- Lo scopo della riforma Cartabia
- La funzione dell’udienza preliminare
- L’attuale giurisprudenza in tema di sentenza di non luogo a procedere
- Le nuove prospettive della “Riforma Cartabia” e la “ragionevole previsione di condanna”
- Le conseguenze sistematiche della ragionevole previsione di condanna
1. La “Riforma Cartabia” e l’obiettivo di rimodulare i tempi del processo penale
La recente azione di governo, denominata “Riforma Cartabia”, ha già agitato l’opinione degli operatori del diritto, evocando talvolta espressioni di favore, altre aspre critiche. Ciò che è certo, però, è che sia le modifiche già intervenute che quelle delegate realizzeranno dei mutamenti nel corpus dell’amministrazione della giustizia di non poca rilevanza.
Lo scopo è quello di ridurre i tempi del processo penale, facendo però salve le fondamentali garanzie previste per l’imputato; obiettivo che appare tutt’altro che di semplice portata. Tutto ciò, invero, dovrebbe “passare per”, e non sovrapporsi, ai principi fondanti il sistema processual penalistico italiano, espressi così chiaramente da una sentenza tropo spesso dimenticata( cfr. Corte di Cassazione, n. 317 del 2009) con la quale la Suprema Corte ha ribadito, quale monito di sistema, il principio per cui un processo non giusto perchè carente sotto il profilo delle garanzie non è conforme al modello costituzionale, quale che sia la sua durata.
La riforma, indubbiamente, tocca corde sensibili: dalle norme istituzionali, tese ad intervenire sull’organo e sulla macchina amministrativa – attraverso l’introduzione dell’Ufficio del Processo, oltre all’individuazione di possibili alternative al processo e alla pena carceraria – alle modifiche puramente processuali, come l’introduzione di un’udienza, così detta, predibattimentale, già aspramente criticata da illustre dottrina, sino alle modifiche di assestamento della precedente riforma in tema di prescrizione, quest’ultime pur criticabili ma certamente necessarie.
Ciò premesso, l’odierno contributo è teso ad approfondire quelle modifiche relative alla disciplina dell’udienza preliminare, ovvero quella fase del procedimento che ha il ruolo di verificare la legittimità ed il merito dell’azione penale esercitata dal pubblico ministero.
2. La funzione dell’udienza preliminare
Come è noto all’esito dell’udienza preliminare il giudice, salva la facoltà di disporre i provvedimenti integrativi previsti dagli artt. 421 bis e 422 c.p.p., ha due scelte diametralmente opposte. Ed in tutte quelle volte in cui il giudicante propenda per l’emanazione della sentenza di non luogo a procedere viene a realizzarsi l’intenzione del legislatore di porre un filtro all’attività del pubblico ministero, ridimensionandone il potere istituzionalmente previsto di esercitare l’azione penale.
Vi è, pertanto, un primo e pesante controllo giurisdizionale sull’attività della magistratura inquirente. Come spesso accade, però, il tempo e le esigenze dovute alle prassi consolidatesi a seguito dell’ingestibile carico giudiziario hanno fatto sì che le maglie poste a misurare la concretezza della ipotesi accusatoria si siano allargate notevolmente. A ciò si aggiunga che, a differenza del decreto che dispone il giudizio, con il quale il giudice dell’udienza preliminare fa proprie le ragioni poste alla base della richiesta di rinvio a giudizio, l’art. 426 c.p.p. richiede tra i requisiti della sentenza di non luogo a procedere l’esposizione sommaria dei motivi di fatto e di diritto su cui si fonda la decisione del giudice. Il concorso dei suesposti fattori ha, giocoforza, contribuito a promuovere alla fase dibattimentale la stragrande maggioranza dei procedimenti, tra i quali moltissimi destinati a risolversi in una sentenza assolutoria per l’inconsistenza dell’accusa avanzata in giudizio.
In verità tali problematiche che costituiscono l’odierna impostazione di sistema, salvo qualche rarissimo caso, contribuiscono a deresponsabilizzare i vari Gup, inducendoli ad una gestione leziosa dell’udienza preliminare, ed esautorandone le funzioni normative.
