La struttura sanitaria non risponde dell’infezione contratta dal medico punto da una siringa infetta del sangue del paziente, se la struttura non poteva adottare nessuna cautela per impedire l’infezione

 

precedenti giurisprudenziali: Cass. 21333/2019; Cass. 1715/2018.

riferimenti normativi: art 2050, art 2043, art 2087 codice civile

Il fatto

A seguito della morte del congiunto, la moglie ed i figli di questo decidevano di rivolgersi al giudice di primo grado per vedersi riconosciuto il diritto ad ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali subiti a causa della morte del parente.

In particolare, i ricorrenti citavano in giudizio sia l’Azienda sanitaria locale che l’Azienda ospedaliera, ravvisando nel loro operato la responsabilità per la morte del congiunto, per non aver essi adottato tutte quelle cautele necessarie ad evitare infezioni nel corso dell’attività chirurgica che egli stava espletando. I ricorrenti, infatti, spiegavano al Giudice di primo grado che, a seguito di un intervento chirurgico eseguito dal loro congiunto, questi aveva contratto l’epatite dopo essersi punto con l’ago di sutura su cui vi erano gocce di sangue infetto del paziente che egli stava operando, decedendo successivamente a causa dell’infezione da epatite.

Le strutture sanitarie convenute, costituitisi in giudizio, si difesero spiegando che, al tempo della contrazione dell’infezione il virus di quel tipo di epatite non era noto, e dunque non era possibile adottare cautele che evitassero ai medici o al personale sanitario di infettarsi.

Il Tribunale, a seguito dello svolgimento anche della CTU, decise favorevolmente ai ricorrenti condannando in solido al risarcimento del danno sia l’azienda sanitaria locale che l’azienda ospedaliera, ritenendo che quest’ultima non avesse adottato tutte quelle cautele necessarie ad evitare che il medico impegnato nell’operazione chirurgica si pungesse con l’ago e contraesse così la malattia dell’epatite.

A seguito della decisione del Giudice di primo grado, l’Azienda sanitaria locale proponeva appello dinnanzi alla Corte territoriale. Quest’ultima accoglieva il ricorso presentato dalle strutture sanitarie, riformando nel merito la decisione del Tribunale, e rigettando così la richiesta di risarcimento del danno dei parenti del medico che aveva effettuato l’ operazione chirurgica.

In particolare, i giudici di secondo grado, basandosi sull’assunto per cui l’attività medico chirurgica non è considerata dal legislatore espressamente come attività pericolosa, ritenevano che non potesse trovare applicazione, nella causa proposta alla loro cognizione, l’art. 2050 del codice civile, che prevede la responsabilità per l’esercizio di attività pericolose, dovendo essere la pericolosità dell’attività valutata caso per caso. La Corte, quindi, nel caso di specie, valutava, sulla base delle conoscenze scientifiche dell’epoca, che non vi fossero delle cautele, diverse e maggiori rispetto a quelle effettivamente adottate, che non erano state adottate dalle strutture sanitarie convenute.

Riformata la sentenza di primo grado, e dunque, negato il diritto al risarcimento del danno, gli eredi del defunto decidevano di adire la Corte di Cassazione presentando due motivi di ricorso.

Con il primo motivo, i ricorrenti ritenevano errato l’argomento addotto dalla Corte di Appello per cui la natura pericolosa dell’attività medico chirurgica doveva escludersi sulla base del fatto che questa non era stata espressamente considerata come tale dal legislatore. Viceversa, secondo i ricorrenti, la Corte avrebbe dovuto considerarla come pericolosa in quanto espone il medico a contrarre malattie.

Con il secondo motivo di ricorso, i ricorrenti criticavano la decisione della Corte territoriale sul fatto di aver escluso che vi fossero, in generale, obblighi di cautela a carico delle strutture sanitarie per il solo fatto di aver (i giudici) escluso la natura pericolosa dell’attività, non prendendo invece in considerazione le altre possibili qualificazioni della fattispecie, come ad esempio la responsabilità per fatto illecito ex articolo 2043 c. c, o la responsabilità derivante dall’obbligo del datore di lavoro di adottare quelle misure che per la particolarità del lavoro sono necessarie per la tutela del lavoratore, ex articolo 2087 del codice civile.

 

La decisione della Corte di Cassazione

I Giudici della Suprema Corte, seppur ritenuto fondato il primo motivo di ricorso proposto dagli eredi del defunto, hanno comunque rigettato il ricorso in ragione dell’oggettiva difficoltà di accertamento di una responsabilità imputabile alle convenute.

La Corte di Cassazione, in riferimento alla sentenza della Corte d’Appello, ha considerato errata la parte in cui i Giudici di secondo grado hanno ritenuto l’attività medico chirurgica non pericolosa ai sensi dell’articolo 2050 c.c., in quanto nel caso di specie il danno non è imputato a chi svolge l’attività medico chirurgica, che è il medico danneggiato, ma è imputato a chi predispone le condizioni per l’esercizio dell’attività medica, ossia alle amministrazioni convenute.

Gli Ermellini aggiungono, poi, che la condotta imputata ai convenuti, ovverosia di non aver adottato tutte quelle cautele necessarie ad evitare infezioni nel corso dell’attività chirurgica, poteva essere valutata dal giudice di merito non solo sulla base dell’art. 2050 c.c., come suggerito da parte ricorrente nella fase di merito, ma anche sulla base dell’ articolo 2043 c.c. o, in alternativa, dell’ art. 2087 c.c., suggerito invece sempre da parte ricorrente nei motivi di ricorso in Cassazione.

I Giudici di legittimità, infatti, hanno spiegato che, quando i fatti costitutivi dell’illecito possono essere riferiti a più fattispecie, il giudice, sia esso di merito che di legittimità, non è vincolato alla indicazione della fattispecie di riferimento fatta dal ricorrente – nel caso di specie si ricorda essere  la responsabilità per l’esercizio di attività pericolose ex art. 2050 c.c. – potendo il giudice liberamente ritenere che quei fatti rientrino sotto altra fattispecie, come ad esempio far rientrare la condotta nella fattispecie descritta dall’articolo 2087 c.c., anche se il ricorrente aveva indicato quale fattispecie l’articolo 2043 c.c..

Ciò premesso, i Giudici della fase di legittimità hanno comunque evidenziato come la Corte di merito abbia ritenuto in ogni caso non abbicabile alla fattispecie altre norme, né quella prevista dall’art 2043 c.c. né quella prevista dall’art 2087 c.c., motivando tale convincimento sulla base del periodo in cui il contagio è avvenuto. Infatti, in quel periodo storico non vi erano cautele possibili ad evitare il contagio, per cui anche laddove il giudizio fosse stato effettuato alla luce dell’articolo 2043 c.c. e del dovere generale di non ledere gli altri, o alla luce dell’art 2087 c.c., non avrebbe comunque portato a diverso esito il giudizio. In altri termini, gli Ermellini hanno confermato la correttezza della decisione dei giudici di Appello laddove questi ultimi hanno ritenuto che, poiché all’ epoca dei fatti non esisteva in astratto una qualche cautela che potesse evitare l’accidentale puntura con un ago infetto nel corso di una operazione chirurgica, si doveva escludere una responsabilità dell’azienda ospedaliera.

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Sentenza collegata

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