(Riferimento normativo: Cod. proc. pen., art. 420-bis)
Il fatto
La Corte di Assise di Genova condannava in absentia l’imputato latitante, per i reati di: 1) associazione per delinquere finalizzata a più delitti di introduzione illegale in Italia di cittadini extracomunitari con trasporti via mare; 2) art. 12, comma 3, D. Lgs. 25 luglio 1998 n. 286 per avere, in data 19 luglio 2014, introdotto in Italia 106 stranieri extracomunitari, trasportandoli via mare dall’ Egitto in Sicilia; 3) art. 495, comma 2, cod. pen. per avere reso il 22 luglio 2014 false dichiarazioni alla Polizia di Stato in ordine alla propria identità.
Il difensore di ufficio, a sua volta, proponeva appello deducendo motivi solo in ordine alla responsabilità.
La Corte di Assise di Appello di Genova, dal canto suo, dichiarava di ufficio la nullità della sentenza di primo grado ritenendo che si fosse proceduto in assenza dell’imputato fuori dai casi previsti.
In particolare, si osservava che: a) quattro giorni dopo lo sbarco in Italia, il 22 luglio 2014, l’imputato era sottoposto ad identificazione da parte della Polizia di Stato in Genova ed in tale occasione dichiarava false generalità; b) gli veniva rappresentato che sarebbe stato aperto un procedimento nei suoi confronti per la violazione delle norme in tema di ingresso illegale di stranieri e, non avendo difensore di fiducia, gliene veniva nominato uno di ufficio; c) invitato a dichiarare il domicilio, l’imputato eleggeva domicilio presso il difensore di ufficio; d) «Tale atto è stato ritenuto [dal giudice di primo grado] – a norma dell’articolo 420-bis c. 2 cod. proc. pen. – prova della conoscenza del procedimento nonché della volontà di sottrarsi alla conoscenza del procedimento medesimo e dei suoi atti».
La Corte di Assise di Appello aveva, invece, ritenuto erronea tale valutazione della portata dell’elezione di domicilio nel dato contesto posto che aveva affermato, condividendo alcune decisioni della giurisprudenza di legittimità, che la consapevolezza dell’imputato della pendenza a suo carico del procedimento penale non può essere desunta dalla elezione di domicilio presso il difensore di ufficio effettuata in sede di sua identificazione da parte della polizia giudiziaria nella immediatezza dell’accertamento del reato né che il medesimo possa ritenersi informato della esistenza di un procedimento a suo carico solo in base ad un atto compiuto di iniziativa dalla polizia giudiziaria prima della formale iscrizione del nominativo della persona sottoposta alle indagini nel registro ex art. 335 cod. proc. pen.
Ciò posto, la Corte territoriale aveva quindi ritenuto tali regole rilevanti nel caso in esame in cui il verbale di identificazione era antecedente all’inizio del procedimento penale e l’imputato non poteva avere cognizione della sua veste (allora) di indagato tenuto conto altresì del fatto che, dopo tale momento, si era allontanato e non era stato più reperito venendo dichiarato latitante in relazione alla esecuzione del provvedimento di custodia emesso nelle more.
I motivi addotti nel ricorso per Cassazione
Il Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Genova proponeva ricorso avverso tale decisione deducendo la violazione dell’art. 420-bis cod. proc. pen. ritenendo che il primo giudice avesse correttamente ritenuto che vi fossero le condizioni per procedere in absentia.
Si rilevava a tal proposito come: 1) fosse erroneo ritenere non rilevante la conoscenza del procedimento prima della iscrizione nel registro ex art. 335 cod. proc. pen.; tale circostanza non ha alcun effetto sulla conoscibilità del procedimento da parte dell’indagato e non può rappresentare un criterio discretivo; 2) ai fini della conoscenza richiesta per procedere in absentia fosse sufficiente che la parte sappia che un procedimento penale potrà essere iniziato essendo significativa in tale senso la disposizione di cui all’art. 161 cod. proc. pen. in cui si prevede che l’indagato dichiari il domicilio anche prima della formale iscrizione nel registro degli indagati: ciò dimostra che la qualità di persona sottoposta alle indagini non è affatto condizionata dalla iscrizione formale; 3) occorresse, invece, valutare se la assenza fosse stato il frutto di una scelta volontaria il che nel caso di specie era dimostrato dal comportamento elusivo dell’interessato che, sottoposto a fotosegnalazione in Siracusa in occasione di un altro sbarco clandestino, aveva fornito false generalità, evidentemente per sottrarsi alla giustizia; 4) fosse erroneo escludere che la conoscenza del procedimento possa derivare da un atto della polizia giudiziaria antecedente alla iscrizione ex art. 335 cod. proc. pen. in quanto lo stesso art. 420-bis cod. proc. pen. prevede l’ipotesi dell’arresto in flagranza, che certamente viene disposto in fase anteriore a tale iscrizione.
Detto questo, si richiamava, per di più, la giurisprudenza di legittimità che, in tema di rescissione del giudicato, considera che, quando l’imputato non abbia adempiuto agli oneri di diligenza nel tenersi informato, vi è la condizione di colpevole mancata conoscenza del processo.
La questione prospettata nell’ordinanza di rimessione
La prima sezione penale della Cassazione, cui era stato assegnato il procedimento, lo rimetteva alle Sezioni Unite rilevando un contrasto di giurisprudenza in ordine alla possibilità di celebrare il processo in assenza nei confronti dell’imputato che abbia eletto domicilio presso il difensore di ufficio al momento della identificazione da parte della polizia giudiziaria e, poi, non sia stato più reperito.
Al riguardo, si osservava che, secondo un primo orientamento, con riferimento a situazioni similari, la conoscenza dell’esistenza del procedimento penale non può essere desunta da una elezione di domicilio effettuata in sede di identificazione di iniziativa della polizia giudiziaria prima della formale instaurazione del procedimento con l’iscrizione nel registro ex art. 335 cod. proc. pen. Secondo un diverso orientamento, invece, è valida la notificazione all’imputato presso il difensore d’ufficio domiciliatario, indicato nel corso delle indagini preliminari, in ragione della presunzione di conoscenza del procedimento prevista dall’art. 420-bis comma 2, cod. proc. pen. la quale è superabile soltanto nel caso in cui risulti, ai sensi del successivo art. 420-ter, comma 1, cod. proc. pen., che l’assenza è stata determinata da assoluta impossibilità di comparire per caso fortuito, forza
maggiore o altro legittimo impedimento.
Le valutazioni giuridiche formulate dalle Sezioni Unite
Prima di esaminare la questione summenzionata, le Sezioni Unite procedevano alla sua delimitazione nei seguenti termini: “Se, ai fini della pronuncia della dichiarazione di assenza di cui all’art. 420-bis cod. proc. pen., integri di per sé presupposto idoneo l’intervenuta elezione da parte dell’indagato di domicilio presso il difensore di ufficio nominatogli o, laddove non lo sia, possa comunque diventarlo nel concorso di altri elementi indicativi con certezza della conoscenza del procedimento o della volontaria sottrazione alla predetta conoscenza del procedimento o di suoi atti”.
Premesso ciò, veniva fatto prima di tutto presente che la questione riguardava una elezione di domicilio effettuata in epoca precedente l’introduzione, con l’art. 1 della Legge 23 giugno 2017, n. 103, del comma 4-bis dell’art. 162 cod. proc. pen. rilevandosi al contempo, una volta notato che tale norma prevede che «L’elezione di domicilio presso il difensore d’ufficio non ha effetto se l’autorità che procede non riceve, unitamente alla dichiarazione di elezione, l’assenso del difensore domiciliatario», come la decisione in ordine al tema specifico rilevi solo per le vicende pregresse.
I temi di fatto della questione erano dunque per la Corte di legittimità chiari: “uno straniero non residente in Italia (presunto) “scafista”, dedito al trasporto di immigrati clandestini, era identificato, subito dopo il suo arrivo in Italia con un “barcone”, per I. D. M., venendogli contestato il reato di procurato ingresso illegale di cittadini extracomunitari. Nel corso dei primi atti di p.g., richiesto di dichiarare un domicilio in Italia, lo eleggeva presso il difensore di ufficio nominatogli in quel contesto. Dopodiché, diveniva irreperibile e, fra l’altro, anche formalmente latitante perché nel frattempo veniva emessa contro di lui una misura coercitiva che comprendeva l’ulteriore reato associativo”.
Orbene, una volta ricostruito il fatto in questi termini, gli Ermellini osservavano come il contrasto involgesse la possibilità, alla luce della normativa vigente, che in tale situazione possa ritenersi ragionevolmente che l’imputato fosse stato a conoscenza prima del procedimento penale in fase di indagini e, poi e conseguentemente, del processo, condizione necessaria per procedere in sua assenza ai sensi dell’art. 420-bis cod. proc. pen. nonché, in alternativa, la possibilità di ritenere che il medesimo abbia voluto sottrarsi alla conoscenza degli atti del procedimento in corso per tale altra ragione risultando consentito il processo in sua assenza.