L’attuale panorama giurisprudenziale, nel tempo, sembra aver contribuito al depotenziamento della fase di vaglio prevista dall’udienza preliminare, mediante la ricerca di un rigoroso impianto di presupposti e condizioni su cui fondare la sentenza di non luogo a procedere.
Pare opportuno ricordare che a dispetto delle soluzioni giurisprudenziali, di cui si dirà in appresso, il dato codicistico dell’art. 425 c.p.p sembra non richiedere altro che i presupposti richiesti in altre sedi dalle norme che disegnano il proscioglimento a vario titolo dell’imputato. Ed infatti, qualora sussista una causa che estingue il reato o per la quale l’azione penale non doveva essere iniziata o proseguita, se il fatto non è previsto dalla legge come reato ovvero quando risulta che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o, proseguendo, le altre formule terminative gerarchicamente subordinate, il giudice pronuncia sentenza di non luogo a procedere.
La riforma del 1999 , quasi a ricalcare, con un calibrato parallelismo, il secondo comma del 530 c.p.p. – con il quale, in combinato disposto con l’art. 533 comma 1 c.p.p. si pone a carico dell’accusa l’onere di eliminare il ragionevole dubbio sulla colpevolezza dell’imputato – ha poi previsto che il Gup emetta sentenza di non luogo a procedere anche quando gli elementi acquisiti risultino insufficienti, contraddittori o comunque non idonei a sostenere l’accusa in giudizio. Tale formulazione conduceva nuovamente l’udienza preliminare alla propria funzione deflattiva.
3. L’attuale giurisprudenza in tema di sentenza di non luogo a procedere
L’attuale giurisprudenza in tema di sentenza di non luogo a procedere, come spesso accade, si è sviluppata in controtendenza rispetto all’indirizzo suggerito dal legislatore. Sul tema leggi anche: La sentenza di non luogo a procedere
Ed invero, la Corte di Cassazione, nel corso degli anni, ha ritenuto di dover arricchire di ulteriori condizioni circostanziali le formule assolutorie previste codicisticamente dal legislatore.
L’operazione ermeneutica compiuta dalla giurisprudenza è stata quella di spostare sostanzialmente l’indagine del giudice dell’udienza preliminare da una valutazione di merito ad una valutazione del profilo processuale, incentrata puramente sulla sostenibilità, o meno, dell’accusa in giudizio.
In tale prospettiva, l’operazione da compiere in sede di udienza preliminare sarebbe, quindi, quella di valutare se, sotto un profilo processuale, e mediante un giudizio prognostico degli atti di indagine, sia utile affrontare la fase dibattimentale.
In analoghi termini si è così espressa la Suprema Corte di Cassazione osservando che, quando chiamato a valutare i presupposti per l’emanazione della sentenza di non luogo a procedere “ il Gup deve valutare, sotto il solo profilo processuale, se gli elementi probatori acquisiti risultino insufficienti, contraddittori o comunque inidonei a sostenere l’accusa in giudizio, esprimendo un giudizio prognostico circa l’inutilità del dibattimento, senza poter formulare un giudizio sulla colpevolezza dell’imputato”
Tali motivazioni hanno sin da subito richiesto un’ulteriore specificazione, essendo suscettibili di spostare esclusivamente il tema di indagine dall’insufficienza probatoria a sostenere l’accusa in giudizio all’inutilità del dibattimento. La quesito iuris atterrebbe, quindi, all’individuazione delle condizioni per le quali debba risultare già in fase preliminare che l’istruttoria successiva si risolverebbe non altro che in uno spreco di tempo. In primis pare chiaro come la questione in oggetto non possa che presupporre la presenza di un compendio probatorio carente, insufficiente, non adeguato a sostenere l’accusa in giudizio. Il perché, poi, tale inconsistenza precluda finanche lo svolgimento dibattimentale è argomento che si rivolge a ciò che il dibattimento, ex se, è teso a garantire ai fini processuali. E, perciò, se il dibattimento è luogo dove istituzionalmente deve essere acquisita la prova, laddove questa, già precedentemente sondata dalla procura inquirente, risulti non sufficiente, la fase istruttoria dibattimentale si rivelerebbe insufficiente tutte quelle volte in cui, tale fase, non consentirebbe l’integrazione di quella lacuna probatoria presente negli atti d’indagine.
