La sentenza della Cassazione, Sezione Unite Penali, 8 giugno 2012 n. 22225: un cavallo di Troia senza soldati

Qualche giorno fa, imbattendomi in alcune sentenze recenti, è avvenuto che una di queste, proveniente dalla Corte di Cassazione Penale a Sezioni Unite, dopo avermi lasciato eufemisticamente alquanto interdetto, mi ha costretto moralmente ad intervenire.

Dando per scontato che l’abbiate già letta per esteso, comunque per riassumere, questa tratta della valenza giuridica della condotta di colui il quale, consumatore finale, acquista un bene frutto del delitto di contraffazione.

Il caso di partenza era legato ad un soggetto che aveva ordinato, presso un sito straniero, un orologio con marchio Rolex di provenienza cinese, che non giungeva al destinatario in quanto intercettato assieme ad altre merci alla dogana.

Sempre in riassunto, la Suprema Corte a Sezioni Unite, ha stabilito che tale condotta configurasse, in ragione della qualità dell’imputato, di essere consumatore finale del bene contraffatto,

non una tentata ricettazione, bensì solamente un illecito amministrativo, ossia la violazione dell’art. 1 comma settimo del decreto legge 35 del 1995, così come modificato dall’art. 17 della legge 99 del 23 luglio 2009,

questo in quanto ha ritenuto tale norma speciale, non soltanto rispetto all’incauto acquisto (art. 712 c.p.), bensì anche in relazione alla ricettazione.

La Corte circa l’acquisto da parte del consumatore finale afferma,

1) “che non é ragionevolmente ipotizzabile che l’acquirente finale di un prodotto con segni falsi – si pensi al frequente caso dell’acquisto da venditori ambulanti – non sia consapevole che l’oggetto acquistato rappresenta il provento della violazione dell’art. 474 cod. pen.”;

2) che tale acquisto avviene a fronte di motivi che “inducono a ritenere” l’oggetto quale frutto di contraffazione mentre,

nella più grave contravvenzione di incauto acquisto, l’elemento soggettivo essendo invece legato all’“avere motivi di sospetto”, alla Corte parrebbe fattispecie meno grave di quella di cui all’illecito amministrativo, infatti sostiene che l’illecito amministrativo è idoneo ad «abbracciare sia le situazioni di mero sospetto che quelle di piena consapevolezza della provenienza del bene oggetto di transazione commerciale»(!);

3) che, parole Sue, “deve trovare sempre applicazione la sanzione amministrativa pecuniaria, dovendosi l’illecito amministrativo considerare speciale non soltanto rispetto all’incauto acquisto, bensì anche in relazione alla ricettazione. Tale soluzione poggia…in secondo luogo, sull’esigenza di evitare che la norma sull’illecito amministrativo resti relegata a meri casi di scuola”;

4) che la soluzione interpretativa che attribuisce carattere di specialità all’illecito amministrativo in esame, si fonda sulla progressione modificativa del testo originario della norma dell’art. 1, comma 7, legge n. 35 del 2005, che trova la sua sistemazione finale con la legge n. 99 del 2009, entrata in vigore il 15 agosto 2009.

Suggestivo, ma nulla più.

Partendo dall’esame dell’ultimo punto, diremo da subito che l’utilizzo di tale metodologia è all’evidenza censurabile, in quanto per risolvere il problema giuridico fondamentale, la Corte ha fatto ricorso all’utilizzo di un criterio del tutto residuale, la presunta volontà del legislatore, andando a scomodare il dettato del defunto articolo 1, comma 7 del d.l. 14 marzo 2005, per interpretare quello che è un nuovo articolo, ciò senza aver fatto ricorso, come poteva e come avrebbe dovuto, ad altri criteri interpretativi.

E’ evidente la gravità della circostanza che i Supremi Giudici non abbiano immediatamente pensato ad una approfondita lettura sistematica della norma, ove il sistema è chiaramente formato dagli artt. 648 c.p., 712 c.p., nonché 1, comma 7, del d.l. 35, nella formulazione del 2009.

Proviamo quindi a seguire tale via per vedere a quali conclusioni viene a portare.

Si noterà come andiamo a porre ad esame tre fattispecie che hanno un legame indissolubile tra di loro, ossia l’elemento oggettivo il quale nel delitto, nella contravvenzione e nell’illecito amministrativo è sempre il medesimo cioè, nel caso in esame, l’acquisizione dell’oggetto frutto del delitto di cui all’art. 474 c.p., ma cosa distingue tali fattispecie?

Senza dubbio l’elemento soggettivo, infatti a fronte dell’acquisto di materiale delittuosamente contraffatto (che comporta comunque una risposta da parte del sistema sanzionatorio nei confronti del colpevole), le tre fattispecie che normano tale medesimo fatto costituente reato, operano a fronte di un diverso elemento psicologico che va dal dolo intenzionale alla colpa semplice.

Quindi, secondo lo scrivente, la medesima condotta, qualora venga attuata con dolo sostanzia il delitto di ricettazione,

se attuata con colpa grave l’incauto acquisto (mai titolo fu peggiore!),

se con colpa semplice, un illecito amministrativo.

