Con l’emanazione del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276 “Attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro, di cui alla legge 14 febbraio 2003, n. 30” è stata definitivamente approvata la c.d. Riforma Biagi, entrata in vigore il 24 ottobre 2003.
Per fare un primo sommario bilancio, sulla carta, delle riforme introdotte dalla nuova normativa ma anche per focalizzare i problemi a cui risponde o a cui non risponde è opportuno fare alcune premesse di carattere generale che delineano il quadro di riferimento.
Breve excursus storico e contesto socio economico. Le ragioni della riforma
Durante gli anni ’60 e ’70 nel nostro ordinamento del lavoro si era andata affermando, anche a seguito delle pressioni delle forze sindacali [ricorderemo la tendenza all’unità sindacale delle Confederazioni, la sancita unità delle Federazioni metalmeccaniche Fim-Fiom-Uilm, la c.d. Triplice, l’unità d’azione], un modello di “garantismo forte” per il lavoratore che si concretava nella prevalenza pressoché totale, nelle assunzioni, del tipo di lavoro subordinato a tempo indeterminato, nell’elaborazione più compiuta del principio del “favor” del lavoratore medesimo, nella introduzione di forti vincoli alla stipulazione del contratto a tempo determinato (legge n. 230/1962), nel rigido divieto d’intermediazione nell’impiego della mano d’opera (legge n. 1369/1960), la forte limitazione del licenziamento con l’approvazione della legge sulla giusta causa e sul giustificato motivo (legge n. 604/1966), l’introduzione dello Statuto dei lavoratori (legge n. 300/1970).
Di contro, nella prospettiva delle aziende e dei datori di lavoro in genere, il quadro sopra delineato si trasformava in pesanti vincoli nella gestione della forza lavoro e in una crescita del costo del lavoro assai elevata (fino a raggiungere il 43% della retribuzione netta erogata al dipendente).
Alla fine degli anni ’70, dopo la svolta dell’Eur, e soprattutto nel corso degli anni ’80 e primi anni ’90 anche a seguito della crisi industriale (si ricordino i licenziamenti della Fiat e la marcia dei quarantamila) vengono, da un lato introdotte nelle aziende nuove forme di produzione, attraverso l’utilizzo di automazioni (robotizzazione del lavoro, trasferte elettroniche e la c.d. fabbrica integrata, realizzata a Melfi, ecc.), e informatizzazione del lavoro sia nella fabbrica che negli uffici [così il Libro bianco, vedasi infra: «mentre gli sviluppi tecnologici hanno consentito alle imprese di introdurre modalità nuove e più flessibili nell’organizzazione dei processi produttivi»], e si comincia, dall’altro lato, ad attenuare la rigidità del sistema con l’allargamento ad esempio della possibilità di stipulare contratti a tempo determinato, l’introduzione della legge sul part-time, la prima riforma pensionistica (c.d. riforma Amato-Dini). Nel contempo si diffondono sempre più i c.d. contratti di lavoro atipici, prime, fra tutti, le c.d. collaborazioni coordinate e continuative (co.co.co.), che pur trovando riferimento in uno scarno apparato normativo, nella pratica, sul fondamento in particolare del principio civilistico dell’autonomia contrattuale previsto dall’articolo 1322 c.c., si andavano sempre più affermando come utile strumento per l’utilizzo flessibile del personale. Tali contratti venivano ricondotti a prestazioni di lavoro autonomo, coordinate con l’attività dell’azienda committente, consentendo discrezionalità d’uso, nell’oggetto e nella durata, da parte del datore di lavoro della forza lavoro, libera risolubilità del rapporto, nessun obbligo contributivo, fino all’introduzione di un contributo contenuto da versarsi nella Gestione separata dell’Inps, nessuna o quasi nessuna tutela per il lavoratore nel contratto (salvo alcuni interventi della magistratura che introducevano per via di sentenze istituti garantistici limitati, primo tra tutti il riconoscimento di una sorta di indennità di anzianità o premio di fine lavoro).
L’ulteriore crisi degli anni ’90 non fece che accelerare: a) l’utilizzo di un sempre maggior numero di contratti di collaborazione coordinata e continuativa (la c.d. “fuga dal lavoro subordinato”), attraverso i quali venivano svolti lavori connessi all’attività del datore di lavoro/committente e, spesso, in precedenza svolti da lavoratori subordinati e all’interno dell’azienda o b) addirittura il ricorso al “lavoro nero”.