Orbene, limitando la valutazione alle sentenze successive alla introduzione del processo in assenza con la Legge 28 aprile 2014, n. 67, i giudici di piazza Cavour ritenevano opportuno segnalare innanzitutto le decisioni che hanno ritenuto che in situazioni simili non sia possibile ritenere che l’elezione di domicilio presso il difensore di ufficio rilevi ai fini indicati, vale a dire le seguenti pronunce: I) Sez. 2, n. 9441 del 24/1/2017 in cui si ritiene che una effettiva conoscenza del procedimento ai fini del processo in absentia non possa farsi coincidere con la cognizione di un atto posto in essere di iniziativa della polizia giudiziaria prima dell’inizio del procedimento, momento che coincide con la iscrizione del nome della persona sottoposta alle indagini nel registro ex art. 335
cod. proc. pen. e, a tali conclusioni si giunge anche sulla scorta di regole consolidate affermate nella vigenza della normativa sulla contumacia successiva al 2005, regole che risolvono problematiche comuni ai due sistemi; II) Sez. 1, n. 16416 del 2/3/2017, in cui si giunge alle medesime conclusioni con riferimento al caso di un soggetto che, accusato di aver violato un decreto di espulsione, era stato sottoposto a rilievi fotosegnaletici nel corso dei quali aveva rifiutato di dichiarare o eleggere un domicilio fermo restando che, nel caso di specie, si considerava come la conoscenza di tali atti di p.g. non avesse dimostrato la conoscenza del procedimento che si instaura solo dal momento di iscrizione del nominativo dell’accusato nel registro ex art. 335 cod. proc. pen.
A queste decisioni si evidenziavano come se ne potessero aggiungere altre che, pur non riguardando situazioni similari, risulteranno utili per le valutazioni della fondatezza di questo indirizzo e, comunque, rilevavano perché in contrasto con le regole affermate dal secondo indirizzo in tema di presunzioni di conoscenza; in particolare, venivano richiamate le susseguenti decisioni: a) Sez. 6, n. 43140 del 19/9/2019, in tema di rescissione del giudicato, in cui si considera che la conoscenza del processo, che preclude la rescissione «deve essere riferita all’accusa contenuta in un provvedimento formale di vocatio in iudicium», escludendo che sia sufficiente la conoscenza dell’avviso di chiusura delle indagini tenuto conto che inoltre, nel contempo, la decisione rammenta che «il sistema di conoscenza legale in base a notifiche regolari non incide sulla questione della conoscenza effettiva del procedimento»; b) Sez. 5, n. 10443 del 7/2/2019, nella diversa materia della restituzione nel termine per proporre opposizione avverso il decreto penale di condanna, in cui si rileva l’inidoneità della notifica dell’atto presso il difensore di ufficio domiciliatario «salvo che […] non si dimostri che il difensore di ufficio è riuscito a rintracciare il proprio assistito e ad instaurare un effettivo rapporto
professionale con lui» confermando una interpretazione costante con riferimento alla conoscenza effettiva del decreto penale (in termini identici: Sez. 1, n. 6479 del 11/10/2017, dep. 2018; Sez. 4, n. 991 del 18/07/2013, dep. 2014; Sez. 1, n. 8225 del 10/02/2010).
Altre e più numerose decisioni, invece,osservavano sempre le Sezioni Unite, ritengono che si possa procedere in assenza nei confronti di colui che abbia eletto domicilio presso il difensore di ufficio. In tale senso: I) Sez. 5, n. 40848 del 13/7/2017 che lo afferma con riferimento ad un’elezione di domicilio effettuata nel corso delle prime attività della p.g., sostenendo che l’art. 420-bis cod. proc. pen. ha introdotto dei casi di presunzione di conoscenza del processo (che ritiene situazioni tipiche tali «da indurre lo stesso legislatore a presumere che l’imputato abbia avuto con certezza conoscenza del procedimento ovvero si sia volontariamente sottratto a tale conoscenza»); II) Sez. 4, n. 49916 del 16/10/2018 secondo la quale dall’elezione di domicilio deriva una presunzione di conoscenza del processo che legittima il giudice a procedere in assenza dell’imputato; su quest’ultimo, quindi, grava l’onere di attivarsi per tenere contatti informativi con il proprio difensore sullo sviluppo del procedimento; III) Sez. 2, n. 25996 del 23/05/2018 il quale esclude che possa darsi luogo alla rescissione del giudicato se l’imputato abbia avuto notizia del procedimento nella fase delle indagini; giunge a tale conclusione sul presupposto che l’art. 420-bis, comma 2, cod. proc. pen. introduca delle presunzioni assolute di conoscenza del procedimento.
Negli stessi termini, rilevano anche: Sez. 2, Sentenza n. 39158 del 10/09/2019; Sez. 4 -, Sentenza n. 32065 del 07/05/2019; Sez. 5, n. 36855 del 07/07/2016; Sez. 5, n. 12445 del 13/11/2015; Sez. 2, n. 14787 del 25/1/2017; Sez. 2, n. 33574 del 14/07/2016 – dep. 01/08/2016.
Concluso questo articolato excursus giurisprudenziale, veniva notato come l’argomento ricorrente, espresso in particolare in sede di decisioni sulla richiesta di rescissione del giudicato, sia proprio la adeguatezza della elezione di domicilio presso il difensore, anche di ufficio, anche nella fase iniziale del procedimento nel senso che tale dichiarazione consente di ritenere che la parte sia a conoscenza dello sviluppo processuale sulla scorta del meccanismo delle presunzioni e dell’onere di diligenza nel mantenersi informati.
Il contrasto, in definitiva, ad avviso della Cassazione, si rileva per un tema più ampio rispetto a quello immediatamente oggetto del quesito investendo l’interpretazione delle condizioni, indicate nell’art. 420-bis, comma 2, cod. proc. pen. (dichiarazione od elezione di domicilio, previa applicazione di misura cautelare o precautelare, nomina di difensore di fiducia) che consentono il processo in absentia anche quando l’imputato non abbia ricevuto personalmente notifica dell’udienza posto che le decisioni del secondo indirizzo sono tutte accomunate dal ritenere che la normativa sul processo in absentía abbia introdotto presunzioni per questi soli casi nei quali, quindi, è consentito procedere sulla base della sola regolarità formale della notifica dell’avviso di udienza, in qualsiasi forma effettuata, anche quale soggetto irreperibile.
Il tema proposto, quindi, per la Suprema Corte, investe rilevanti questioni che rendono necessario premettere l’evoluzione normativa in tema di garanzie della partecipazione effettiva dell’imputato al processo penale.
Ebbene, una volta fatto presente che la parte argomentativa enunciata in questa pronuncia riprende i contenuti della sentenza di queste Sez. U, n. 28912 del 28/02/2019, che affrontava il tema della effettiva conoscenza del procedimento da parte del contumace ai fini della restituzione nel termine per impugnare secondo la disciplina dell’art. 175, comma 2, cod. proc. pen. vigente dopo la riforma del 2005 e sino alla introduzione della disciplina dell’assenza dato che in quella sede si osservava che i principi generali introdotti nel 2005 sono sostanzialmente gli stessi sottesi all’assetto conseguente alla riforma del processo in assenza e per questa ragione la sentenza valutava incidentalmente alcuni profili di tale successiva disciplina, si osservava innanzitutto che l’ordinamento processuale penale italiano sino agli ultimi anni di vigenza del precedente codice di procedura privilegiava il sistema di conoscenza legale degli atti del processo basato sulla regolarità formale delle notifiche dal momento che il processo si poteva svolgere in contumacia anche nei casi in cui la notifica dell’atto introduttivo del giudizio fosse stata effettuata con modalità non tali da garantire l’effettiva conoscenza e questo valeva sia in casi di situazioni di impossibilità di rintracciare l’imputato per sue scelte consapevoli (domicilio variato non comunicato etc., latitanza) che in caso di presumibile non conoscenza in assoluto del procedimento.
Premesso ciò, si notava inoltre come il dato della effettiva conoscenza o meno del processo fosse sostanzialmente irrilevante salvi i rimedi riparatori (ovvero l’impugnazione tardiva della sentenza di primo grado) condizionati alla prova, a carico dell’imputato/condannato, delle condizioni che avevano reso impossibile la sua partecipazione/conoscenza del procedimento.
Il sistema processuale così congegnato, a fronte della sufficienza anche di una evidente mera fictio di conoscenza del procedimento, garantiva la possibilità di difesa con il sistema della difesa di ufficio fermo restando che questa, però, era strutturalmente inidonea a garantire la certezza di partecipazione consapevole al processo ed a garantire una difesa piena, come del resto dimostra la stessa successiva evoluzione, sia normativa che giurisprudenziale, che ha portato a differenziare il senso di partecipazione al processo dell’imputato a seconda che lo stesso sia munito di difensore di fiducia o di ufficio; tema che, peraltro, è sotteso alla questione devoluta a questo collegio.
Detto questo, veniva sottolineato come la prima occasione di seria riforma di un tale sistema, sino ad allora passato sostanzialmente indenne ai controlli di costituzionalità, fosse stata la decisione Corte EDU, 12 febbraio 1985, Colozza c. Italia, che condannava l’Italia proprio in considerazione della inadeguatezza delle regole di conoscenza legale rispetto alle esigenze di un giusto processo.
Tale decisione, in particolare, riguardava il caso di un soggetto irreperibile, nonché latitante, cui la conoscenza “legale” era stata garantita con il deposito degli atti in cancelleria e la notifica al difensore di ufficio mentre il diritto all’appello tardivo gli era stato negato proprio in ragione della regolarità formale delle notifiche basate su ricerche (ritenute) esaustive.
Più nel dettaglio, valutando il caso di specie, la Corte EDU affermava con argomentazioni di portata generale che un sistema di mera conoscenza legale confligge con i principi del giusto processo delineato nella Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo; alle date condizioni non era affatto possibile determinare se l’imputato avesse potuto decidere volontariamente di non partecipare al processo e che comunque, avendo il ricorrente acquisito tardivamente la conoscenza del processo, doveva essergli riconosciuta la possibilità di chiedere una nuova valutazione dei fatti. La regola essenziale individuata nella Convenzione, quindi, è che non può essere posto a carico del richiedente l’onere della prova di non avere egli inteso sottrarsi alla giustizia o di essere stato condizionato da una situazione di forza maggiore.