Di diverso avviso la Corte secondo la quale, come sopra visto al punto due, ritiene l’elemento soggettivo dell’illecito, più grave e più ampio di quello di cui all’art. 712 c.p. e questo lo fa quando appunto afferma che l’illecito amministrativo è idoneo ad abbracciare sia le situazioni di mero sospetto (art.712 c.p.) che quelle di piena consapevolezza (l’induzione a ritenere di cui all’art.1, comma 7, anche se della parola consapevolezza non vi è traccia nella norma) della provenienza del bene oggetto di transazione commerciale: si vedrà poi con chiarezza assoluta come tale assunto e gli altri in elenco, non siano assolutamente accettabili.

La lettura alternativa, ad opinione dello scrivente ben più convincente, ravvede invece come la colpa (perché il dolo si ha nella ricettazione) debba ravvedersi più grave lì come decritta nell’art. 712 c.p., in quanto i motivi che farebbero sospettare il bene quale frutto di delitto, non sono un mero sospetto, ma sono motivi di sospetto di tale gravità da implicare la doverosità dell’accertamento della legittimità della provenienza, per cui un tale elemento soggettivo è chiaramente la descrizione di una colpa grave;

tutto questo a differenza dell’illecito amministrativo in esame, nel quale i motivi che inducono a ritenere il bene contraffatto, non sono così gravi da rendere doveroso l’accertamento, per cui vi si descrive una colpa semplice.

Non sussiste quindi, come desunto erroneamente dal giudicante, alcuna volontà legislativa compatibile con l’esclusione dell’applicazione di sanzioni penali ai danni dell’acquirente finale di beni con marchi contraffatti e, l’ illecito amministrativo, non è per nulla idoneo ad «abbracciare sia le situazioni di mero sospetto che quelle di piena consapevolezza della provenienza del bene oggetto di transazione commerciale».

Ora spiego il perché del sottotitolo: se questa sentenza venisse accettata quale corretta interpretazione della legge, l’articolo 1, comma 7, si rivelerebbe un cavallo di Troia nel sistema, nato per succhiare potere sanzionatorio dagli articoli 648 e 712 c.p., in una logica contraria all’estirpazione del delitto di contraffazione, delitto che si regge sulla domanda ovvero sui consumatori finali.

Per fortuna, rivelandosi il ragionamento logico-giuridico, che é il contenuto del cavallo, privo di capacità offensiva per la sua natura fallace, i soldati non vi sono ed il grande cavallo, potrà venire neutralizzato.

Ecco quindi la prova circa la validità della soluzione offerta, ossia che la norma amministrativa si occupa dei casi di ricettazione di bene contraffatto con colpa non grave,

essa, finale ed incontrovertibile, reside nello stesso articolo pietra dello scandalo, così come modificato dall’art. 17 della legge 99 del 23 luglio 2009, al suo odierno secondo periodo, che è di rilevanza dirimente.

Ebbene si, esiste un secondo periodo che forse qualcuno non deve avere ben notato ed eccone il testo con, tra parentesi, le parti che devono essere trasportate dal primo, quello di cui si è parlato fino ad ora:

“Salvo che il fatto costituisca reato, qualora l’acquisto (a qualsiasi titolo cose che, per la loro qualità o per la condizione di chi le offre o per l’entità del prezzo, inducano a ritenere che siano state violate le norme in materia di origine e provenienza dei prodotti ed in materia di proprietà industriale) sia effettuato da un operatore commerciale o importatore o da qualunque altro soggetto diverso dall’acquirente finale, la sanzione amministrativa pecuniaria é stabilita da un minimo di 20.000 euro fino ad un milione di euro. Le sanzioni sono applicate ai sensi della legge 24 novembre 1981, n. 689, e successive modificazioni…”.

Ora se applichiamo a questo dettato normativo, perché é collegato ed ha la stessa stesura e quindi esegesi della norma riguardante il consumatore finale, il principio stabilito dalla Corte per il consumatore finale di cui al primo periodo (ossia l’esclusione dell’applicazione di sanzioni penali ai danni dell’acquirente finale di beni con marchi contraffatti, essendo l’illecito amministrativo idoneo ad «abbracciare sia le situazioni di mero sospetto che quelle di piena consapevolezza della provenienza del bene oggetto di transazione commerciale):

otteniamo che,

come non è sanzionabile penalmente colui il quale, consumatore finale, è pienamente consapevole della provenienza delittuosa del bene, così non lo può essere l’operatore commerciale, l’importatore ed altro, aventi il medesimo elemento soggettivo.

Il risultato sarebbe chiaramente inaccettabile in quanto:

1) innanzi tutto tale lettura sarebbe del tutto incompatibile con il dettato dell’art. 474 c.p. e

2) si verrebbe a negare l’esistenza stessa della ricettazione di bene contraffatto, venendo in materia di contraffazione ad essere punibile il solo produttore, mentre coloro che da costui acquisterebbero non sarebbero penalmente sanzionabili (!).

