Il fatto
Con ordinanza del 13 marzo 2017 (r.o. n. 109 del 2017), il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Lecce sollevava, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 656, comma 5, del codice di procedura penale, «nella parte in cui non prevede che l’ordine di sospensione della pena debba essere emesso anche nei casi di pena non superiore a quattro anni di detenzione».
Nel caso di specie, il giudice a quo era investito, in qualità di giudice dell’esecuzione, della domanda di sospensione di un ordine di esecuzione della pena detentiva di tre anni, undici mesi e diciassette giorni, che il pubblico ministero aveva emesso in base all’art. 656, comma 1, cod. proc. pen., senza sospenderlo, perché la pena da scontare eccedeva il limite di tre anni fissato dal quinto comma dello stesso articolo.
Dal momento che questo comma, come è noto, impone la sospensione dell’ordine di esecuzione in modo da consentire al condannato di presentare istanza per ottenere una delle misure alternative alla detenzione previste dagli artt. 47, 47-ter, e 50, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), e dall’art. 94 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), il condannato aveva quindi chiesto al giudice a quo di dichiarare inefficace l’ordine di esecuzione, sostenendo che esso avrebbe dovuto essere sospeso nonostante la pena da espiare eccedesse il limite triennale, perché l’art. 47, comma 3-bis, della legge n. 354 del 1975, introdotto dall’art. 3, comma 1, lettera c), del decreto-legge 23 dicembre 2013, n. 146 (Misure urgenti in tema di tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e di riduzione controllata della popolazione carceraria), convertito, con modificazioni, in legge 21 febbraio 2014, n. 10, consente una particolare forma di affidamento in prova quando la pena detentiva da eseguire non è superiore a quattro anni osservando a tal proposito che la sospensione dell’ordine di esecuzione è finalizzata ad ottenere l’applicazione della misura alternativa prima dell’ingresso in carcere; poiché l’art. 47, comma 3-bis, della legge n. 354 del 1975 permette l’affidamento in prova anche quando la pena da espiare non è superiore a quattro anni, a suo avviso il limite cui subordinare la sospensione dell’ordine di esecuzione avrebbe dovuto armonizzarsi con tale tetto e ritenersi fissato anch’esso in quattro anni, anziché in tre come prevede la lettera della disposizione censurata.
Le ragioni addotte a sostegno dell’ordinanza di rimessione
Il giudice a quo, dal canto suo, escludeva di poter interpretare la disposizione nel senso auspicato dal ricorrente, dato l’univoco tenore letterale della stessa ma dubitava della sua legittimità costituzionale, nella parte in cui la sospensione dell’esecuzione continua a essere prevista quando la pena detentiva da espiare non è superiore a tre anni, anziché a quattro.
In particolare, il giudice rimettente osservava che l’accoglimento delle questioni avrebbe comportato l’inefficacia dell’ordine di esecuzione, poiché il condannato, che non è soggetto a una misura cautelare di carattere custodiale, doveva scontare una pena superiore a tre anni di detenzione, ma non a quattro, e la condanna si riferiva al reato punito dall’art. 73, comma 1, del d.P.R. n. 309 del 1990, ovvero a un reato che non rientra nel catalogo di quelli per i quali l’art. 656, comma 9, cod. proc. pen. esclude la sospensione di tale ordine.
Inoltre, per quanto attiene al punto di non manifesta infondatezza, sempre il giudice rimettente rilevava che la sospensione dell’ordine di esecuzione fosse «strutturalmente e funzionalmente» collegata alla possibilità di ottenere l’affidamento in prova al servizio sociale, misura di cui condivide lo scopo di «deflazione carceraria» e di prevenzione speciale, sulla base della comune «presunzione di una ridotta pericolosità del condannato» e per questa ragione che il limite di tre anni stabilito dall’art. 656, comma 5, censurato corrisponde a quello fissato dall’art. 47, comma 1, della legge n. 354 del 1975 ai fini dell’affidamento in prova.