La Corte, nell’ambito di tali considerazioni, inoltre, affermava anche in termini espressi come fosse del tutto irrilevante l’essere stata anche dichiarata latitanza poiché tale condizione comunque non presupponeva una effettiva prova che il ricorrente fosse consapevole del procedimento tenuto conto altresì del fatto come questa decisione avesse avuto un diretto rilievo nella elaborazione delle regole in tema di contumacia, irreperibilità e rimessione in termini del codice di procedura penale del 1989, anticipate per l’evidente urgenza di adeguamento con la legge 22 del 1988 che modificava il codice previgente: il legislatore introduceva l’obbligo di rinvio per legittimo impedimento dell’imputato o del difensore e superava il rigore della presunzione legale di conoscenza del sistema delle notifiche posto che l’art. 486 del codice del 1989 (restato identico nel contenuto fino al 2005) prevedeva che dovesse procedersi a rinnovazione della citazione a giudizio, pur a fronte di una notifica rituale, «quando è provato o appare probabile che l’imputato non ne abbia avuto effettiva conoscenza, sempre che il fatto non sia dovuto a sua colpa e fuori dei casi di notificazione mediante consegna al difensore a norma degli articoli 159, 161 comma 4 e 169».
Ebbene, se tale disposizione era chiaramente incentrata sulla conoscenza effettiva del processo da parte dell’imputato (cui equiparava la non conoscenza per “colpa“) tale da rendere irrilevante il dato della pur piena conformità a legge della notificazione, permaneva, però, un ambito di prevalenza della presunzione legale della conoscenza del processo in caso di notifica mediante consegna dell’atto al difensore; difatti, non essendovi alcuna differenziazione, questa ipotesi comprendeva anche il difensore di ufficio senza alcuna eccezione – la precisazione è rilevante in quanto le norme successive hanno valorizzato il rapporto con il solo difensore di fiducia, escludendo la semplice fictio secondo cui la presenza del difensore di ufficio possa sempre garantire la effettiva partecipazione della parte al processo.
Ciò posto, veniva rilevato che, alle disposizioni sulla contumacia, con la possibilità di valorizzare il dato concreto della “non conoscenza” anche a fronte di una notifica pienamente regolare, il codice del 1989 aggiungeva la previsione dell’art. 175 cod. proc. pen. che, con la restituzione nel termine per impugnare la sentenza emessa in contumacia per l’imputato «che provi di non aver avuto effettiva conoscenza del provvedimento, sempre che l’impugnazione non sia stata già proposta dal difensore e il fatto non sia dovuto a sua colpa ovvero, quando la sentenza contumaciale è stata notificata mediante consegna al difensore nei casi previsti dagli articoli 159, 161 comma 4 e 169, l’imputato non si sia sottratto volontariamente alla conoscenza degli atti del procedimento», consentiva di provare la non conoscenza della sentenza, anche nel caso di notifica presso il difensore (e, allo stato di conoscenza effettiva, era equiparata l’ ignoranza per colpa nonché la volontaria sottrazione alla conoscenza).
In particolare, la tutela riparatoria offerta al condannato riguardava la possibilità di impugnazione della sentenza ma non il suo annullamento: come chiarito dalle prime decisioni, l’art. 487 cod. proc. pen. prevedeva effetti di nullità della dichiarazione di contumacia nel caso in cui fosse provata la mancata conoscenza della citazione prima della sentenza mentre la stessa dichiarazione restava comunque valida in caso di prova acquisita successivamente alla sua pronuncia (per tutte si veda: Sez. 6, n. 4617 del 01/02/1994 «In tema di contumacia dell’imputato, dal disposto dell’art. 487 cod. proc. pen. si ricava che qualora la prova dell’incolpevole mancata conoscenza del decreto di citazione sia stata acquisita dopo l’emanazione della sentenza di primo grado, questa decisione è valida ed all’imputato resta la possibilità di chiedere o la restituzione nel termine a norma dell’art. 175 cod. proc. pen. o la rinnovazione del dibattimento di appello a norma dell’art. 487, quarto e quinto comma, dello stesso codice»).
La disposizione aveva, evidentemente, ampi ambiti interpretativi per il riferimento a nozioni generali di “colpa” e “volontaria sottrazione“.
In sintesi, quindi: a) era escluso che la presunzione legale di conoscenza in caso di notifica regolare avesse (sempre) valore assoluto a discapito della conoscenza effettiva; b) la prova della “non conoscenza” era a carico dell’interessato; c) erano sostanzialmente equiparate la ignoranza del processo per colpa (ad es., per la dimenticanza di comunicare il nuovo domicilio) e la sottrazione volontaria alla conoscenza degli atti del processo (ad es., per avere comunicato un falso indirizzo).
La previsione iniziale del nuovo codice, a sua volta restava invariata nella sostanza sino al 2005 (salva la ricollocazione delle norme su contumacia e impedimento a comparire dopo l’art. 420 cod. proc. pen., essendo state rese applicabili sin dall’udienza preliminare) fermo restando che tale sistema era stato modificato perché, anche con tali aggiustamenti, era risultato inadeguato ai principi del processo equo sulla scorta di due successive decisioni della Corte EDU; la seconda ha espressamente condizionato la ulteriore evoluzione normativa.
La prima è la decisione Corte EDU, 18 maggio 2004, Somogyi c. Italia: in questo caso, si trattava di un soggetto condannato in contumacia cui era stata rifiutata la rimessione in termini nonché l’appello tardivo ritenendo infondata la sua eccezione di falsità della propria firma attestante la ricevuta di una citazione.
La Corte EDU, nell’occasione, aveva affermato quanto segue: «se un procedimento che si svolge in assenza dell’imputato non è di per sé incompatibile con l’articolo 6 della Convenzione, resta il fatto che quando un individuo condannato in absentia non può ottenere successivamente che una autorità giudiziaria decida di nuovo, dopo averlo ascoltato, sul fondamento dell’accusa in fatto come in diritto, mentre non è stabilito in maniera non equivoca che abbia rinunciato al suo diritto a comparire ed a difendersi, costituisce un rifiuto di rendere giustizia […] In particolare, occorre che le risorse offerte dal diritto interno si rivelino effettive se l’accusato non ha né rinunciato a comparire e a difendersi, né ha avuto l’intenzione di sottrarsi alla giustizia».
La soluzione era, però, essenzialmente basata sulla presumibile nullità della notifica avendo la Corte ritenuto inadeguato l’accertamento in fatto (la falsità della firma) sulle circostanze dedotte dalla difesa.
Dedotto ciò, ad avviso delle Sezioni Unite, la decisione maggiormente determinante, invece, era stata la seconda, ossia: Corte EDU, 10 novembre 2004, Sejdovic c. Italia.
Difatti, se, come nel procedimento Colozza, in questo caso si era in presenza di un soggetto indagato per omicidio, da subito irreperibile nonché latitante a seguito di adozione della misura della custodia in carcere e il processo a suo carico si era svolto sulla base di notifiche che certamente erano regolari secondo l’ordinamento interno ma non tali da dimostrare alcuna sua conoscenza effettiva del procedimento in presenza del difensore di ufficio che non aveva impugnato la decisione di condanna e arrestato all’estero, la Repubblica Federale Tedesca negava la sua estradizione in quanto in Italia non gli era garantito un nuovo processo o quantomeno l’appello rispetto alla decisione in primo grado, il giudice competente rilevava che il sistema processuale italiano non riconosce in favore del contumace un diritto incondizionato al nuovo processo mentre, invece, l’interessato avrebbe dovuto prima dimostrare che vi era stato un errore nel ritenere la sua latitanza.
A fronte di ciò, la Corte EDU prendeva quindi atto dell’interpretazione corrente secondo la quale, per negare la impugnazione della sentenza resa in contumacia e notificata al difensore, deve esserci una seria prova della specifica intenzione dell’imputato di sottrarsi alla conoscenza degli atti fermo restando che una tale regola, però, per le Sezioni Unite, non bastava per giustificare l’irrevocabilità della decisione perché, secondo la Corte, comunque «vi è un diniego di giustizia quando un individuo, condannato” in absentia”, non può ottenere successivamente che una giurisdizione statuisca di nuovo […] sul merito dell’accusa, in fatto e in diritto, ove non sia stabilito in maniera non equivoca che egli ha rinunciato al suo diritto di comparire e di difendersi».
La Corte, difatti, nel rilevare che il meccanismo di restituzione nel termine previsto dalla normativa interna, non era apparso in grado di garantire adeguatamente il contumace, concludeva nel senso che «la riscontrata violazione […] è conseguenza di un problema strutturale legato al cattivo funzionamento della legislazione e delle pratiche interne provocato dall’assenza di un meccanismo effettivo volto a mettere in opera il diritto delle persone condannate in contumacia – che non siano informate in maniera effettiva delle pendenze a loro carico e che non abbiano rinunciato in maniera non equivoca al loro diritto di comparire – ad ottenere ulteriormente che una giurisdizione statuisca di nuovo […] lo Stato italiano deve garantire, attraverso misure appropriate, la messa in opera del diritto in questione».
In tale modo, la Corte affermava l’esistenza: 1) innanzitutto, di un obbligo, derivante dalla Convenzione, di procedere solo nei confronti di chi abbia l’effettiva conoscenza del processo; 2) poi, di un obbligo di prevedere un meccanismo riparatorio consistente nell’assicurare al soggetto giudicato in contumacia un nuovo grado di giurisdizione di merito.
Conclusa la disamina di questa giurisprudenza della CEDU, gli Ermellini osservavano come l’adeguamento normativo fosse stato immediato in quanto, con il decreto-legge n 17 del 2005, convertito con modificazioni dalla legge n. 60 del 2005, erano apportate le modifiche minime apparse necessarie.
