La struttura sanitaria non è responsabile della scomparsa del paziente se questi era capace di intendere e di volere e ha deciso di allontanarsi

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La vicenda

Nella causa che ha dato luogo alla sentenza oggetto di commento, una signora (iure proprio) conveniva in appello una struttura sanitaria per ottener la riforma della sentenza di primo grado e conseguentemente ottenere la condanna della convenuta a risarcirle i danni subiti per la scomparsa del marito.

In particolare, nel 2011, il marito – allora di 72 anni – della appellante era stato accompagnato dal figlio presso la struttura sanitaria convenuta per ivi essere ricoverato per un certo periodo nel quale svolgere delle terapie di neuroriabilitazione, finalizzate “al controllo posturale in statica e dinamica e l’equilibrio durante la deambulazione” in quanto affetto dal morbo di Parkinson.

Al momento dell’ingresso dentro la struttura sanitaria, era stata effettuata una visita di accettazione con un esame psichico del paziente, il quale era risultato “vigile, collaborante, orientato nel tempo e nello spazio”.

Dopo soli tre giorni dall’ingresso del paziente all’interno della struttura sanitaria (durante i quali aveva svolto alcuni esami di routine, un primo colloquio per decidere il programma di riabilitazione e aveva sottoscritto personalmente il modulo di consenso informato), il paziente si era allontanato dalla struttura sanitaria: in particolare, nella cartella clinica era stato annotato che egli non si era presentato per la cena e, nonostante le ricerche effettuate, non era stato trovato né in giardino né nella spiaggia antistante la struttura.

In pari data, l’appellante aveva provveduto quindi a presentare denuncia di scomparsa del proprio coniuge e nei mesi successivi aveva intrapreso una serie di iniziative per avere sue notizie (affiggendo volantini con la fotografia del marito, pubblicando articoli di giornali e diffondendo la notizia anche tramite il programma televisivo “Chi l’ha visto?”).

Tuttavia, nonostante gli sforzi di ricerca, l’appellante non era riuscita a trovare il coniuge scomparso e pertanto aveva avviato la procedura giudiziale per far dichiarare prima l’assenza e poi la scomparsa del marito (mentre non erano ancora decorsi i termini per avviare la procedura di dichiarazione di morte presunta).

Dopo aver introdotto detta procedura giudiziale, l’appellante aveva promosso una causa dinanzi al Tribunale di Milano nei confronti della struttura sanitaria per ottenere il risarcimento dei danni dalla stessa subiti a causa della scomparsa del marito, invocando una responsabilità dell’Ospedale per inadempimento contrattuale del medesimo a causa della mancata sorveglianza del marito che ivi era ricoverato. Tuttavia, il Tribunale ha rigettato la richiesta risarcitoria e accertato che nessuna responsabilità può imputarsi alla struttura sanitaria.

In considerazione di ciò, l’appellante ha impugnato la sentenza di prime cure, chiedendone la riforma, sostanzialmente poiché il tribunale non aveva adeguatamente tenuto in considerazione le lacune e le omissioni presenti nella cartella clinica del paziente da cui poteva desumersi una responsabilità contrattuale omissiva della appellata per la carenza di vigilanza rispetto ai propri pazienti (obbligo di vigilanza e di protezione del paziente, che – secondo l’appellante – sorge in capo alla struttura sanitaria direttamente al momento della conclusione del contratto di spedalità anche qualora il paziente sia perfettamente in grado di intendere e di volere).

Si legga anche:”

La decisione della Corte di Appello

La Corte di Appello di Milano ha preliminarmente esaminato e ri-qualificato la domanda risarcitoria formulata dalla appellante. Infatti, secondo il Collegio meneghino, l’appellante non ha agito quale erede del marito per far valere la lesione di un diritto di titolarità di quest’ultimo, bensì ha agito iure proprio per chiedere il risarcimento dei danni dalla medesima personalmente subiti per la perdita del proprio rapporto con il marito scomparso. Ciò significa che detta domanda risarcitoria non può essere inquadrata nella responsabilità contrattuale perché l’attrice e appellante non ha sottoscritto alcun contratto con la struttura sanitaria e quindi tra le stesse non vi era alcun rapporto di natura contrattuale tale da configurare tale forma di responsabilità. Piuttosto, la domanda deve essere inquadrata nella responsabilità extracontrattuale e pertanto è a carico dell’attrice/appellante la prova di tutti gli elementi costitutivi dell’azione: fra questi, in particolare, è onere di parte attrice/appellante dimostrare che la capacità di autodeterminazione del paziente era limitata a punto tale da comportare un conseguente obbligo di vigilanza a carico della struttura sanitaria nonché la colpa della struttura stessa nella omessa vigilanza, il danno subito dall’attrice e il nesso di causalità con la suddetta omissione di vigilanza.

Ciò premesso, la Corte è passata ad esaminare le risultanze dell’istruttoria svolta in primo grado, da cui è emerso che:

  • il paziente – un mese prima dei fatti di causa – aveva svolto una visita con il medico che da molti anni lo seguiva per la sua malattia (il morbo di Parkinson), il quale aveva confermato soltanto delle difficoltà nella deambulazione nei momenti nei quali la terapia farmacologica assunta non era efficace;
  • in occasione di tale visita, il paziente aveva concordato con detto medico un periodo di ricovero riabilitativo di tre o quattro settimane in un centro specializzato che garantisse ampie possibilità di movimento ai pazienti;
  • detto medico, inoltre, aveva confermato che, durante tutto il tempo in cui lo aveva seguito, il paziente non aveva mai manifestato necessità di supporto psichiatrico e si era sempre mostrato lucido, orientato nel tempo e nello spazio, autosufficiente e pienamente collaborante;
  • dopo un primo progressivo peggioramento, dal 2007 al 2010, il Parkinson si era stabilizzato senza che il lato cognitivo del paziente fosse stato compromesso.

In ragione di ciò, la Corte di appello è quindi giunta alla conclusione che la decisione di prime cure abbia correttamente escluso la sussistenza di qualsivoglia incapacità di autodeterminazione del paziente.

Inoltre, la Corte ha ritenuto che, già al momento della conclusione del contratto tra il paziente e la struttura sanitaria, quest’ultima si presentava come un luogo totalmente aperto e senza cancelli o barriere, che permetteva ad ogni ospite di muoversi liberamente.

Pertanto, non è configurabile alcuna colpa in capo alla struttura sanitaria, poiché:

  • ella, vista la tipologia e le modalità del servizio fornito (come appena descritte), non è tenuta a effettuare controlli specifici sui pazienti (che sono infatti liberi di muoversi);
  • il paziente era perfettamente capace di autodeterminarsi ed aveva deciso di allontanarsi dalla struttura senza avvisare il personale.

Secondo i giudici di appello, gli obblighi di vigilanza su tutti gli ospiti della struttura sanitaria invocati dall’appellante riguardano invece il dovere di protezione dell’ospite per evitare che lo stesso, pur essendo pienamente capace di intendere e di volere, possa subire dei danni (sostanzialmente facendosi male) a causa della trascuratezza della struttura sanitaria. Nel caso in commento, invece, l’ospite si è volontariamente allontanato senza comunicarlo al personale sanitario e quindi la struttura non avrebbe in alcun modo impedire tale evento.

In considerazione di tutto quanto sopra, la Corte di appello ha rigettato l’appello, confermato la sentenza di primo grado e conseguentemente condannato la appellante al pagamento delle spese legali.

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