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Osservava altresì il giudice a quo come il nuovo art. 47, comma 3-bis, della legge n. 354 del 1975 avesse introdotto un’ulteriore ipotesi di affidamento in prova, quello cosiddetto allargato, che può essere concesso «al condannato che deve espiare una pena detentiva, anche residua, non superiore a quattro anni di detenzione, quando abbia serbato, quantomeno nell’anno precedente alla presentazione della richiesta, trascorso in espiazione di pena, in esecuzione di una misura cautelare ovvero in libertà, un comportamento tale da consentire» un giudizio positivo circa la rieducazione del condannato e la prevenzione dal pericolo che commetta altri reati.
Posto ciò, il rimettente riteneva altresì come l’affidamento allargato avesse la medesima ratio dell’affidamento già previsto dall’art. 47, comma 1, della legge n. 354 del 1975, dal quale si distinguerebbe solo perché il periodo di osservazione del comportamento del condannato è di almeno un anno, anziché di almeno un mese come è invece previsto dall’art. 47, comma 2, della legge n. 354 del 1975.
Orbene, alla luce di ciò, si considerava da parte di questo giudice che l’omesso adeguamento del limite quantitativo di pena previsto dalla norma censurata a quello ora indicato ai fini dell’affidamento in prova allargato determinasse un «disallineamento sistematico», frutto di un «mancato raccordo tra norme», e dunque lesivo anzitutto dell’art. 3 Cost., dato che discrimina ingiustificatamente coloro che possono essere ammessi alla misura alternativa perché debbono espiare una pena detentiva non superiore a quattro anni, da coloro che, potendo godere dell’affidamento in prova relativo a una pena detentiva non superiore a tre anni, ottengono la sospensione automatica dell’ordine di esecuzione.
Inoltre la disposizione censurata, comportando l’ingresso in carcere di chi può godere dell’affidamento in prova allargato, sempre ad avviso di questi giudice, sarebbe in contrasto con la finalità rieducativa della pena prevista dall’art. 27, terzo comma, Cost.
Le argomentazioni sostenute dalle parti
Per quanto attiene alle parti, l’Avvocatura dello Stato contestava che l’affidamento in prova allargato fosse equiparabile per ratio all’affidamento regolato dall’art. 47, comma 1, della legge n. 354 del 1975, posto che quest’ultimo previene l’ingresso in carcere, mentre il primo avrebbe una finalità meramente deflattiva del sovraffollamento carcerario.
Il legislatore, secondo l’opinione dell’Avvocatura, difatti, avrebbe introdotto una misura alternativa alla detenzione pensata per chi è già detenuto, con la conseguenza che sarebbe stato incongruo elevare parallelamente il limite della pena detentiva prevista ai fini della sospensione dell’ordine di esecuzione.
Secondo l’Avvocatura dello Stato sarebbe dunque «più che ragionevole ritenere che a fronte di una maggiore misura della pena, sia necessario un più attento ed approfondito esame della personalità del reo», senza escludere l’ingresso in carcere anche perché, in tal guisa, la detenzione sarebbe limitata al tempo strettamente necessario, in forme compatibili con la funzione rieducativa della pena.
Il ricorrente, dal canto suo, una volta costituitosi in giudizio nel processo principale, chiedeva l’accoglimento delle questioni.
La parte privata auspicava in particolare un’interpretazione adeguatrice della disposizione censurata, pur dando atto della difficoltà di addivenirvi, e reputando che altrimenti la questione avrebbe dovuto essere accolta non ritenendosi possibile giustificare la norma censurata con l’argomento che l’affidamento in prova allargato avesse lo scopo di diminuire la popolazione carceraria già presente, e non anche quello di prevenire ulteriori ingressi in carcere, dato che la misura alternativa era espressamente rivolta anche a chi si trova in libertà.
Le valutazioni giuridiche formulate dalla Consulta
La Corte costituzionale riteneva la questione di legittimità costituzionale dell’art. 656, comma 5, cod. proc. pen., sollevata in riferimento all’art. 3 Cost., fondata per le seguenti ragioni.
Prima di tutto il Giudice delle leggi rilevava come la sospensione automatica dell’ordine di esecuzione fosse conseguente alla sentenza n. 569 del 1989, con cui la Consulta estese a chi si trovava in stato di libertà la possibilità di accedere all’affidamento in prova, riservato in precedenza alla sola popolazione carceraria.