Tale fenomeno era parte del più generale fenomeno dell’”outsourcing” o decentramento o esternalizzazione, per cui, tutto ciò che non rientrasse nel core business dell’impresa poteva venire svolto all’esterno attraverso vari meccanismi, a volte concorrenti, alcuni dei quali di natura collettiva [quali l’appalto, il lavoro su licenza, il trasferimento di ramo d’azienda], altri a carattere individuale [quali appunto le collaborazioni coordinate e continuative, il lavoro interinale – introdotto nel nostro ordinamento con la legge n. 196/1997 – il distacco, il telelavoro, consentito in particolar modo dallo sviluppo dei personal computer].
Si veniva, frattanto, soprattutto su impulso della Corte di Giustizia della Comunità Europea, liberalizzando l’ormai sclerotizzato sistema del collocamento pubblico dei lavoratori, introducendo nuovi soggetti, anche privati, e comunque modernizzando le strutture con una prima riforma (decreto legislativo n. 469/1997).
La riforma attesa
Da più parti si richiedeva, a questo punto, per motivi spesso diversi se non contrastanti, ma a volte anche convergenti, una razionalizzazione del sistema, un riordino del mercato del lavoro che tenesse conto dei vari “interessi in gioco”, quelli dei datori di lavoro, quelli dei lavoratori, quelli del sistema economico in generale.
Gli obiettivi che si proponevano i datori di lavoro erano quelli di una maggiore flessibilizzazione e liberalizzazione del rapporto di lavoro, un minor costo del lavoro; gli obiettivi che si proponevano i lavoratori erano quelli opposti di minor precarizzazione e maggiore stabilità del posto di lavoro e più diritti e tutele; gli obiettivi condivisi dalle parti sociali e dal Governo erano quelli della maggior competitività del sistema delle nostre imprese e la creazione di maggior occupazione.
In estrema sintesi c’era chi voleva mantenere la flessibilizzazione già attuata e anzi accrescerla e c’era chi voleva e proponeva disegni di legge mirati ad introdurre più tutele per i lavoratori nei contratti atipici e c’era infine chi proponeva, accanto alle forme di lavoro subordinato e di lavoro autonomo, di creare ex novo un tertium genus il c.d. lavoro coordinato che doveva distinguersi per un più attenuato legame coll’azienda datrice di lavoro rispetto al lavoro subordinato ma con un maggior legame con l’azienda committente rispetto al lavoro autonomo, e quindi tutele sì ma attenuate e modulate e oneri contributivi più leggeri e un percorso previdenziale proprio.
La scelta della Riforma Biagi e le sue ripercussioni
Anche sulla base delle linee direttrici contenute nel c.d. Libro bianco sul mercato del lavoro in Italia – Proposte per una società attiva e per un lavoro di qualità (Ministero del lavoro e delle politiche sociali, Roma, ottobre 2001), la riforma del mercato del lavoro ha operato su più piani: 1) da un lato, sul piano che riguardava l’organizzazione e disciplina del mercato del lavoro e 2) dall’altro lato, con l’introduzione di nuove forme di lavoro e modifiche ai rapporti di lavoro già esistenti1.
Ricordiamo in estrema sintesi, i punti salienti della riforma.
1) Sul primo punto: ferme restando le competenze pubbliche in materia di regolazione e organizzazione del mercato del lavoro, la costituzione di un albo nazionale delle agenzie per il lavoro finalizzate allo svolgimento delle attività di somministrazione, intermediazione, ricerca e selezione del personale, supporto alla ricollocazione professionale; istituzione di elenchi regionali per l’accreditamento degli operatori pubblici e privati che operano nel territorio della regione interessata; la costituzione di una borsa continua nazionale del lavoro, quale sistema aperto e trasparente di incontro tra domanda e offerta di lavoro basato su una rete di nodi regionali.
2) Sul secondo punto: l’introduzione di nuove tipologie di lavoro, o totalmente nuove per il nostro sistema o in sostituzione e modifica di forme già esistenti e già operative nel nostro sistema.
• La Somministrazione di lavoro, che sostituisce il lavoro interinale di cui al c.d. pacchetto Treu, con importanti modifiche: in particolare la possibilità di contratti di somministrazione del lavoro a tempo indeterminato per determinati servizi (per “ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo”), che consente l’esternalizzazione di intere funzioni aziendali (come del resto avviene nel resto del mondo, in particolare nei Paesi anglosassoni che hanno esportato intere branche della loro attività in Paesi dell’Oriente – ad esempio i call center dell’India).
• Migliore definizione dell’appalto e del distacco.
• Lavoro a progetto in sostituzione o meglio, come puntualizzato anche dalla circolare del Ministero del lavoro e delle politiche sociali n. 1/2004, introducendo, più limitatamente, una nuova modalità di svolgimento delle “vecchie” collaborazioni coordinate e continuative. La scelta del legislatore riformatore è stata quella di percorrere “una sorta di terza via” (vedasi TIRABOSCHI, La riforma Biagi, Commentario allo schema di decreto attuativo della legge delega sul mercato del lavoro. Aa.Vv, Supplemento di Guida al lavoro, 4, 2003).