Sebbene siffatto incedere argomentativo non possa essere considerato come massima espressione dei principi garantisti a difesa dell’imputato, il quale ben potrebbe richiedere di essere portato dinanzi al giudice dibattimentale solo dinanzi ad un compendio probatorio sufficientemente indiziante, si è perciò concluso, definitivamente, che l’inutilità del dibattimento dovesse essere rilevata in tutte quelle ipotesi in cui l’ulteriore fase istruttoria non avrebbe potuto apportare alcunché, ne aggiungendo nè sottraendo nulla al materiale già raccolto in fase di indagine.
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E così, infatti, la Suprema Corte ha rilevato come ai fini della valutazione circa la legittimità della sentenza di non luogo a procedere debba essere valutato “l’apprezzamento, sempre necessario da parte del G.u.p. dell’aspetto prognostico dell’insostenibilità dell’accusa in giudizio, sotto il profilo della insuscettibilità del compendio probatorio a subire mutamenti nella fase dibattimentale”.
Ulteriormente degne di nota, per una compiuta conoscenza dell’argomento in trattazione, paiono quelle sentenze che hanno arricchito la definizione dei presupposti necessari ai fini della sentenza di non luogo a procedere. Si è, infatti, sostenuto che l’insufficienza probatoria richiesta dall’art. 425 c.p.p. dovesse essere radicale: “Il giudice dell’udienza preliminare, ai fini della pronuncia di sentenza di non luogo a provvedere a norma dell’art. 425 c.p.p. , comma 3, deve limitarsi a valutare -sulla base di un giudizio prognostico di valenza meramente processuale – se gli elementi acquisiti risultino insufficienti, contraddittori o comunque non idonei a sostenere l’accusa in giudizio, in modo così radicale da rendere inutile lo svolgimento dei dibattimento, anche con riferimento agli ulteriori elementi di prova, ai chiarimenti e agli approfondimenti probatori che ivi potranno essere disposti”
Ed ancora, si è arrivati a ritenere sufficiente la “capacità degli elementi posti a sostegno della richiesta di cui all’art. 416 cod. proc. pen., eventualmente integrati ai sensi degli art. 421 bis e 422 cod.proc.pen,, di dimostrare la sussistenza di una “minima probabilità” che, all’esito del dibattimento, possa essere affermata la colpevolezza dell’imputato”.
In ultimo, si è passati dal mondo del probabile a quello del possibile ritenendo che “Il giudicante dell’udienza preliminare è chiamato a stabilire se le fonti di prova dell’accusa abbiano una consistenza tale da meritare il vaglio del giudice del dibattimento (anche al fine di consentire, nella dialettica propria di quella sede, lo sviluppo di elementi ancora non chiariti); ciò, evidentemente, in vista di una (non probabile ma) possibile sentenza di condanna all’esito del giudizio dibattimentale”
4. Le nuove prospettive della “Riforma Cartabia” e la “ragionevole previsione di condanna”
Tra le modifiche apportate dall’intervento compiuto dal legislatore vi è la delega sulla riforma del codice di procedura penale. Come detto, tra le varie prospettive di modifica è presente quella relativa alla rimodulazione dell’udienza preliminare, mediante l’imposizione come criterio guida per la richiesta di rinvio a giudizio ed, in prospettiva contraria, per l’emanazione sentenza di non luogo a procedere, quello della “ragionevole previsione della condanna”.
In primis viene stabilita la modifica delle regole di valutazione del pubblico ministero, ex artt. 408 c.p.p. e 125 disp. att. c.p.p, con una regola di valutazione che rimane pur sempre di natura prognostica, ma tesa a porre al centro della sua analisi il momento conclusivo del processo penale, ovvero la decisione.
Pertanto, l’ufficio della procura verrà onerato di una valutazione non sull’idoneità o meno degli elementi acquisiti a instaurare un dibattimento, e semmai a conseguire una sentenza di condanna, bensì sulla ragionevole concretezza degli elementi già acquisiti a fondare una sentenza di condanna.
La ratio parrebbe quella di rendere più arduo il rinvio a giudizio, valorizzando la funzione di filtro dell’udienza preliminare.