Rilevava inoltre la Consulta che il legislatore allora si avvide che sarebbe stato in linea di principio incongruo disporre temporaneamente la carcerazione di chi avrebbe poi potuto godere di una misura specificamente pensata per favorire la risocializzazione fuori dalle mura del carcere e giunse a perseguire al massimo grado l’obiettivo di risparmiare il carcere al condannato, sostituendo, con la legge 27 maggio 1998, n. 165 (Modifiche all’articolo 656 del codice di procedura penale ed alla legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni), l’art. 656 cod. proc. pen. e introducendo l’automatica sospensione dell’esecuzione della pena detentiva, entro un limite pari a quello previsto per godere della misura alternativa.
Il sostanziale parallelismo tra chi ristretto in carcere e chi in libertà, in riferimento alla possibilità di accedere ad una misura alternativa alla detenzione, evidenziava sempre la Corte nella pronuncia in commento, trovava conferma nella trama legislativa posto che, all’incremento della soglia di accesso alla misura alternativa, corrispondeva una pari elevazione del limite stabilito ai fini della sospensione come si evince dall’art. 4-undevicies del decreto-legge 30 dicembre 2005, n. 272 (Misure urgenti per garantire la sicurezza ed i finanziamenti per le prossime Olimpiadi invernali, nonché la funzionalità dell’Amministrazione dell’interno. Disposizioni per favorire il recupero di tossicodipendenti recidivi e modifiche al testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309), convertito, con modificazioni, in legge 21 febbraio 2006, n. 49, il quale aveva alzato a sei anni questo limite, in collegamento con l’art. 4-undecies del medesimo testo normativo, che aveva aumentato in uguale misura l’entità della pena detentiva da espiare in affidamento in prova per l’alcooldipendente o il tossicodipendente sottoposti a un programma di recupero e il decreto-legge 1° luglio 2013, n. 78 (Disposizioni urgenti in materia di esecuzione della pena), convertito, con modificazioni, in legge 9 agosto 2013, n. 94, che aveva portato a quattro anni il termine valido per la sospensione dell’ordine di esecuzione, ai fini della concessione della detenzione domiciliare, allo scopo di renderlo equivalente al nuovo termine previsto per godere della misura dell’art. 47-ter della legge n. 354 del 1975.
Orbene, la Consulta, valutando detti passaggi normativi quali interventi correttivi conseguenti al carattere complementare che l’art. 656, comma 5, cod. proc. pen. riveste rispetto alla scelta legislativa di aprire la via alla misura alternativa, evidenziava al contempo che la natura servente dell’istituto oggetto del dubbio di legittimità costituzionale (in quanto appunto prodromico all’accessibilità di una misura alternativa alla detenzione ndr.) lo esponeva a profili di incoerenza normativa ogni qual volta venga spezzato il filo che lega la sospensione dell’ordine di esecuzione alla possibilità riconosciuta al condannato di sottoporsi ad un percorso risocializzante che non includa il trattamento carcerario.
Dopo questa premessa giuridica, la Consulta giungeva dunque ad analizzare il caso sottoposto al suo vaglio di legittimità costituzionale osservando che, all’introduzione dell’affidamento in prova per pene da espiare fino a quattro anni di detenzione non aveva corrisposto un’analoga modificazione del termine indicato dalla disposizione censurata, non era stata ancora esercitata la delega legislativa conferita con l’art. 1, comma 85, lettera c), della legge 23 giugno 2017, n. 103 (Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario), il quale prevede che il limite di pena che impone la sospensione dell’ordine di esecuzione sia fissato, in ogni caso, in quattro anni.
Evidenziato tale vulnus normativo, o meglio attuativo da parte del legislatore delegato, i giudici di legittimità costituzionale delimitavano il loro campo di indagine della vicenda in esame nei seguenti termini: “Oggetto dell’odierno scrutinio di legittimità costituzionale è l’attuale incongruità del disegno legislativo. Bisogna perciò accertarsi se essa possa trovare una non irragionevole giustificazione per allontanarsi, in questo peculiare caso, dal parallelismo di cui si è detto”.