In particolare, era stato modificato l’art. 175 cod. proc. pen. adottando la formulazione «Se è stata pronunciata sentenza contumaciale o decreto di condanna, l’imputato è restituito, a sua richiesta, nel termine per proporre impugnazione od opposizione, salvo che lo stesso abbia avuto effettiva conoscenza del procedimento o del provvedimento e abbia volontariamente rinunciato a comparire ovvero a proporre impugnazione od opposizione. A tale fine l’Autorità Giudiziaria compie ogni necessaria verifica»: ovvero al contumace si garantiva in modo del tutto incondizionato il nuovo grado di giudizio salva la prova, a carico dell’accusa, della sua effettiva conoscenza del processo.
Il decreto-legge nel preambolo precisava a sua volta la ragione della adozione urgente nella necessità di «garantire il diritto incondizionato alla impugnazione delle sentenze contumaciali e dei decreti di condanna da parte delle persone condannate nei casi in cui esse non sono state informate in modo effettivo dell’esistenza di un procedimento a loro carico, così come espressamente richiesto allo Stato italiano dalla sentenza del 10 novembre 2004, pronunciata sul ricorso n. 56581/00, della Corte europea dei diritti dell’uomo» e di «armonizzare l’ordinamento giuridico interno al nuovo sistema di consegna tra gli Stati dell’Unione europea, che consente […] di rifiutare l’esecuzione del mandato di cattura europeo emesso in base ad una sentenza di condanna in contumacia ove non sia garantita, sempre che ne ricorrano i presupposti, la possibilità di un nuovo processo».
Tale preambolo, secondo la Suprema Corte, era quindi la chiave di lettura dell’articolo 175 cod. proc. pen. riformato: la persona condannata in contumacia, se non informata “effettivamente” del “procedimento“, aveva diritto incondizionato al nuovo processo ed era chiara, quindi, la innovazione nel senso dell’assoluta prevalenza del dato della conoscenza effettiva sul dato formale della regolarità della notifica.
Inoltre, la contestuale modifica del sistema di notifica presso il difensore di fiducia con l’introduzione dell’art. 157, comma 8-bis, cod. proc. pen. codificava anche il principio di netta differenziazione tra difesa di fiducia e difesa di ufficio, poiché solo la prima, di norma, garantisce all’imputato l’adeguata informazione sull’andamento del processo.
L’altra, ed importante, ragione della sostanziale revisione del processo in absentia indicata nel preambolo, evidenziavano le Sezioni Unite, era la necessità di adeguamento del nostro modello processuale per rendere operativo il mandato di arresto europeo: difatti la Decisione Quadro n. 2002/584/GAI del Consiglio, del 13 giugno 2002, in tema di mandato di arresto europeo, prevedeva che la legge di esecuzione dello Stato membro potesse escludere la consegna della persona condannata in base ad decisione in absentia quando «l’interessato non è stato citato personalmente né altrimenti informato della data e del luogo dell’udienza …» o non fosse comunque riconosciuto un diritto incondizionato ad essere sottoposto ad un nuovo processo.
Dal canto suo la legge 22 aprile 2005, n. 69 – adottata lo stesso giorno della conversione del decreto-legge 17 del 2005 – introduceva la disciplina del mandato di arresto europeo, esercitando la suddetta facoltà posto che prevedeva, tra le «Garanzie richieste allo Stato membro di emissione», che l’esecuzione del mandato di arresto europeo fondato su una decisione emessa in absentia, fosse subordinata, alla condizione che: «se il mandato d’arresto europeo è stato emesso ai fini dell’esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza comminate mediante decisione pronunciata in absentia, e se l’interessato non è stato citato personalmente ne’ altrimenti informato della data e del luogo dell’udienza che ha portato alla decisione pronunciata in absentia, la consegna è subordinata alla condizione che l’autorità giudiziaria emittente fornisca assicurazioni considerate sufficienti a garantire alle persone oggetto del mandato d’arresto europeo la possibilità di richiedere un nuovo processo nello Stato membro di emissione e di essere presenti al giudizio» (tale disposizione è stata poi rafforzata dal D.Lgs. 15 febbraio 2016, n. 31 che ha modificato il testo in «l’interessato è stato citato tempestivamente e personalmente, essendo informato inequivocabilmente della data e del luogo del processo che ha portato alla decisione pronunciata in absentia e del fatto che una tale decisione avrebbe potuto esser presa anche in absentia…»).
Quindi, la regola è che la consegna da parte dello Stato italiano è subordinata alla condizione che il soggetto da consegnare sia stato espressamente e personalmente informato del processo e rappresentato da un difensore o gli sia già stata data la facoltà del tutto incondizionata (o gli sarà data dopo la consegna) di un nuovo processo o giudizio di appello con pieno riesame del merito e diritto all’allegazione di nuove prove.
Tal che se ne faceva discendere come fosse agevole affermare che, anche sulla scorta di quanto testualmente indicava nel preambolo il decreto-legge citato, queste regole previste in materia di mandato di arresto europeo sono principi generali dell’ordinamento interno, regole minime di garanzia della partecipazione al processo.
Oltre a ciò, si notava come questo primo passo, verso la regola della necessaria dimostrazione della conoscenza del processo da parte dell’imputato, realizzato con la regola “restitutoria“, del nuovo grado di giudizio, avesse visto ancora un limite alle effettive possibilità di una restituzione nelle condizioni iniziali posto che, innanzitutto, al contumace, per il quale le notifiche erano state formalmente regolari, si consentiva la proposizione dell’appello e non la ripetizione del giudizio di primo grado, risultando superfluo spiegare come ciò rappresentasse un limite all’effettivo pieno articolarsi del diritto a difendersi tenuto conto altresì del fatto che non era stato adeguato l’art. 603, n. 4, cod. proc. pen., in tema di rinnovazione dell’istruttoria, per cui il giudizio di appello era solo cartolare salvo che il contumace provasse «….. di non essere potuto comparire per caso fortuito o forza maggiore o per non avere avuto conoscenza del decreto di citazione» (vi è da considerare che, però, varie decisioni di questa Corte hanno ritenuto che in caso di restituzione del termine «L’imputato condannato in contumacia […] ha diritto di ottenere in appello la rinnovazione della istruzione dibattimentale, trattandosi dell’unica interpretazione degli artt. 175 e 603 cod. proc. pen. conforme agli artt. 24 e 111 Cost., nonché all’art. 6 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo», per tutte si veda Sez. 2, n. 51041 del 9/11/2016).
Inoltre, la possibilità del giudizio di appello per il contumace che scopriva tardivamente di essere stato processato era precluso nel caso in cui l’impugnazione fosse stata proposta dal difensore di ufficio, con tutti i limiti della mancanza di intesa sulla linea difensiva con l’interessato; con la I. n. 479 del 1999 , difatti, era stato rimosso il limite per il difensore di proporre appello in favore del contumace fermo restando che tale ultima conseguenza, però, era stata risolta dalla dichiarazione di parziale illegittimità costituzionale dell’art. 175, comma 2, cod. proc. pen. di cui alla sentenza Corte Cost., n. 317 del 2009 con la quale era riconosciuto in favore del contumace “inconsapevole” il diritto ad una nuova impugnazione pur se sia già stata proposta dal difensore (si veda Sez. F, n. 3144 del 04/09/2014 – dep. 22/01/2015, che chiarisce come il riferimento è al difensore di ufficio, presumendosi che in caso di impugnazione del difensore di fiducia l’imputato abbia conoscenza del processo) rilevandosi al contempo come la ragione della decisione fosse proprio la necessità di rimuovere ogni impedimento al pieno diritto del contumace ad un nuovo processo tale da rendere recessivo in tale caso il principio di unicità dei mezzi di impugnazione.
In definitiva, la nuova disciplina della restituzione in termini introduceva: I) il diritto incondizionato alla restituzione nel termine per impugnare la sentenza resa in contumacia; II) la possibilità di negarla solo in caso di prova positiva della conoscenza “effettiva” del procedimento o del provvedimento.
Quindi si era in presenza di una presunzione relativa a favore del contumace che prevaleva comunque sul mero dato formale della regolarità della notifica superandosi, evidentemente, il principio della conoscenza legale in quanto tutt’al più le modalità di effettuazione della notifica potevano essere valutate, nel caso concreto, tra gli elementi fattuali utilizzabili per provare la reale conoscenza del procedimento/provvedimento o la volontà di sottrarsi alla stessa.
Restavano, comunque ferme le regole del processo in contumacia: le notifiche regolari consentivano l’inizio del processo, salva la facoltà del contumace, alle date condizioni, di impugnare la sentenza di condanna che, comunque, era in sé valida.
La Corte EDU, 25 novembre 2008, Cat Berro c. Italia, si pronunciava sul nuovo sistema di restituzione nel termine affermando che, con la riforma del 2005, l’ordinamento italiano aveva risolto i punti critici della precedente disposizione, risultando quindi idonea a tutelare le esigenze di difesa del soggetto condannato in contumacia: soprattutto, riteneva adeguata la possibilità data al contumace di ottenere un nuovo giudizio di merito “a prescindere“.
Prima di considerare la disciplina vigente, il Supremo Consesso riteneva necessario citare la Direttiva 2016/343 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 9 marzo 2016 «sul rafforzamento […] del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali» cui gli Stati membri dovevano conformarsi entro il 10 aprile 2018.
In particolare, questa direttiva prevede norme minime comuni affermando, nel preambolo, che il processo in assenza è consentito «qualora l’indagato o imputato sia stato informato in tempo utile del processo […] informato del processo dovrebbe essere inteso nel senso che l’interessato è citato personalmente o è informato ufficialmente con altri mezzi della data e del luogo fissati per il processo …» e, agli artt. 8 e 9, che «condizione per il processo in assenza» sia che «l’indagato o imputato sia stato informato in un tempo adeguato del processo e delle conseguenze della mancata comparizione » e che, se sia stato irreperibile e, se consentito dal singolo Stato membro, si sia proceduto in absentia, venga riconosciuto in modo incondizionato «il diritto a un nuovo processo o a un altro mezzo di ricorso giurisdizionale, che consenta di riesaminare il merito della causa, incluso l’esame di nuove prove».