Tali prospettive modificative, come già accennato, non possono che essere seguite da quelle che, per ragioni logiche sistematiche, vi sono strettamente connesse, ovvero quelle in tema di sentenza di non luogo a procedere. In particolare, la riforma prevede, all’art. 1 comma 9 lett. m) della legge delega, di modificare “la regola di giudizio di cui all’articolo 425, comma 3, del codice di procedura penale nel senso di prevedere che il giudice pronunci sentenza di non luogo a procedere quando gli elementi acquisiti non consentono una ragionevole previsione di condanna”.
5. Le conseguenze sistematiche della ragionevole previsione di condanna
In merito alla “ragionevole previsione di condanna”, sembra però potersi osservare che tale locuzione, estranea all’ordinamento penale Italiano, implica delle conseguenze di carattere sistematico che disvelano un volto della riforma dai non chiari risvolti. A fronte delle dichiarazioni istituzionalmente rese dagli organi competenti, che rivendicano la natura garantista della riforma – sulla base della considerazione che il criterio di ragionevole previsione di condanna richieda in qualche modo un vaglio di maggior rigore da parte del giudice delle indagini preliminari ai fini della emanazione del decreto che dispone il giudizio – preoccupano invece i lasciti pregiudizievoli conseguenti ad una valutazione di prognosi condannatoria, attribuita all’imputato ancor prima che il processo dibattimentale veda il suo svolgimento. Se non siamo nel campo del giudicato non siamo però molto distanti. Ed infatti, in dibattimento, il magistrato giudicante non potrà che accogliere l’imputato con la consapevolezza che il suo collega, in precedenza, ha già definito, l’imputato, presunto innocente, come presunto ragionevolmente colpevole. Il vulnus all’art. 27 della Costituzione è lampante, tanto più che l’auspicio del ministro proponente della riforma era in direzione del risultato esattamente opposto, ovvero quello di evitare di rinviare a giudizio chi si fosse si trovato in seno all’udienza preliminare con un prevedibile esito assolutorio. Non serve soffermarsi più di tanto sulla considerazione che, in termini di principio, evitare un rinvio a giudizio di tutti quegli imputati che verranno certamente assolti in dibattimento non può corrispondere, tout court, a rinviare a giudizio tutti quegli imputati che ragionevolmente verranno ivi condannati.
Le problematiche non affrontate dalla riforma, sembrano in realtà risiedere altrove.
Nessuno si chiede, ad esempio, la motivazione per la quale vi sia una percentuale elevatissima di sentenze di condanna dei giudici di primo grado, benché le rispettive indagini, e le relative richieste di rinvio a giudizio, siano avanzate da colleghi, magistrati inquirenti, che affrontano la stessa carriera e lo stesso esame.
In altri termini se il rinvio a giudizio, ad oggi, deve essere chiesto tutte quelle volte in cui la tesi accusatoria appare fondata e sostenibile, come mai nella gran parte dei casi la prognosi del pubblico ministero risulta fallace?
Ulteriormente, sembra non interessare il fatto che la modifica in questione attribuirà un giudizio di colpevolezza sul materiale investigativo assunto senza un vero e proprio contraddittorio, contrariamente a quanto stabilito dall’art.111 Cost., e in antitesi con i numerosi richiami della giurisprudenza comunitaria, la quale, paradossalmente, ha fortemente richiesto la riforma in commento.
Le prospettive, salvo un revirement improvviso in sede di attuazione della legge delega, sono tutt’altro che rosee. Ancor di più se si pensa che il termine la previsione della condanna richiama l’azione del prevedere che, in sé, postula una disamina analitica di ciò che è accaduto in passato, appunto, con lo scopo di prevedere il futuro. Un ulteriore richiamo, quindi, alla giurisprudenza del precedente, del common law. Si avrà ragionevole condanna tutte quelle volte che un soggetto, in circostanze analoghe, sarà già stato condannato?
Sarà quindi compito del legislatore ovvero, si auspica, della giurisprudenza, quello di ricondurre sui binari una improvvida modifica che rischia di realizzare il risultato opposto rispetto a quello che si auspicava di raggiungere.
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