• Contratti di inserimento e reinserimento in sostituzione e modifica dei vecchi Contratti di formazione e lavoro.
• Nuove forme di apprendistato.
• Modifiche al lavoro a tempo parziale
• Alcuni contratti nuovi, quali: il lavoro intermittente (lavoro a chiamata, job on call) con ipotesi di lavoro oggettive o soggettive e il c.d. lavoro ripartito o job sharing (già presente nella prassi, nella circolare ministeriale, nella giurisprudenza della Corte di Giustizia comunitaria), mutuati da ordinamenti stranieri, lavoro occasionale di tipo accessorio reso da particolari soggetti.
Importante anche l’introduzione di un nuovo strumento di Certificazione dei contratti di lavoro [per il momento in via provvisoria e sperimentale solo per alcuni dei predetti tipi di lavoro] con il dichiarato intento di contenere il contenzioso in materia di rapporti di lavoro.
Le reazioni alla riforma del mercato del lavoro
L’introduzione delle nuove normative ha determinato reazioni contrastanti sia sotto il profilo della tecnica giuridica e legislativa usata che sotto il profilo sostanziale.
Le ritroviamo puntualmente e diligentemente riportate ne “La riforma Biagi” cit. (dove si parla addirittura di «una sorta di guerra di religione tra sostenitori e… una variegata schiera di oppositori»):
• «non è mancato anche chi (Treu) ha cercato di minimizzare il senso e la portata della riforma, adottando un atteggiamento che potremmo definire “minimalista”»;
• «chi (Ichino)… ha parlato di nuove rigidità che ben si collocano sulla linea delle proposte da tempo avanzate dalla Cgil»;
• «quanti (Carinci e Fili) hanno già abbondantemente criticato il testo della legge 14 febbraio 2003, n. 30 per l’insipienza del legislatore e per una diffusa sciatteria normativa»;
• «chi (Boeri su La Stampa) oggi parla di “44 forme di flessibilità” (e ancora di più con la certificazione dei contratti) dopo questa riforma»;
• «siamo dunque in presenza di una riforma che presenta ancora zone d’ombra» (lo stesso Tiraboschi);
• «la proliferazione di tipologie contrattuali non sembra certo muoversi in questa direzione [della razionalizzazione complessiva del mercato del lavoro]» e poi, per così dire, ricupera considerando che «la diversificazione delle tipologie contrattuali può essere una prima fase volta alla regolarizzazione, strutturazione ed emersione [del lavoro sommerso]» (sempre Tiraboschi);
• con riguardo alle sole collaborazioni coordinate e continuative: «il legislatore delegato assume una posizione sfumata e, a volte, ambigua. probabilmente appagante sul piano della mediazione politica e sindacale, ma disorientante per chi è chiamato ad applicare le nuove disposizioni» (Maresca, in Riforma Biagi, Le nuove collaborazioni, in Aa.Vv, Supplemento a Guida al lavoro, 1, 2004).
Conclusioni
Anche da parte nostra qualche perplessità sulla riforma va espressa2.
In linea generale nutriamo qualche dubbio sulla possibilità di potere raggiungere gli importanti obiettivi sopra elencati. In particolare riteniamo che non si possano creare posti di lavoro “per legge”. I posti di lavoro nascono dalla capacità delle imprese di produrre in modo competitivo (con costi contenuti) prodotti di qualità per il mercato. A tal fine l’unica via realistica e percorribile parrebbe quella di accrescere la capacità di ricerca e di innovazione delle aziende.
Nel dettaglio dei singoli istituti, riteniamo che:
• Il lavoro a progetto inteso (ex articolo 61 decreto legislativo n. 276/2003) come rapporto di collaborazione coordinata e continuativa… [riconducibile] a «uno o più progetti specifici o programmi di lavoro o fasi di esso determinati dal committente» è difficilmente definibile e delimitabile. Infatti qualunque attività lavorativa può configurarsi come parte di un progetto o programma di lavoro o fase di esso, purché abbia una sua logica interna e rappresenti una sequenza di atti unificati da una loro finalità o scopo.
• La somministrazione del lavoro (intesa – ex articolo 2 decreto legislativo n. 276/2003 – come «fornitura professionale di manodopera a tempo indeterminato (“c.d. staff leasing”) o a termine» non farebbe che spostare i lavoratori, addetti alle attività previste dalla legge, dall’organico dell’impresa utilizzatrice, come era per il passato, alle dipendenze formali dell’impresa fornitrice, operando una operazione a somma zero. Si avrà, inoltre, per tal modo, una doppia dipendenza, che certamente comporterà alcune difficoltà gestionali (si pensi al cambio di mansioni – da comunicarsi immediatamente dall’utilizzatore al somministratore – e all’esercizio del potere disciplinare riservato al somministratore per fatti che si sono svolti nella sfera controllata dall’utilizzatore.