Da questo quadro normativo sovranazionale si giungeva, quindi, alla riforma di cui alla legge 28 aprile 2014, n. 67 con la quale, in dichiarata continuità con la introduzione di maggiori garanzie di effettività della partecipazione al processo, si era giunti al definitivo superamento del processo in contumacia: in conformità al tradizionale principio dell’ordinamento interno che riconosce anche il pieno diritto di non partecipare al processo, era stato introdotto il processo in assenza “volontaria” dell’imputato.
Sul piano generale, osservavano le Sezioni Unite, il modello è semplice e chiaro: nel rispetto dei principi generali già introdotti nel 2005, l’imputato deve essere portato direttamente e personalmente a conoscenza della vocatio in ius restando in sua facoltà il non partecipare al processo e se, solo in tale caso, il processo si svolge in sua assenza, venendo rappresentato dal suo difensore, nel caso in cui, invece, non sia acquisita la certezza della conoscenza della chiamata in giudizio, il processo verrà sospeso ed è questo, per la Suprema Corte, il rilevante punto di diversità rispetto al processo in contumacia, che si svolgeva comunque, sulla sola base della notifica formalmente regolare, riconoscendosi all’imputato inconsapevole il solo diritto alla impugnazione.
Nel nuovo sistema della absentia, mutano di conseguenza anche i sistemi “riparatori” in quanto, poiché il presupposto è che si sia proceduto con la certezza sostanziale che l’imputato fosse a conoscenza del processo, tali sistemi non prevedono più l’automaticità del nuovo giudizio in favore del contumace con il meccanismo della restituzione in termini incondizionata ex art. 175, comma 2, cod. proc. pen. e, invece, richiedono l’accertamento di eventi straordinari che abbiano impedito la partecipazione al processo; in particolare, nel caso in cui sia dimostrata la impossibilità di presenziare al processo, che questo sia ancora in corso od esaurito, comunque di fatto riparte (quasi) dall’inizio con facoltà per la parte di ottenere la piena ripetizione di tutte le attività processuali rilevanti per la sua difesa (ovvero la raccolta delle prove e la fruizione del termine per la richiesta di riti alternativi).
Ad un sistema sostanzialmente lineare in cui in tanto il giudice procede in quanto abbia la prova che l’imputato che non si è presentato in udienza lo abbia fatto per sua libera scelta, conoscendo il contenuto delle accuse nonché la data ed il luogo del processo, osservava la Suprema Corte, si aggiungono, però, due ipotesi mirate ad impedire “false irreperibilità” e a “facilitare” per il giudice l’accertamento della conoscenza della vocatio in ius: a) si prevedono situazioni che, nell’ottica della semplificazione dell’accertamento della “consapevolezza” della assenza, consentono di ritenerla anche senza avviso personale a mani dell’imputato; b) si equipara alla conoscenza del contenuto del processo e del tempo e luogo di fissazione la volontaria sottrazione alla conoscenza del procedimento o dei suoi atti.
Ciò posto, facendosi presente come molte delle difficoltà di lettura di tali previsioni derivino non tanto e non solo dalla apparente genericità delle modalità di facilitare l’accertamento della volontarietà dell’assenza ma in larga parte anche dal presupposto da cui si parte nella interpretazione delle disposizioni poiché: 1) se si parte dal presupposto della discontinuità nel nuovo sistema di processo in absentia rispetto all’ ordinamento che valorizzava principalmente la regolarità formale delle notifiche, e quindi che si debba procedere soltanto nel caso di prova della piena consapevolezza dell’imputato, seguendo affermazioni sostanzialmente semplici della Corte EDU nelle decisioni che hanno riguardato il nostro ordinamento (si vedano, ad es., i punti 87 e 88 della sentenza Sejdovic), gli “indici di conoscenza” (nomina difensore di fiducia, elezione di domicilio, applicazione di misura cautelare) di cui si dirà hanno una data interpretazione; 2) se, invece, si parte dal ricercare una continuità rispetto alla tradizione del sistema legale delle notifiche (che, del resto, è restato pressoché immutato nel testo, tuttora si prevede che un atto possa essere affisso presso la casa comunale e portato a conoscenza “personale” con una raccomandata restata giacente presso un ufficio postale perché mai ritirata) ed al sistema della contumacia e della restituzione nel termine pre 2005, le stesse disposizioni che vorrebbero semplificare la individuazione di casi che offrono la prova indiretta della conoscenza effettiva diventano invece (o tornano ad essere) delle insuperabili presunzioni.
Ciò posto, si rendeva necessaria, a questo punto della disamina, l’analisi in dettaglio delle regole portanti del nuovo sistema.
Si evidenziava a tal proposito innanzitutto che vi è l’art. 420-bis cod. proc. pen., “Assenza dell’imputato”, il quale al primo comma prevede che si procede in assenza se vi è stata espressa rinuncia da parte dell’imputato e, al secondo comma, prevede il caso in cui si procede in assenza pur se non vi è stata alcuna manifestazione espressa da parte dell’imputato: «il giudice procede altresì in assenza dell’imputato che nel corso del procedimento abbia dichiarato o eletto domicilio ovvero sia stato arrestato, fermato o sottoposto a misura cautelare ovvero abbia nominato un difensore di fiducia, nonché nel caso in cui l’imputato assente abbia ricevuto personalmente la notificazione dell’avviso dell’udienza ovvero risulti comunque con certezza che lo stesso è a conoscenza del procedimento o si è volontariamente sottratto alla conoscenza del procedimento o di atti del medesimo».
Tale disposizione, a sua volta, va ricollegata all’art. 420-quater cod. proc. pen., “Sospensione del processo per assenza dell’imputato”, secondo il quale, se non ricorrono le condizioni dell’art. 420-bis cod. proc. pen., «…. il giudice rinvia l’udienza e dispone che l’avviso sia notificato all’imputato personalmente …» e che rappresenta, per la Suprema Corte, una previsione particolarmente utile a comprendere che tutte le citate condizioni per procedere in assenza ex articolo 420-bis cod. proc. pen. corrispondono ad una situazione di piena conoscenza personale (o comprovato rifiuto) della chiamata in giudizio.
Detto questo, si osservava che anche le altre regole in tema di mancata presenza e di ripristino delle condizioni iniziali in caso di accertamento tardivo della assenza inconsapevole sono basate sul presupposto che il giudice abbia proceduto avendo certezza che l’imputato fosse a conoscenza dell’udienza.
In particolare, lo stesso articolo 420-bis cod. proc. pen. al quarto comma prevede la possibilità che l’imputato compaia successivamente, oltre a contemplare il caso della scelta consapevole (di chi inizialmente aveva deciso di non partecipare ma, poi, ha deciso diversamente), ipotizza il caso in cui l’imputato fornisca «la prova che l’assenza è stata dovuta ad una incolpevole mancata conoscenza della celebrazione del processo» o comunque alla «assoluta impossibilità di comparire per caso fortuito, forza maggiore o altro legittimo impedimento» e, in una tale situazione, si attiva il meccanismo riparatorio (o, meglio, “ripristinatorio“) nel senso che: l’imputato può formulare richieste istruttorie nonché chiedere la rinnovazione delle prove già assunte e se, poi, (art. 489, comma 2, cod. proc. pen.) tali stesse ragioni gli avevano impedito la partecipazione all’udienza preliminare, è rimesso in termini per i riti alternativi.
Per la fase di appello, l’art. 604, comma 5-bis, prevede che «se vi è la prova che si sarebbe dovuto provvedere ai sensi dell’art. 420-ter o dell’art. 420-quater» la sentenza di primo grado è annullata con rinvio degli atti al giudice di primo grado. La regola è la medesima nel caso in cui l’imputato provi che l’assenza è stata dovuta ad una incolpevole mancata conoscenza della celebrazione del processo di primo grado.
Infine, vi è la regola “ripristinatoria” nel caso di in cui si sia proceduto in assenza sino alla condanna definitiva ovvero la rescissione del giudicato (oggi prevista dall’art. 629-bis cod. proc. pen., in origine disciplinata dall’art. 625-ter cod. proc. pen., con contenuto identico per la parte qui di interesse) dato che: il condannato in assenza può ottenere la rescissione del giudicato con trasmissione degli atti al giudice di primo grado «qualora provi che l’assenza stata dovuta ad una incolpevole mancata conoscenza della celebrazione del processo».
Con le nuove regole riparatorie, è invece venuta meno la disposizione dell’art. 175, comma 2, cod. proc. pen. che consentiva il diritto incondizionato all’impugnazione della sentenza emessa in contumacia.
Conclusa questa disamina di ordine normativo, gli Ermellini evidenziavano che, nella apparente linearità di tale sistema, si inseriscono quei particolari “indici di conoscenza” del processo che sono: 1) la dichiarazione od elezione di domicilio; 2) l’applicazione di misure precautelari che abbiano portato alla udienza di convalida o la sottoposizione a misura cautelare; 3) la nomina di un difensore di fiducia.
Ebbene, per la Suprema Corte, la loro interpretazione è particolarmente rilevante in quanto se rappresentano “presunzioni” nel senso più pieno, come si legge in alcune delle decisioni che hanno dato luogo al contrasto, si dovrebbe affermare che il sistema è regredito alla situazione ante 1988.
In particolare, nell’ottica della interpretazione di tali clausole quali presunzioni, per le Sezioni Unite, si dovrebbe affermare che, una volta divenuto impossibile la notifica al domicilio dichiarato od eletto, non reperito l’imputato che fu sottoposto a misura cautelare o precautelare, revocato il difensore di fiducia, valga appieno il sistema legale delle notifiche, anche se non sia dimostrata l’effettiva conoscenza da parte del destinatario.
