’intento del Parlamento di limitare la responsabilità dei sanitari attraverso l’esclusione di essa nei casi di colpa lieve. In sede di conversione, peraltro, l’obiettivo del Legislatore di alleggerire la posizione processuale dei medici fu perseguito anche mediante il richiamo alla responsabilità civile di cui all’art. 2043 c.c..
L’atteggiarsi dei profili civilistici introdotti dalla normativa, d’altronde, costituiva un altro profilo controverso della stessa: significativa sul punto la sentenza del 17.07.2014 della sez. I del Tribunale di Milano.
Sulla scorta di svariate opzioni interpretative ed altrettante applicazioni giurisprudenziali, il Tribunale di Milano asseriva che la Legge 189/2012 ispirasse una revisione del “diritto vivente”, il quale attribuiva la responsabilità civile contrattuale – da ricondursi nell’alveo della disciplina dell’art. 1218 c.c. – sia alla struttura sanitaria che al medico.
Alla luce delle argomentazioni proposte in sede di legittimità, il Tribunale di Milano riconosceva lo scopo – peraltro esplicito – della norma in un’esigenza di controllo e contenimento della spesa pubblica mediante la delimitazione dell’area di responsabilità civile in capo ai medici e chiosava asserendo che “il tenore letterale del comma 1 dell’art. 3 della L. n. 189 del 2012 e le esplicite finalità perseguite dal legislatore del 2012 (…) non sembrano legittimare semplicisticamente una interpretazione della norma nel senso che il richiamo all’art. 2043 c.c. sia atecnico o frutto di una svista (…). Nell’art. 3 comma 1 della legge Balduzzi il Parlamento italiano, in sede di conversione del decreto e per perseguire le suddette finalità, ha voluto indubbiamente limitare la responsabilità degli esercenti una professione sanitaria ed alleggerire la loro posizione processuale anche attraverso il richiamo all’art. 2043 – escludendo la responsabilità penale nei casi di colpa lieve”…“sembra dunque corretto interpretare la norma nel senso che il legislatore ha inteso fornire all’interprete una precisa indicazione nel senso che, al di fuori dei casi in cui il paziente sia legato al professionista da un rapporto contrattuale, il criterio attributivo della responsabilità civile al medico (e gli altri esercenti la professione sanitaria) va individuato in quello della responsabilità da fatto illecito ex art. 2043 c.c., con tutto ciò che ne consegue sia in tema di riparto dell’onere della prova, sia di termine di prescrizione quinquennale del diritto al risarcimento del danno”.
Nelle successive applicazioni, la Legge Balduzzi palesava molteplici inconvenienti, mettendo in evidenza le difficoltà del giudice nel definire la portata della colpa lieve per la mancanza di rigorosi criteri selettivi.
Il contesto spinoso che faceva da leitmotiv alla censurabilità penale delle condotte sanitarie e, parallelamente, alla ripercussione delle stesse nella sfera civile rappresentava terreno fertile per un nuovo e – si auspica – risolutivo intervento di riforma.
In breve, la Legge Balduzzi – ad oggi sostituita con la Legge 8 marzo 2017 n.24, operativa dal 1 aprile 2017 – tradiva le aspettative di definizione dell’ampia nozione penalistica di colpa medica, non riuscendo a collocarne l’accertamento in canoni precisi.
Tentava invece di coniugare le esigenze di tutela del paziente con quelle di protezione del patrimonio del medico, intervenendo sul regime della responsabilità extracontrattuale; incontrava, tuttavia, un’accesa resistenza ad opera della giurisprudenza di legittimità, ancora affezionata all’idea di una protezione massima del paziente.
L’orientamento del supremo giudice, infatti, pendeva verso la responsabilità contrattuale sia del medico (“la materia della responsabilità civile segue le sue regole consolidate e non solo per la responsabilità aquiliana del medico, ma anche per la c.d. responsabilità contrattuale del medico e della struttura sanitaria, da contatto sociale” (Cass. 19 febbraio 2013 n. 4030) che della struttura sanitaria, in virtù di un autonomo contratto di spedalità (“la ASL è responsabile ex art 1218 del fatto illecito commesso dal medico generico con essa convenzionato, nell’esecuzione di prestazioni curative che siano comprese tra quelle assicurate e garantite dal servizio sanitario nazionale in base ai livelli stabiliti dalla legge” (Cass. 27.03.2015 n.6243), provocando negli interpreti e nella stessa giurisprudenza dei “pendolarismi mutevoli ed ideologici”.
D’altronde, è la stessa natura di Giano Bifronte del diritto alla salute a far sì che esso, configurandosi ora come diritto soggettivo perfetto ora come interesse legittimo, rifletta sul piano concreto notevoli criticità.
La sentenza in commento si inserisce in questo sfondo normativo e giurisprudenziale e prelude all’entrata in vigore della recente – ed ulteriore – legge di riforma della responsabilità sanitaria (se la pronuncia, infatti, è anteriore all’entrata in vigore della L. 8/3/17 n. 24, la motivazione è stata depositata successivamente).
3. Nuove prospettive alla luce dell’entrata in vigore della Legge 24/2017?
La Legge 8 marzo 2017 n. 24, attualmente vigente, ha avuto l’arduo compito di riformare la disciplina sulla responsabilità medica in modo da “sanare” i punti “caldi” della precedente normativa.