• Il lavoro ripartito e il lavoro intermittente sono istituti importati da realtà economiche e sociali diverse dalle nostre, estranee alle nostre tradizioni e che, anch’esse, comporteranno non poche difficoltà gestionali. Comunque, rappresentano realtà marginali, che poco incideranno sui livelli occupazionali.
È comunque da apprezzare lo sforzo e il coraggio del legislatore che ha affrontato concretamente problemi che da anni erano oggetto di sterili dibattiti tra dottrinari e accademici3.
Al di la di ogni perplessità saranno, ovviamente, i numeri a dirci se la riforma introdotta è quella che ci voleva per il nostro paese nell’attuale fase del ciclo economico.
Note
1. La riforma non affronta, o affronta in modo solo parziale, il tema delle tutele dei lavoratori atipici. Sulle tutele vedasi il Libro Bianco del Ministero del lavoro e delle politiche sociali: «Individuato, dunque, un nucleo essenziale di norme e di principi inderogabili (soprattutto di specificazione del dettato costituzionale), comuni a tutti i rapporti negoziali aventi ad oggetto esecuzione di attività lavorativa in qualunque forma prestata, occorrerà procedere a una rimodulazione delle tutele caratteristiche del lavoro dipendente. Al di sopra di questo nucleo minimo di norme inderogabili, sembra opportuno lasciare ampio spazio all’autonomia collettiva e individuale, ipotizzando una gamma di diritti inderogabili relativi, disponibili a livello collettivo o anche individuale (a seconda del tipo di diritto in questione)».
2. Che la riforma ponga non pochi problemi lo si comprende dalle osservazioni degli studiosi che l’hanno commentata in varie sedi e pubblicazioni. Tra tutti richiamiamo Tiziano Treu – peraltro Autore della importante riforma approvata con legge 24 giugno 1997, n. 196, “Norme in materia di promozione dell’occupazione” – in
T. TREU, Dalla collaborazione coordinata al lavoro a progetto, editoriale di Contratti & Contrattazione collettiva di Guida al lavoro, 12, 2003. «Il fatto che la mancata individuazione di uno specifico progetto comporti l’automatica trasformazione del contratto in lavoro subordinato a tempo indeterminato desta forti perplessità, in quanto la sanzione prescinde dalla natura stessa del rapporto. Potrà così accadere che rapporti di collaborazione “genuina”, nei quali cioè non sussiste l’elemento della subordinazione, si trasformino, per la sola mancanza di un progetto, in rapporto di lavoro subordinato; le stesse perplessità suscita il divieto di rapporti di collaborazione a tempo indeterminato. Questi due elementi, il progetto e la durata, non sono corollari necessari dell’assenza di subordinazione».e aggiunge: «al momento non è facile prevedere quali saranno gli esiti applicativi della nuova disciplina, che dipenderanno anche dalla lettura che sarà offerta dalla giurisprudenza della nozione di progetto». Quest’ultima affermazione ci ricorda che una teoria in auge a fine del XIX Secolo, c.d. teoria ermeneutica “oggettiva”, sosteneva che, vedasi KARL LARENZ, Storia del metodo nella scienza giuridica, ed. Giuffrè, Milano, 1966, 40: «la legge, una volta emanata. .può assumere per gli altri un significato al quale il suo autore non aveva pensato…[e] dichiara inoltre che il significato giuridicamente determinante non è quello pensato dall’autore, ma il significato “oggettivo”, immanente alla legge, che deve essere scoperto indipendentemente da quello… Si deduce quindi che non si tratta di vedere che cosa vuole l’autore della legge bensì che cosa vuole la legge ;quale meta dell’interpretazione non si deve indicare la volontà del legislatore ma la volontà del diritto che ha trovato la sua espressione in una massima giuridica come in un elemento dell’intero sistema giuridico».
3. Così si esprimeva B. CROCE, Storia d’Italia dal 1871 al 1915, ed. Laterza & Figli, Bari, 1964, 148, così scriveva: «L’università è di sua natura tradizionalistica e conservatrice, adatta a trasmettere notizie e metodi e costumanze, e a preparare professionisti e pratici. Non può dunque aspettarsi da essa né il nuovo pensiero, che è opera della personalità geniale, anche quando, come la lingua italiana acutamente dice “faccia” (e non già “sia”) l’insegnante e il professore; e neppure la manifestazione dei bisogni e degli stimoli al nuovo pensiero, che vengono non dalla sua chiusa cerchia, ma dall’intera vita sociale ,e spesso dai punti più lontani o ripugnanti a quella cerchia».
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