Innanzitutto la regressione sarebbe evidente rispetto al sistema delineato nel 2005: da un lato, si procederebbe sol perché è stato dichiarato il domicilio in epoca iniziale del procedimento (l’argomento del ricorso del Procuratore generale di Genova è che sia sufficiente una elezione di domicilio presso il difensore di ufficio effettuata in un momento di immediatezza rispetto alla prima attività della polizia giudiziaria, con una generica prospettazione di un futuro procedimento per uno solo dei due più gravi reati poi oggetto del processo), dall’altro, un qualsiasi effetto riparatore potrebbe conseguire soltanto alla prova positiva, a carico del condannato, della “incolpevolezza” della ignoranza del processo e certamente non sarebbe sufficiente per l’imputato dire che non aveva mantenuto rapporti con il domiciliatario (e con il difensore di ufficio) senza nulla dire all’autorità procedente.
Con la applicazione delle disposizioni introdotte nel 2005, invece, il contumace avrebbe avuto diritto del tutto incondizionato ad impugnare la sentenza con la nuova valutazione di merito, salva la prova contraria, a carico dell’accusa, non semplicemente della sua scarsità di diligenza ma della sua “effettiva conoscenza” della vocatio in ius (come chiarisce la già citata sentenza Innaro delle SS.UU.).
La regressione, però, andrebbe addirittura oltre la riforma del 2005 in quanto l’attuale sistema, letto nei termini di (re)introdurre presunzioni di conoscenza del procedimento a fronte di notifiche regolari, non prevede neanche la possibilità che il giudice valuti «probabile che l’imputato non ne abbia avuto effettiva conoscenza» come prevedeva il codice del 1989 per correggere il sistema a fronte delle carenze rilevate dalla sentenza della Corte EDU Colozza rilevandosi al contempo che gli artt. 420-bis, comma 4, e 629-bis cod. proc. pen. non ipotizzano neanche un possibile errore nella dichiarazione di assenza, come se la stessa dovesse essere sempre fondata sulla piena certezza.
Se, quindi, si fosse in presenza di presunzioni, sarebbero da ritenere sul piano letterale assolute: la parte non potrebbe mai limitarsi a dimostrare che la notifica, formalmente regolare, non abbia avuto effetto ma dovrebbe dimostrare che un accadimento ulteriore gli abbia precluso la conoscenza.
Quanto detto già basta per il Supremo Consesso ad affermare che non è in alcun modo sostenibile che gli indici dell’art. 420-bis cod. proc. pen. siano forme di presunzioni reintrodotte surrettiziamente proprio con quella normativa che intendeva superare definitivamente il sistema del processo in contumacia e della estrema valorizzazione del sistema legale delle notifiche posto che, non solo, non vi è corrispondenza con il testo della disposizione, ma una tale interpretazione non potrebbe mai essere consentita perché in violazione delle disposizioni convenzionali quali interpretate dalla Corte Edu, ma non si tratta, come vedremo anche successivamente, neanche di situazioni che, in termini di automaticità, possano rappresentare casi di “volontaria sottrazione” alla conoscenza del processo.
Sgomberato il campo dalla ipotesi che si sia in presenza di un nuovo sistema di presunzioni legali, già solo per questo risultando non condivisibile il secondo degli orientamenti di giurisprudenza che hanno dato luogo al contrasto, la Cassazione riteneva, a questo punto della disamina, necessario valutare la corretta interpretazione delle disposizioni in esame ai fini della risposta al quesito mirato ad una situazione particolare e, soprattutto, risolvendo i temi interpretativi più ampi sottesi al contrasto denunciato.
Ebbene, veniva a tal riguardo fatto presente come dovesse essere compiuta in premessa una precisazione sulla irrilevanza della dicotomia procedimento/processo e della condizione di latitanza per i temi in questione nei seguenti termini: “In varie decisioni in materia, si considera come le norme in esame facciano riferimento alla conoscenza del “procedimento” e non del “processo”; si ipotizza, quindi, secondo la notoria differenza (tendenziale) tra i due termini, che sia chiaro che le norme facciano riferimento alla conoscenza anche di atti riferiti alla fase delle indagini (discutendo se prima o dopo l’iscrizione ex art. 335 cod. proc. pen.) quali ragioni per presumere la conoscenza del processo o comunque per attivare obblighi di diligenza nel “tenersi informato” sin dal primo contatto con la polizia giudiziaria. Un tale facile argomento letterale è, invece, irrilevante proprio nella data materia. Vi sono, infatti, chiare conferme testuali che anche in questo ambito la terminologia legislativa fa un uso generale e promiscuo del termine “procedimento” con il quale non intende affatto indicare espressamente una nozione più ampia di quella di “processo”. Lo si legge: – Nell’art. 175 previgente che, nel disciplinare il sistema riparatorio per il processo in contumacia, al terzo comma faceva riferimento a «ciascun grado del procedimento»; – nella disposizione transitoria (Legge 11 agosto 2014 n. 118) che, per disciplinare il passaggio tra processo in contumacia e processo in assenza, fa riferimento alla «definizione del procedimento» con dispositivo di primo grado e alla dichiarazione di contumacia nel «procedimento»; – nell’ art. 629 bis cod. proc. pen. che, in materia di rescissione del giudicato, utilizza il termine “processo” nel primo comma ma, nel secondo comma, fa riferimento a tale stessa fase utilizzando il termine “procedimento”. Proprio nella materia di interesse, quindi, l’argomento letterale risulta del tutto inconsistente. 10.1. Si è ipotizzato, poi, come indica l’ordinanza di rimessione e come si legge in alcuni precedenti decisioni, che lo stato di latitanza sia una condizione che comporta la piena consapevolezza di esistenza e contenuto del procedimento, sulla scorta della dizione normativa dell’art. 296 cod. proc. pen. («È latitante chi volontariamente si sottrae alla custodia …»). A parte ogni considerazione sull’effettività o sul carattere di fictio di tale conoscenza, va rammentato che proprio le decisioni della Corte EDU che hanno rilevato la inadeguatezza del diritto interno rispetto alle fonti sovranazionali intervenivano nel caso di soggetti non solo contumaci ma anche latitanti. Si veda, in particolare, la sentenza Corte EDU, settembre 2019, Rizzotto c. Italia, secondo cui «… la Corte rammenta che la rinuncia a difendersi non può essere dedotta dalla semplice qualità di «latitante», fondata su una presunzione priva di base fattuale sufficiente (Colozza c. Italia, 12 febbraio 1985, § 28, serie A n. 89; Sejdovic c. Italia [GC], n. 56581/00, § 87, CEDU 2006 II). Inoltre, prima che si possa considerare che un imputato abbia implicitamente rinunciato, con il proprio comportamento, a un diritto importante dal punto di vista dell’articolo 6 della Convenzione, è necessario stabilire che egli avrebbe potuto ragionevolmente prevedere le conseguenze del comportamento in questione». Il tema, quindi, dell’essere la condizione di latitanza dichiarata senza avere necessariamente una base fattuale che significhi certezza della pendenza del procedimento, va ritenuto risolto e non ci si tornerà. Va, ovviamente, considerato come ciò non escluda che nelle vicende concrete possano in vario modo rilevare le circostanze specifiche collegate alla latitanza (tipicamente, la nomina del difensore di fiducia)”.
Precisato ciò, i giudici di piazza Cavour mettevano in risalto il fatto che, sviluppando quindi i temi già accennati nella sentenza Innaro delle Sezioni Unite, andasse considerata la portata, ai fini della conoscenza del processo, della situazione “dell’imputato che nel corso del procedimento abbia dichiarato o eletto domicilio ovvero sia stato arrestato, fermato o sottoposto a misura cautelare ovvero abbia nominato un difensore di fiducia”.
La prima osservazione svolta dalle Sezioni Unite a tal proposito è che si tratta di situazioni che necessitano di caratteri di effettività rispetto alle modalità con cui sono realizzate facendosi riferimento ad aspetti quali la efficacia della scelta del domicilio, al consentire la misura cautelare l’effettiva conoscenza del procedimento, alla realizzazione del rapporto con il difensore di fiducia che accetti la nomina ossia le situazioni che, a ben vedere, per la Suprema Corte, risolvono il tema in questione di cui ne sono un chiaro indice: che la elezione domicilio debba essere “seria” e reale, dovendo essere apprezzabile un rapporto tra il soggetto ed il luogo presso il quale dovrebbero essere indirizzati gli atti, risulta dalla stessa scelta normativa, successiva alla vicenda in esame, che con la legge n. 103 del 2017 ha inserito nell’art. 162 cod. proc. pen. il già citato comma 4-bis: «l’elezione di domicilio presso il difensore d’ufficio non ha effetto se l’autorità che procede non riceve, unitamente alla dichiarazione di elezione, l’assenso del difensore domiciliatario»; la disposizione, quindi, ha sostanzialmente inteso ridurre al minimo un tipico ambito di possibili elezioni di domicilio “disattente” anche se ciò non è certo l’unica possibilità di indicazione di un domicilio di fatto inidoneo ma è evidente come si sia inteso disciplinare un caso tipico, frequente nell’ambito dei rapporti con stranieri più o meno precari presenti o in transito in Italia in cui, in modo magari frettoloso, si è voluto risolvere il problema della notifica degli atti successivi accettando una indicazione prima facie poco consapevole.
Ebbene, questa, per la Suprema, è proprio la situazione del processo in oggetto nella ricostruzione incontroversa dei giudici di merito e della parte ricorrente: è ragionevole ritenere che l’imputato, sbarcato in Italia da soli quattro giorni, non fosse particolarmente consapevole di quali fossero le conseguenze future della elezione di domicilio presso il difensore di ufficio con il quale, in quel momento, non aveva alcun contatto.