Un’interessante prospettiva di lettura ed interpretazione della L. 24/17 consiste nel qualificarla come “sforzo” legislativo inteso a rimediare alle tante criticità della L. 189/12.
La preoccupazione di preservare un’ottica conservativa per la posizione del singolo medico al fine di contenere la sfera sanitaria e porre riparo al cosiddetto “fenomeno della medicina difensiva” trova un primo significativo riscontra nella – questa volta esplicita (art. 7, comma 3) – riconduzione dell’operatore nel contesto della colpa aquiliana (mentre resta contrattuale la responsabilità per l’azienda sanitaria), “salvo che abbia agito nell’adempimento di obbligazione contrattuale assunta con il paziente”.
Similmente, la necessità di limitare la discrezionalità del giudice nell’individuazione delle best practices accreditate dalla comunità scientifica quale parametro di graduazione della colpa del sanitario, ovvero di perimetrazione della responsabilità di quest’ultimo, giustifica la previsione di un sistema di produzione e pubblicazione presso il sito internet dell’Istituto Superiore di Sanità di linee guida elaborate da enti iscritti in apposito elenco istituito e regolamentato dal Ministero della Salute (art. 5); anche questa norma, tuttavia, in attesa di attuazione, lascia medio tempore impregiudicata la rilevanza delle “buone pratiche clinico-assistenziali”, con il – persistente e conseguente – rischio di “quella anarchia interpretativa e comportamentale che aveva fatto seguito all’emanazione della Legge Balduzzi”[1].
Se, inoltre, la norma del 2012 attribuiva rilevanza alle linee guida esclusivamente come parametro di valutazione della responsabilità sanitaria, l’attuale art. 5 L. 24/2017, nel prevedere che i professionisti si attengano ad esse, attinge in maniera preoccupante la delicatissima tematica della “libertà, indipendenza, autonomia e responsabilità” (art. 14 cod. deont.) del medico nell’esercizio della professione: vincolato ad obiettive linee guida, il medico da un alto viene deresponsabilizzato, dall’altro vede squalificato il suo soggettivo intuito ed esperienza, unico presidio posto a garanzia di questi valori risultando l’eccezione enunciata dal Legislatore secondo cui l’adesione alle linee guida è prevista “salve le specificità del caso concreto”.
Sul versante del diritto penale, al medesimo fine di limitare la responsabilità del sanitario la Legge GELLI – BIANCO ha introdotto nel codice penale l’art. 590 sexies (“Se i fatti di cui agli articoli 589 e 590 sono commessi nell’esercizio della professione sanitaria, si applicano le pene ivi previste salvo quanto disposto dal secondo comma. Qualora l’evento si è verificato a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto. …”).
La tecnica comparativa d’interpretazione di questa disposizione rispetto a quella corrispondente contenuta nella – abrogata sul punto – legge Balduzzi suggerisce e mette in risalto due differenze:
– la Legge 24/2017 “decriminalizza” esclusivamente le condotte mediche determinate da “imperizia”, togliendo ogni dubbio al fatto che non vi siano spazi di impunità per le ipotesi di colpa per imprudenza o negligenza;
– viene meno il riferimento al grado (“lieve”) della colpa, con la conseguenza che anche in presenza di colpa grave potrebbe dubitarsi della responsabilità del sanitario che abbia rispettato le linee guida.
E’ questa, in apparenza, la principale innovazione introdotta dalla legge GELLI-BIANCO rispetto alla disciplina previgente: trattasi, tuttavia, di una differenza letterale le cui applicazioni pratiche sono rese ben modeste dall’obbiettiva considerazione di inconciliabilità fra – da un lato – un grave discostamento da parte del sanitario rispetto alle regole prudenziali e – d’altro lato – il rispetto delle linee guida validate dall’Istituto Superiore di Sanità; in una delle prime applicazione della riforma, d’altronde, la stessa Corte di Cassazione ha stigmatizzato le sue evidenti “incongruenze interne tanto da mettere in forse la stessa razionale praticabilità della riforma in ambito applicativo”, specie laddove da una parte esclude la punibilità in caso di rispetto delle linee guida e dall’altra ne delimita l’applicazione ai casi di imperizia, escludendo il valore esimente che il nuovo articolo 590 sexies c.p. attribuisce al rispetto delle linee guida allorché nella specie si tratti di una osservanza del tutto astratta e non aderente alle caratteristiche del caso concreto[2].
L’assetto dei rapporti fra le due normative oggetto di comparazione, in sostanza, piuttosto che mettere in risalto una frattura di politica criminale, evidenzia un continuum normativo ed ideologico: altro (quello della responsabilità civile) è il terreno di maggiore portata della legge 24/2017!
Bianca Amelia NOCCO
Francesco Paolo GARZONE
Foro di Taranto
[1] S. DEL SORDO – U. GENOVESE, “Linee guida” o “buona pratica” ancora più vincolanti, in Guida Dir., 2017, 15, 48.
[2] Cass., sez. IV, 7.6.2017, n. 28187,
Scrivi un commento
Accedi per poter inserire un commento