La legge n.6 del 31 gennaio 2002 “ conversione in legge con modificazioni, del decreto legge 1° dicembre 2001, n.421, recanti disposizioni urgenti per la partecipazione di personale militare all’operazione multinazionale denominata “Enduring freedom”; la legge n.15 del 27 febbraio 2002 “conversione in legge con modificazioni del decreto legge 28 dicembre 2001 n.451, recante disposizioni urgenti per la proroga della partecipazione italiana ad operazioni militari internazionali e la legge n.42 del 18 marzo 2003 “ conversione in legge, con modificazioni, del decreto legge 20 gennaio 2003 n.4, recante disposizioni urgenti per la prosecuzione della partecipazione italiana ad operazioni militari internazionali hanno determinato un significativo cambiamento del quadro normativo di riferimento delle operazioni delle nostre FF.AA all’ estero, determinando l’insorgere di un vero e proprio “statuto” del personale militare, per la cui comprensione è necessario fare riferimento ad un’. integrazione tra le norme del codice penale militare di pace e quelle del codice penale militare di guerra.
Il primo problema di natura pratica che il legislatore si è trovato ad affrontare è stato quello dell’applicazione di una normativa di maggiore tutela per il personale militare in operazioni, come quelle di “Enduring freedom” ed in Iraq, che non sono tecnicamente riconducibili a zone di guerra.
Infatti, il c.p.m.g. prevede quale presupposto dell’applicazione delle norme in esso contenute : 1) la dichiarazione dello stato di guerra (art. 3 c.p.m.g.) 2) la commissione del reato in luoghi in stato di guerra o considerati tali ( art. 4 c.p.m.g.) 3) l’applicazione comunque a personale militare destinato ad operazioni di guerra ( art. 6 c.p.m.g.).
Come abbiamo detto, il c.d. “nuovo statuto del personale militare” in operazioni all’estero, con la riforma dell’art. 9 c.p.m.g., ad opera della legge n.6 del 2002 art. 2 co.1.lett.a) e art.3, comporta l’applicazione della legge penale militare di guerra “ancorchè in tempo di pace, ai corpi di spedizione all’estero per operazioni militari armate”, con allargamento dell’ambito territoriale applicativo anche ai fatti “commessi nel territorio nazionale” da personale militare impiegato nelle specifiche mansioni analiticamente indicate dal testo legislativo.
E’ evidente la significativa deroga che un tale “statuto” comporta alle condizioni ordinarie di applicabilità del c.p.m.g., che prevede la necessità di uno stato di guerra territorialmente individuabile ed una formale dichiarazione di guerra.
Si dice da parte della migliore dottrina, che il codice militare di guerra, sarebbe una legge “sospesa” che solo al verificarsi delle condizioni, inizialmente previste dal legislatore del 1942, troverebbe applicazione.
Le caratteristiche principali di questa legge, che la dottrina definisce “eccezionale” in ragione della significativa deroga ai principi generali dell’ordinamento e a quelli costituzionali (come ad esempio il potere normativamente riconosciuto ai capi militari di emanare bandi, ovverosia atti avente efficacia e valore di legge) sono individuabili principalmente nei seguenti punti:
1) applicazione sospensivamente condizionata ad un atto formale di dichiarazione di guerra;
2) applicazione, con deroga al principio di territorialità della legge penale, in ambiti soggetti ad altrui sovranità statale, quando questi rientrino in scenari di “guerra” (art. 4 c.p.m.g.);
3) applicazione anche a militari destinati ad operazioni di guerra, ancorché il reato non sia commesso in luoghi di guerra, con evidente operatività di un principio “personale” di applicazione della legge a discapito di quello di territorialità ( art. 6 c.p.m.g);
4) applicazione a militari nemici del codice penale militare di guerra, con deroga al principio di territorialità della legge penale ( art. 13 c.p.m.g.);
5) applicazione a persone estranee alle forze armate (art. 14 c.p.m.g.)
6) applicazione a militari di Stati alleati od associati (art. 15 c.p.m.g.);
7) ultrattività della legge penale militare di guerra, con significativa deroga del principio di successione delle leggi di cui all’ art. 2 c.p. e di applicazione delle norma più favorevole.
Con particolare riferimento all’ art. 23 c.p.m.g. si pongono delle questioni giuridiche, di particolare rilievo, evidentemente connesse alla cessazione delle operazioni militari all’estero ed alla commissione di reati commessi nella vigenza della legge penale militare di guerra nei casi previsti dall’ art. 9 c.p.m.g.
La questione con la cessazione del secondo conflitto mondiale si è già posta, ed è stata risolta dalla giurisprudenza ovviamente con riferimento alla cessazione dello stato di guerra (art. 22 c.p.m.g.) con l’applicazione del principio di ultrattività della legge penale di cui all’art. 23 c.p.m.g.
In casi conosciuti dalla cronaca giudiziaria, che hanno visto coinvolti imputati appartenenti a Forze Armate straniere, quali truppe occupanti il territorio nazionale, i giudici hanno riconosciuto la natura eccezionale della norma di cui all’art. 23 c.p.m.g., con ciò applicando la più rigorosa disciplina prevista dal c.p.m.g., anche per giudizi definiti in un momento successivo alla cessazione dello stato di guerra .
Preliminarmente, dobbiamo osservare, che la “ratio” dell’art. 23 c.p.m.g. si spiega in relazione a quanto previsto nella relazione al Re che accompagnava l’istituzione dei codici penali militari di pace e di guerra nel 1941. In particolare, in tale relazione, si legge che il principio di ultrattività della legge penale militare di guerra era stato introdotto, tenendo presente l’orientamento del tribunale militare supremo di guerra che, al termine della grande guerra, riteneva nella sua giurisprudenza non applicabile la disciplina prevista per il tempo di guerra quando i reati fossero giudicati in un periodo successivo alla cessazione dello stato di guerra (cfr. Trib. Supr. Guerra e Marina 12.09.21 ric. Cuccia; 19.10.21 ric. Enrietto).