Pur tuttavia, sempre ad avviso delle Sezioni Unite, tale comma 4-bis, così peculiare nel disciplinare una delle possibili forme di elezione di un domicilio di fatto inidoneo, in realtà si presenta quale disposizione di natura interpretativa codificando una lettura delle regole previgenti già affermata dalla Corte Cost. 31/2017 che, chiamata a pronunciarsi sulla costituzionalità degli artt. 161 e 163 cod. proc. pen. «nella parte in cui non prevedono la notifica personale dell’atto introduttivo del giudizio penale, quantomeno nell’ipotesi di elezione di domicilio presso il difensore d’ufficio», in una situazione sovrapponibile a quella di I. affermava: “… i due imputati … identificati dalla polizia giudiziaria …. sono stati invitati a dichiarare o eleggere domicilio ai sensi dell’art. 161 cod. proc. pen. … hanno eletto il proprio domicilio presso il difensore di ufficio nominato dalla polizia giudiziaria procedente, stante il difetto della nomina di un difensore di fiducia.
Ebbene, l’esiguità degli elementi di fatto forniti impedisce, ad avviso delle Sezioni Unite, di valutare se, nel caso concreto, vi sia stata un’effettiva instaurazione di un rapporto professionale tra il legale domiciliatario e l’imputato e, quindi, se si siano o meno realizzate le condizioni da cui dedurre l’esistenza di un rapporto di informazione tra il legale, benché nominato di ufficio, e l’assistito».
La prova di un tale rapporto effettivo, quindi, era ritenuto necessario «… per verificare, nel caso di specie, se gli imputati fossero, effettivamente, venuti a conoscenza della vocatio in iudicium oppure, se nonostante «le formalmente regolari notifiche» presso il domiciliatario, gli imputati non avessero alcuna consapevolezza dell’inizio del processo a loro carico».
Oltre quel che rileva per dare risposta nel caso concreto del processo in questione, la certezza che deriva dalla condivisibile interpretazione della Corte Costituzionale è che gli indici di conoscenza dell’art. 420-bis, 2 comma, cod. proc. pen., genericamente indicati nella disposizione, vanno interpretati, ad avviso dei giudici di piazza Cavour, secondo loro funzione e veniva citato, a modo di esempio, l’ipotesi del soggetto arrestato in flagranza per un qualsiasi reato che riesca a fuggire subito dopo la cattura, prima ancora della formalizzazione dell’attività della polizia giudiziaria e, soprattutto, della presentazione al giudice dato che non è certo una situazione che consenta di ritenere la consapevolezza del processo, essendo, si ripete ancora, escluso che il processo in assenza sia una forma di sanzione.
Lo stesso ragionamento, sempre per la Suprema Corte, vale per la misura cautelare restata ineseguita per irreperibilità dell’indagato mentre l’interpretazione, invece, deve essere che la disposizione fa riferimento al caso in cui vi sia il regolare compimento del procedimento cautelare o precautelare, che prevede sempre il contatto con il giudice e la contestazione specifica degli addebiti atteso che, in caso contrario, si affermerebbe l’opposto di quanto ripetutamente detto dalla Corte EDU in tema di latitanza.
Orbene, ad avviso delle Sezioni Unite, anche la nomina del difensore di fiducia va letta nel senso di effettività dato che, perché abbia il rilievo della disposizione, sul presupposto del regolare rapporto informativo tra difensore ed assistito, va intesa quale nomina accettata.
Questi rilievi tecnici-giuridici, per la Corte di legittimità, già offrono la soluzione per la questione specifica nel senso che, se la seconda delle linee interpretative in questione non è affatto condivisibile perché basata innanzitutto sulla erronea affermazione che l’art. 420-bis cod. proc. pen. abbia reintrodotto presunzioni di conoscenza della vocatio in ius del tutto astratte da una conoscenza effettiva, va, invece, ritenuta corretta la prima delle linee interpretative considerando che, però, per giungere alle medesime conclusioni, valgono argomenti più radicali quanto alla effettività della peculiare elezione di domicilio presso il difensore di ufficio.
In particolare, è sufficiente fare riferimento a quanto detto dalla Corte Costituzionale nel senso che l’elezione di domicilio presso il difensore di ufficio può ritenersi efficace, al fine non solo della regolarità formale della notifica, ma per poter avere la certezza che l’atto così notificato giunga a conoscenza del destinatario solo quando vi sia un effettivo collegamento tra la persona ed il luogo eletto e se non vi è un tale collegamento, ricorre un’ipotesi di domicilio “inidoneo“.
In conformità, quindi, alle decisioni che hanno ritenuto inidonea una elezione di domicilio effettuata alle date condizioni, pur con le diverse argomentazioni che precedono, le Sezioni Unite affermavano il principio, applicabile alle situazioni precedenti all’introduzione della citata regola di cui all’art. 162, comma 4-bis, cod. proc. pen. ex legge n. 103 del 2017, secondo cui: “La sola elezione di domicilio presso il difensore di ufficio, da parte dell’indagato, non è di per sé presupposto idoneo per la dichiarazione di assenza di cui all’articolo 420-bis cod. proc. pen., dovendo il giudice in ogni caso verificare, anche in presenza di altri elementi, che vi sia stata un’effettiva instaurazione di un rapporto professionale tra il legale domiciliatario e l’indagato, tale da fargli ritenere con certezza che quest’ultimo abbia conoscenza del procedimento ovvero si sia sottratto volontariamente alla conoscenza del procedimento stesso“.
Una volta formulato questo arresto giurisprudenziale, la Cassazione stimava opportuno ampliare la valutazione sin qui fatta alla complessiva portata delle ipotesi in cui l’art. 420-bis cod. proc. pen. per comprendere in che termini la realizzazione delle date situazioni, in condizioni di effettività, consenta la dichiarazione di assenza anche se non vi sia stata notifica personale della vocatio in ius all’imputato ritenendo prima di tutto necessario considerare il contesto complessivo della disposizione nella seguente maniera: “L’art. 420-bis, comma 2, cod. proc. pen. indica i casi in cui, sul presupposto ovviamente della regolarità delle notifiche, in giudice in fase di costituzione delle parti, verificati gli avvisi, possa procedere al processo ritenendo che vi sia assenza “volontaria”. Si tralascia, per ora, il caso della “sottrazione alla conoscenza” di cui si dirà alla fine. Il fondamento del sistema è che la parte sia personalmente informata del contenuto dell’accusa e del giorno e luogo della udienza e, quindi, in necessaria applicazione dei principi sopra richiamati, il processo in assenza è ammesso solo quando sia raggiunta la certezza della conoscenza da parte dell’imputato. Questa, del resto, è la ragione per la quale il sistema, introducendo la regola di certezza della conoscenza del processo, ha escluso il diritto “incondizionato” al nuovo giudizio di merito in favore del soggetto giudicato in assenza. Si noti, peraltro, che l’art. 420-quater cod. proc. pen. prevede che, quando il giudice non abbia raggiunto la certezza della conoscenza della chiamata in giudizio da parte dell’imputato, deve disporre la notifica «personalmente ad opera della polizia giudiziaria». La disposizione, quindi, dimostra come il sistema sia incentrato esclusivamente sulla effettività di tale conoscenza, senza alcuna presunzione”.
Ebbene, sulla base di questi presupposti, la Corte di Cassazione osservava come fosse comprensibile che l’art. 420-bis, comma 2, cod. proc. pen., nell’ottica di una comprensibile “facilitazione” del compito del giudice, ha tipizzato dei casi in cui, ai fini della certezza della conoscenza della vocatio in ius, può essere valorizzata una notifica che non sia stata effettuata a mani proprie dell’imputato.
Letto nel contesto della disposizione, quindi, l’aver eletto domicilio, l’essere stato sottoposto a misura cautelare, aver nominato il difensore di fiducia, sono situazioni che consentono di equiparare la notifica regolare ma non a mani proprie alla effettiva conoscenza del processo non trattandosi, quindi, di una presunzione che consenta di ritenere conosciuto il processo e non più necessaria la prova della notifica ma di casi in cui, nelle date condizioni, è ragionevole ritenere che l’imputato abbia effettivamente conosciuto l’atto regolarmente notificato secondo le date modalità.
Alcun effetto, invece, conseguirà ad una impossibilità di regolare notifica nel senso che, ove risulti sloggiato al domicilio eletto, ciò non consentirà di procedere in assenza sulla scorta della notifica quale soggetto irreperibile o presso la casa comunale; in altri termini, risultare irreperibile non consentirà che la pur valida notifica ai sensi dell’art. 161, comma 4, cod. proc. pen. prevalga sul dato sostanziale della non conoscenza così come aver nominato un difensore di fiducia che ha poi rinunciato al mandato o che sia stato revocato parimenti non consentirà di procedere senza certezza della conoscenza.
Questa, quindi, così chiarita, per la Corte, è la ben più semplice portata delle condizioni dell’art. 420-bis cod. proc. pen.: l’attività dell’autorità giudiziaria è facilitata perché (esclusivamente) alle date condizioni non è ritenuta necessaria la notifica personale ma potrà essere sufficiente quella a mani della persona convivente etc.
Facendo riferimento alla disciplina delle notifiche, in base all’art. 420-bis cod. proc. pen, al fine del processo in assenza, al di fuori delle ipotesi in questione, l’unica forma di notifica utile a consentire di procedere è, per le Sezioni Unite, quella a mani proprie.
Ad ogni modo, che la notifica sia effettuata ritualmente, ma in altro modo, non rileva: conta il risultato sostanziale mentre, se, invece, ricorrono le ipotesi in questione, diverranno utili anche quelle modalità di notifica non a mani proprie, adeguate alla effettiva conoscenza, quali previste dall’art. 157 cod. proc. pen. sino al comma 7, nonché le notifiche presso un domicilio eletto “effettivo” nel senso già detto, o presso il difensore di fiducia secondo le varie disposizioni (ivi compresa, di norma, la notifica presso il difensore di fiducia del latitante).