 

Utilizzando una diversa angolazione, farò un ulteriore ragionamento: quale è l’esegesi del secondo periodo della norma?

Questo dice che, qualora l’acquirente di un bene contraffatto sia, o un importatore (utilizzo un ordine diverso in base alla prossimità al produttore)

od un grossista (qualunque altro soggetto commerciale)

od un negoziante (operatore commerciale), comunque un soggetto diverso dall’acquirente finale,

salvo che il fatto non costituisca il delitto di cui ricettazione (dolo)

od il reato di incauto acquisto (colpa grave) allora,

se per la qualità dei beni o la condizione di chi glieli offriva o per l’entità del prezzo, il soggetto avrebbe dovuto essere indotto a ritenere che fosse stato violato l’articolo 474 c.p. (colpa), la sua condotta sarà comunque assoggettata ad una sanzione pecuniaria, di carattere amministrativo, non penale, dai 20.000 euro al milione; è sottinteso che se nel soggetto non sarà addebitabile neppure questa colpa od una minore, allora non sarà soddisfatto l’elemento soggettivo minimo per la punibilità.

Tanto stabilito, come ci si deve comportare con il primo periodo che, parte dello stesso articolo e comma, non potrà avere un’esegesi incompatibile con il restante dettato normativo?

Risulta evidente come l’unica strada logica da seguire sia quella che si può ottenere invertendo i periodi per comodità per cui,

nel caso in cui a fare acquisto di un bene contraffatto sia, invece, il consumatore finale (cioè colui che vuole farne uso personale), che di fronte alle modalità di offerta del bene, avrebbe dovuto essere indotto a ritenerlo una contraffazione,

tale condotta verrà sanzionata, per la sua colpa meno grave di quella richiesta dall’incauto acquisto,

con una sanzione pecuniaria, non elevata come per i soggetti precedenti, ma comunque di non indifferente rilievo, ossia la cifra dai 100 ai 7000 euro.

Qualora qualcuno non fosse ancora persuaso e volesse, pravamente, ancora credere che l’art. 1 comma 7, primo periodo, per esempio a causa dell’assenza dell’inciso “salvo che il fatto non costituisca reato”, significhi che qualunque sia l’elemento soggettivo del consumatore finale che acquista il bene contraffatto, costui sarà punibile sempre e solo con la sanzione pecuniaria,

allora dovrà convincentemente spiegare quale sarebbe, in tale ottica, il senso della dizione “inducano a ritenere che siano state violate le norme in materia di origine e provenienza dei prodotti ed in materia di proprietà industriale”:

se veramente il primo periodo dell’articolo 1, operando come norma speciale (e non parte di un’articolata norma di legge), fosse stato destinato a normare in tutto e per tutto la figura del consumatore finale, dopo aver “espropriato” di essa, sia il delitto di ricettazione che il reato di incauto acquisto, il dettato di tale norma,

1) sarebbe in tal senso inequivoco e non abbisognerebbe di esegesi alcuna e

2) la locuzione riguardante l’induzione a ritenere non sarebbe presente.

Per essere del tutto chiaro, la norma per essere in linea coi dettami delle Sezioni Unite, dovrebbe apparire in tali termini: “7. E’ punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da 100 euro fino a 7.000 euro l’acquirente finale di cose che siano in violazione delle norme in materia di origine e provenienza dei prodotti ed in materia di proprietà industriale. In ogni caso si procede alla confisca amministrativa delle cose di cui al presente comma.”, ma non solo così non è, ma allo stato dell’arte della lingua italiana, indurre a ritenere non equivale ad avere la completa certezza, la piena consapevolezza, che non si capisce dove spunti dal primo periodo.

Per completezza ci occuperemo anche dell’ “esigenza di evitare che la norma sull’illecito amministrativo resti relegata a meri casi di scuola”, assunto censurabile sia per il fatto che non è dato comprendere

A) il motivo per cui la Corte ravveda questa “esigenza” di riempire di potere una norma amministrativa, tra l’altro svuotando altre norme, sia

B) come si possa ritenere che altrimenti la norma non verrebbe di fatto mai ad operare, se non in casi di scuola, casi che non vengono esposti.

Caso di colpa non grave, di esperienza comune per chi frequenta mercati rionali, può essere, per esempio, quello dell’anziana signora di campagna la quale, venuta in città, compra al mercatino non ben controllato dalle forze dell’ordine o per la strada, la borsetta contraffatta (magari perché vista portare da una conoscente).

Per quanto ne possa pensare la Corte, non tutta la popolazione italiana è ferrata in materia di marchi, prodotti di lusso e proprietà intellettuale ed industriale, per cui la norma non è stata creata per casi di scuola ma per casi reali verificabili.

La sentenza esaminata, quindi, a mio avviso, si risolve in un incidente di percorso a cui una futura pronuncia della Cassazione a Sezioni Unite o della Corte Costituzionale, potrà porre rimedio.

Tanto dimostrato, non essendo necessarie ulteriori ma possibili sottolineature, ringrazio per l’attenzione concessami.

Dott. Molinari Massimiliano

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