Trattasi dunque, quella penale militare di guerra, di legge eccezionale ai sensi dell’art. 2 comma 4 c.p., per la quale tuttavia non possono valere le argomentazioni sostenute dalla Corte Costituzionale con sentenza n.6/78 in relazione all’analoga fattispecie delle leggi finanziarie, per le quali, in ragione del principio di specialità, sarebbe valido il principio generale del “tempus regit actum”: è evidente che sono realtà normative diverse per presupposti, finalità e natura.
Una ragionata applicazione delle conseguenze derivanti dalla disciplina dell’art. 23 cpmg. si ha con la sentenza del Tribunale militare di Roma n. del 22.07.97 imp. Priebke ed altri. In questa sentenza il giudice militare ipotizza l’esistenza di due possibili interpretazioni dell’art. 23 cpmg.:
1. un’interpretazione “restrittiva”, secondo la quale l’ultrattività della legge penale militare di guerra sarebbe limitata alle sole comminatorie penali fisicamente contenute in tale legge, sulla falsariga di quanto si ritiene in relazione all’art. 20 l. 7 gennaio 1929 n.4 in materia di violazioni finanziarie;
2. un’interpretazione “estensiva” secondo la quale la ultrattività della legge penale militare di guerra riguarderebbe anche altri istituti, quali ad esempio il regime della valutazione delle circostanze del reato, in quanto comunque idonei a determinare in concreto l’entità dell’irroganda sanzione (con conseguente cristallizzazione di un principio del tempus regit actum).
3. una interpretazione per così dire “intermedia” viene invece accolta da altro orientamento giurisprudenziale, che ipotizza la possibilità di un fenomeno in senso tecnico di leggi penali nel tempo, e quindi di applicazione della norma penale più favorevole, avvenuta tuttavia durante lo stato di guerra.
E’ interessante, al riguardo riportare le argomentazioni giuridiche contenute nella sentenza della Corte Militare di appello di Roma del 07.03.98 imp Priebke, che dice “ l’art. 23 cpmg assolve una chiara funzione di garanzia dell’effettività dell’applicazione delle norme penali vigenti in tempo di guerra, che altrimenti rischierebbe di venire frustrata a fronte della regola generale di applicazione comunque della legge più favorevole al reo in caso di successione di leggi penali. Tale disposizione è stata dettata dalla duplice preoccupazione del legislatore del 1941: da un lato che l’aver costruito la legge penale militare di guerra come una legge ad applicabilità condizionata, o come talvolta si dice, normalmente vigente ma in “frigorifero”, determinasse una vicenda di vera e propria “successione di leggi nel tempo” nel succedersi di fattori congelanti e scongelanti; dall’altro, in collegamento con la prima preoccupazione, che la materia non fosse già riconducibile all’ipotesi del comma 4 dell’art. 2 c.p., occorrendo quindi una più chiara esplicitazione. Verosimilmente si trattò di preoccupazione infondata, una volta verificato che il sistema di applicazione condizionata, anche laddove la condizione possa sussistere o no in uno specifico arco temporale e riferirsi ad un complesso normativo articolato come le leggi penali militari di guerra, non determina, comunque, un problema di intertemporalità, ma semplicemente da luogo ad un fenomeno di coesistenza di norme , regolabile con i consueti canoni della specialità e della sussidiarietà.
In ogni caso, nella norma dell’art. 23, anche se letta come corollario di quella di cui all’art. 2 co.4 c.p. non si potrebbe trovare la conclamazione ferrea della regola del “tempus regit actum”, non solo perché ultronea rispetto alla ratio ispiratrice, ma anche perché non lo consentirebbe il tenore letterale della norma stessa. Essa sancisce la regola della cosiddetta ultrattività della legge penale solo con riferimento ai reati “commessi durante lo stato di guerra e quindi non anche nelle altre situazioni condizionanti l’applicazione della legge penale militare di guerra (es. corpi di spedizione all’estero ex art. 9 cpmg) .
Tornando pertanto al quesito all’origine del nostro lavoro, ovverosia quale sia la disciplina da applicarsi ai reati commessi da personale militare nella vigenza del cpmg in operazioni all’estero, come “Enduring Freedom”, la risposta ci è appunto lucidamente fornita da questo arresto giurisprudenziale che pure riguardava fatti giudicati dopo la cessazione del secondo conflitto mondiale (nella fattispecie il c.d eccidio delle Fosse Ardeatine).
Semplificando potremmo dire, che in applicazione del principio di specialità di cui all’art. 15 c.p., l’art. 23 cpmg non potrà che trovare applicazione unitamente ai reati commessi nella vigenza dello stato di guerra; orbene non essendovi nei territori in questione, Iraq e Afghanistan, alcuno stato di guerra in senso formale, è evidente che un problema di successione delle leggi penali in senso tecnico non può fondatamente porsi ove il giudizio penale intervenga, come è naturale, in un periodo successivo alla cessazione dell’operazione militare e quindi della vigenza del c.p.m.g. a quest’ultima intimamente connesso.
In conclusione, semplificando ma non troppo, potremmo ragionevolmente sostenere che l’art. 23 cpmg ed i principi in esso rinvenibili afferiscono, quanto all’ambito applicativo allo “stato di guerra” e non già alla vigenza della legge penale militare di guerra.
Conseguentemente e risolutivamente, non potrà giammai esservi applicazione dell’art. 23 cpmg in relazione a fatti connessi all’ambito applicativo delineato dagli artt. 5-8-9 e 10 cpmg.
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