Individuato il petitum da doversi decidere, si evidenziava il tendenziale collegamento della sospensione dell’ordine di esecuzione con i casi di accesso alle misure alternative che se costituisce un punto di equilibrio ottimale, appartiene pur sempre alla discrezionalità legislativa selezionare ipotesi di cesura, quando ragioni ostative appaiano prevalenti fermo restando che, per un verso, è proprio la dimensione normativa ancillare della sospensione rispetto alle finalità delle misure alternative che rende particolarmente stretto il controllo di legittimità costituzionale riservato a dette ipotesi, per altro verso resta però nondimeno possibile che peculiari situazioni suggeriscano al legislatore di imporre un periodo di carcerazione in attesa che l’organo competente decida sull’istanza di affidamento in prova quale, ad esempio, potrebbe dipendere dalla particolare pericolosità di cui, secondo il legislatore, sono indice i reati in questione, alla quale si intende rispondere inizialmente con il carcere, secondo la ratio cui si ispira l’art. 656, comma 9, lettera a), cod. proc. pen. nell’indicare specifici delitti per i quali è esclusa la sospensione dell’ordine di esecuzione ovvero l’ipotesi in cui il legislatore potrebbe anche prendere atto che l’accesso alla misura alternativa è soggetto a condizioni così stringenti da rendere questa eventualità meramente residuale, sicché appare tollerabile che venga incarcerato chi all’esito del giudizio relativo alla misura alternativa potrà con estrema difficoltà sottrarsi alla detenzione: è quanto (oltre che per la gravità dei reati) accade per i delitti elencati dall’art. 4-bis della legge n. 354 del 1975, che l’art. 656, comma 9, lettera a), cod. proc. pen. esclude dal beneficio della sospensione dell’ordine di esecuzione.
Il punto quindi da cui partire, a detta della Corte, per comprendere se la questione di legittimità costituzionale in oggetto sia fondata o meno, è quella di appurare l’esistenza di indicatori che nella visione del legislatore dovrebbero opporsi all’esigenza della coerenza sistematica, fino a poter prevalere su di essa, e se questi indicatori siano adeguati o meno.
In altri termini, la Consulta si interroga se una differente considerazione dell’entità della pena da doversi eseguire, per negare o concedere una misura alternativa alla detenzione, sia giustificata da adeguati indici che legittimino una deroga rispetto al sistema normativo, concepito dal legislatore in materia di accesso alle misure alternative alla detenzione, considerato sistematico, e quindi nel suo complesso.
La risposta a tale articolata tematica, da parte della Corte costituzionale, è negativa.
Infatti, secondo la Corte, nel caso di specie, la rottura del parallelismo, imputabile al mancato adeguamento della disposizione censurata, appare di particolare gravità, perché è proprio il modo con cui la legge ha configurato l’affidamento in prova allargato che reclama, quale corollario, la corrispondente sospensione dell’ordine di esecuzione e, al riguardo (rileva sempre la Corte): 1) non ha pregio l’argomento dell’Avvocatura dello Stato secondo cui l’affidamento allargato sarebbe precipuamente indirizzato a chi è già detenuto, al fine di ridurre la popolazione carceraria per ottemperare a quanto deciso dalla Corte europea dei diritti dell’uomo con la sentenza 8 gennaio 2013, Torreggiani e altri contro Italia atteso che in senso contrario è sufficiente osservare che l’art. 47, comma 3-bis, della legge n. 354 del 1975 si rivolge espressamente anche ai condannati che si trovano in stato di libertà, senza alcuna distinzione di rilevanza rispetto ai detenuti, come è riconosciuto anche dall’Avvocatura dello Stato e si desume dalla destinazione dell’affidamento in prova allargato «al condannato che deve espiare una pena, anche residua, non superiore a quattro anni di detenzione»; 2) l’inciso «anche residua» dimostra che la misura è destinata pure a chi non deve espiare una pena residua e cioè a chi non è detenuto, e per questa ragione che la disposizione in questione, ai fini dell’applicazione della misura, richiede una valutazione del comportamento del condannato «quantomeno nell’anno precedente alla presentazione della richiesta, trascorso in espiazione di pena, in esecuzione di una misura cautelare ovvero in libertà»; 3) se è vero che in linea di principio non è fatto divieto al legislatore di dare vita a forme alternative alla detenzione riservate ai soli detenuti, è altrettanto vero che nel caso dell’affidamento allargato la legge non si è valsa di tale spazio di discrezionalità perché ha esplicitamente optato per l’equiparazione tra detenuti e liberi ai fini dell’accesso alla misura alternativa anche perché si è trattato di una scelta del tutto coerente con lo scopo di deflazionare le carceri, visto che esso si persegue non solo liberando chi le occupa ma anche evitando che vi faccia ingresso chi è libero.