In definitiva, la portata della disposizione in questione rende utilizzabili ai propri fini la notifica effettuata non a mani proprie che risulti “possibile“.
Veniva infine chiarito che, in base alle espresse disposizioni di legge ed alla interpretazione delle Sezioni Unite, nel sistema delle notifiche si distingue chiaramente tra una notifica “possibile” ovvero quella effettuata in modo da rendere effettivamente conoscibile l’atto alla parte (quale la notifica a mezzo di persona convivente) e la notifica che tale caratteristica non ha perché, anche se formalmente corretta, non porta l’atto ad effettiva conoscenza limitandosi ad una fictio.
A tal proposito veniva presa in considerazione la previsione dell’art. 161, comma 4, cod. proc. pen. secondo cui «se la notificazione nel domicilio determinato a norma del comma 2 diviene impossibile, le notificazioni sono eseguite mediante consegna difensore» fermo restando però che, in realtà, se si considera l’art. 157, comma 8, cod. proc. pen. una rituale notifica con valore “legale” sarebbe sempre possibile, in quanto, in caso di impossibilità, per le varie possibili ragioni, della notifica presso il domicilio, è sempre ammessa la notifica mediante il deposito dell’atto presso la casa comunale con un successivo avviso a mezzo raccomandata che sarà valido anche se il plico resti giacente e non ritirato presso l’ufficio postale.
Del resto, sempre le Sezioni Unite, con due decisioni, avevano già chiarito che la “impossibilità” della notifica dell’art. 161, comma 4, cod. proc. pen., sussiste quando non sia possibile una notifica effettiva presso il domicilio, anche se solo per la precaria assenza dell’interessato: a) Sez. U, Sentenza n. 58120 del 2017, «Occorre però meglio definire il presupposto che integra una “impossibilità” della notifica, a norma dell’art. 161, comma 4, cod. proc. pen. in linea con quanto precisato da Sez. U, n. 28451 del 28/04/2011, deve ritenersi al riguardo che sia sufficiente l’attestazione dell’ufficiale giudiziario di non aver reperito l’imputato nel domicilio dichiarato – o il domiciliatario nel domicilio eletto – non occorrendo alcuna indagine che attesti la irreperibilità dell’imputato, doverosa solo qualora non sia stato possibile eseguire la notificazione nei modi previsti dall’art. 157, come si desume dall’incipit dell’art. 159 cod. proc. pen.; sicché anche la temporanea assenza dell’imputato o la non agevole individuazione dello specifico luogo indicato come domicilio abilita l’ufficio preposto alla spedizione dell’atto da notificare a ricorrere alle forme alternative previste dall’art. 161, comma 4, cod. proc. pen.»; b) Sez. U, n. 28451 del 28/04/2011: «… opportuno precisare sul punto che l’art. 163 cod. proc. pen., secondo il quale “Per le notificazioni eseguite nel domicilio dichiarato o eletto a norma degli artt. 161 e 162 si osservano, in quanto applicabili, le disposizioni dell’art. 157”, per la clausola di salvaguardia in esso contenuta, attiene alla individuazione dei soggetti potenziali consegnatari dell’atto e non al luogo o alle modalità della notificazione.
Infatti, le modalità di esecuzione della notifica stabilite dall’art. 157, comma 8, cod. proc. pen., per il testuale riferimento della norma, sono consequenziali al verificarsi delle situazioni ipotizzate dal comma 7 del medesimo articolo (mancanza, inidoneità, rifiuto di ricevere l’atto con conseguente obbligo di effettuare nuove ricerche dell’imputato); situazioni di per sé preclusive della possibilità di notificazione presso il domicilio dichiarato o eletto ovvero presso il domiciliatario e idonee ad individuare l’ipotesi prevista dall’art.161, comma 4, cod. proc. pen..
L’impossibilità di procedere alla notifica nelle mani della persona designata quale domiciliatario, per il rifiuto di ricevere l’atto ovvero per il mancato reperimento del domiciliatario o dell’imputato stesso nel luogo di dichiarazione o elezione di domicilio o di altre persone idonee, integra l’ipotesi della impossibilità della notificazione ai sensi dell’art. 161, comma 4, cod. proc. pen. sicché non è consentito, in tali casi, procedere con le forme previste dall’art. 157, comma 8, cod. proc. pen. Pertanto, nell’ipotesi in cui la notificazione presso il domicilio dichiarato o eletto risulti impossibile per una delle cause previste dall’art. 157, comma 7, cod. proc. pen., la notificazione deve essere eseguita ai sensi dell’art. 161, comma 4, stesso codice, mentre è preclusa la possibilità di procedere con le forme previste dall’art.157, comma 8, cod. proc. pen.» e questo conferma, per la Suprema Corte, che l’art. 420-bis cod. proc. pen. estende la possibilità di procedere in absentia ai casi in cui, ricorrendo le date situazioni, tali da giustificare una esigibile diligenza dell’interessato, la notifica sia stata “possibile” a mani di soggetti diversi dall’interessato posto che, in questi soli casi, si “tipizza” la certezza di conoscenza della chiamata in giudizio per il dato giorno.
Oltre a ciò, veniva altresì rilevato come tale interpretazione abbia un chiaro riferimento letterale in quanto in nessuna parte delle disposizioni sulla absentía si legge di “presunzioni“.
Difatti, la norma ipotizza che la parte abbia avuto avviso al domicilio eletto etc, ma non afferma che se questo non sia possibile subentri la notifica quale irreperibile etc. e, con una tale interpretazione, fedele al dato testuale ed alla ratio, il sistema risulta pienamente conforme ai principi e alla evoluzione di quanto già era stato raggiunto nel 2005: si procede solo a fronte della certezza della conoscenza del processo (o della volontaria sottrazione alla conoscenza).
A ciò vi corrisponde anche la disciplina della rescissione del giudicato che (pur ragionevolmente non potendo certo escludersi che venga dedotto l’errore di valutazione del giudice nel considerare la parte a conoscenza della chiamata in giudizio) fa chiaramente riferimento non al superamento di una presunzione ma alla indicazione di vicende concrete, non note al giudice, che hanno impedito la partecipazione al processo.
In chiusura, si rammentava come la disposizione, per la difesa dai “finti inconsapevoli“, valorizzi, quale unica ipotesi in cui possa procedersi pur se la parte ignori la vocatio in ius, la volontaria sottrazione «alla conoscenza del procedimento o di atti del procedimento» dovendosi trattare evidentemente di condotte positive rispetto alle quali si rende necessario un accertamento in fatto, anche quanto al coefficiente psicologico della condotta.
Ciò posto, l’art. 420-bis cod. proc. pen., però, non “tipizza” e non consente di tipizzare alcuna condotta particolare che possa ritenersi tale; quindi non possono farsi rientrare automaticamente in tale ambito le situazioni comuni quali la irreperibilità, il domicilio eletto etc. e certamente la manifesta mancanza diligenza informativa, la indicazione di un domicilio falso, pur se apparentemente valido ed altro, per la Suprema Corte, potranno essere circostanze valutabili nei casi concreti ma non possono essere di per sé determinanti su di un piano solo astratto, per potere affermare la ricorrenza della “volontaria sottrazione“: se difatti si esaspera il concetto di “mancata diligenza” sino a trasformarla automaticamente in una conclamata volontà di evitare la conoscenza degli atti, ritenendola sufficiente per fare a meno della prova della consapevolezza della vocatio in ius per procedere in assenza, si farebbe una mera operazione di cambio nome e si tornerebbe alle vecchie presunzioni il che ovviamente è un’operazione non consentita.
Conclusioni
La decisione in questione è assai interessante in quanto, componendosi un contrasto giurisprudenziale, le Sezioni Unite giungono a postulare il principio di diritto secondo il quale: “La sola elezione di domicilio presso il difensore di ufficio, da parte dell’indagato, non è di per sé presupposto idoneo per la dichiarazione di assenza di cui all’articolo 420-bis cod. proc. pen., dovendo il giudice in ogni caso verificare, anche in presenza di altri elementi, che vi sia stata un’effettiva instaurazione di un rapporto professionale tra il legale domiciliatario e l’indagato, tale da fargli ritenere con certezza che quest’ultimo abbia conoscenza del procedimento ovvero si sia sottratto volontariamente alla conoscenza del procedimento stesso”.
Dunque, per effetto di questa pronuncia, la dichiarazione di assenza di cui all’articolo 420-bis, c. 1, cod. proc. pen. (“Se l’imputato, libero o detenuto, non è presente all’udienza e, anche se impedito, ha espressamente rinunciato ad assistervi, il giudice procede in sua assenza”), non richiede più la sola elezione di domicilio presso il difensore di ufficio essendo necessario un quid pluris ossia che, come appena visto, il giudice verifichi, anche in presenza di altri elementi, che vi sia stata un’effettiva instaurazione di un rapporto professionale tra il legale domiciliatario e l’indagato tale da fargli ritenere con certezza che quest’ultimo abbia conoscenza del procedimento ovvero si sia sottratto volontariamente alla conoscenza del procedimento stesso.
Pertanto, la dichiarazione di assenza in questione richiede, alla luce di questo arresto giurisprudenziale, che il giudice, per procedere alla dichiarazione di assenza ai sensi della norma procedurale appena citata, debba compiere tale verifica non essendo sufficiente la mera elezione di domicilio presso il difensore d’ufficio.
Il giudizio in ordine a quanto statuito in siffatto provvedimento, proprio perché fa chiarezza su tale importante tematica procedurale, dunque, non può che essere positivo.
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