Oltre ciò, la Consulta evidenziava un ulteriore profilo di criticità costituzionale, sotto il profilo di una irragionevolezza della normativa in oggetto, seppur non espressamente definita tale.
La Corte, difatti, osservava che, pur essendo espressamente prevista la concessione dell’affidamento allargato al condannato in stato di libertà tuttavia, se l’ordine di esecuzione di una pena detentiva tra tre anni e un giorno e quattro anni non potesse essere sospeso, si tratterebbe di una previsione in concreto irrealizzabile, per quanto normativamente stabilita e voluta atteso che l’esecuzione dell’ordine di carcerazione, avvenuta senza aver dato al condannato il tempo di chiedere l’affidamento in prova allargato e comunque senza attendere una decisione al riguardo, renderebbe impossibile la concessione della misura alternativa prima dell’ingresso in carcere.
Quanto appena esposto, evidenziano sempre questi giudici, è appunto la situazione normativa che si era realizzata a causa del mancato adeguamento dell’art. 656, comma 5, cod. proc. pen. in quanto, omettendo di intervenire sulla normativa ancillare, il legislatore smentiva sé stesso, insinuando nell’ordinamento una incongruità sistematica capace di ridurre gran parte dello spazio applicativo riservato alla normativa principale.
Tal che, alla luce di tali plurime considerazioni di ordine giuridico ma, come appena visto, anche logico, la Corte, nel rilevare che, mancando di elevare il termine previsto per sospendere l’ordine di esecuzione della pena detentiva, così da renderlo corrispondente al termine di concessione dell’affidamento in prova allargato, il legislatore non era incorso in un mero difetto di coordinamento, ma aveva leso l’art. 3 Cost., essendosi di fatto derogato al principio del parallelismo senza adeguata ragione giustificatrice, dando luogo a un trattamento normativo differenziato di situazioni da reputarsi uguali, quanto alla finalità intrinseca alla sospensione dell’ordine di esecuzione della pena detentiva e alle garanzie apprestate in ordine alle modalità di incisione della libertà personale del condannato, giungeva dunque a dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 656, comma 5, del codice di procedura penale, nella parte in cui si prevede che il pubblico ministero sospende l’esecuzione della pena detentiva, anche se costituente residuo di maggiore pena, non superiore a tre anni, anziché a quattro anni per violazione dell’art. 3 Cost. ritenendo l’altra questione proposta, vale a dire quella basata sull’art. 27, terzo comma, Cost., assorbita.
Conclusioni
La sentenza è sicuramente condivisibile in quanto frutto di un articolato e ponderato ragionamento giuridico.
Se la sospensione dell’esecuzione della pena è difatti prodromica all’accesso a misure alternative alla detenzione e quindi volta a garantire al condannato di intraprendere effettivamente un percorso di recupero e di rieducazione, la possibilità di derogare a quanto previsto dall’art. 656, co. V, c.p.p. non può che avvenire sulla base di una ragione giustificatrice in assenza della quale non si può dare, come dice la stessa Consulta, un trattamento normativo differenziato di situazioni da reputarsi uguali affermandosi in tal guisa un principio già affermato dalla stessa Corte costituzionale in diverse pronunce; difatti, già in precedenti occasioni, è stato postulato che “si ha violazione dell’art. 3 della Costituzione quando situazioni sostanzialmente identiche siano disciplinate in modo ingiustificatamente diverso” [Corte cost. n. 340/2004; in senso similare Corte Cost. n. 15/1960 (“La giurisprudenza di questa Corte é costante nel senso che il principio di eguaglianza é violato anche quando la legge, senza un ragionevole motivo, faccia un trattamento diverso ai cittadini che si trovino in eguali situazioni”); Corte cost. n. 111/1981 (“É stato più volte affermato da questa Corte che vi è violazione del principio di uguaglianza quando di fronte a situazioni obbiettivamente omogenee si ha una disciplina giuridica differenziata, determinando discriminazioni arbitrarie e ingiustificate”)].
Il giudizio su questo pronuncia, dunque, come appena esposto prima, non può che essere positivo.
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