L’analisi della teoria del contatto sociale richiede, preliminarmente, una breve disamina circa quelle che sono attualmente le principali funzioni assolte dalle obbligazioni. È necessario precisare però, come questa tassonomia non sia statica e chiusa, ma vada letta in modo dinamico e potenzialmente sempre aperto.
Ed invero, nel Codice del 1865 le obbligazioni erano collocate nel Capo dedicato alla proprietà, assolvendo dunque, una funzione traslativa della stessa, attesa la centralità e l’importanza della proprietà nell’ambito economico dell’epoca.
Con il mutamento della realtà economico-sociale e l’avvento del codice del 1942, è possibile dare atto di un mutamento di tale concezione, dell’incremento e della poliedricità delle funzioni assolte dalle obbligazioni. In primis, viene in rilievo l’autonomia dell’istituto in questione a cui è esclusivamente dedicato il Titolo I del Libro IV del codice. Per vero, la prima funzione di cui merita dar conto è quella allocativo-distributiva della ricchezza. In quest’ottica, l’obbligazione diventa il paradigma al quale ancorare la circolazione del denaro, che si esplica attraverso la circolazione di beni, merci e servizi. Accanto a tale funzione di scambio, l’obbligazione riveste anche una funzione risarcitoria di tutti quei danni derivanti da fatto illecito, ex art. 2043 cc, alla stregua del quale “ Qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno”. La funzione indennitaria, invece, è la terza idealmente svolta dall’obbligazione. Difatti, il danno al terzo può derivare tanto da fatto illecito (ex art. 2043 cc), tanto da fatto lecito, per tale intendendosi quel fatto autorizzato dall’ordinamento giuridico in virtù di un giudizio di meritevolezza svolto in via preliminare dal legislatore, ma che può essere ugualmente produttivo di un danno. Il danno cosi arrecato viene, dunque, riparato per il tramite dell’obbligazione indennitaria. La quarta funzione dell’obbligazione è quella restitutoria. Va dato atto del principio che informa tutto il nostro ordinamento giuridico: principio di causalità, per cui ogni spostamento patrimoniale è necessario che sia sorretto da un’adeguata giustificazione causale. Prova ne è l’art. 2041cc, disposizione che prevede che chi, senza giusta causa, si sia arricchito a detrimento di un’altra persona, sia tenuto, nei limiti dell’arricchimento, ad indennizzare quest’ultima della correlativa diminuzione patrimoniale.
Va rilevato come negli ultimi anni abbia, in maniera sempre maggiore, preso piede un ulteriore compito svolto dall’obbligazione, quello di protezione. L’obbligo di protezione rappresenta, infatti, l’oggetto della obbligazione nascente in virtù del contatto sociale di cui, in apertura, si sono tratteggiate le linee essenziali.
La teoria del contatto sociale, nata in Germania ad opera della dottrina tedesca degli anni ’40, è stata successivamente fatta propria tanto dalla dottrina quanto dalla giurisprudenza nazionale. Vari sono i campi all’interno dei quali ne è stata fatta applicazione e di cui si darà conto nel corso dell’odierna disamina.
Si esaminerà la teoria in questione e la sua applicazione in ambito medico-sanitario (natura giuridica della responsabilità del medico), in ambito scolastico ( natura giuridica della responsabilità dell’insegnante per le autolesioni dell’alunno), ed infine, in ambito bancario ( natura giuridica della responsabilità della banca per il pagamento di un assegno nominativo a soggetto non legittimato).
La teoria del contatto sociale in ambito medico ha portato all’affermazione della responsabilità da inadempimento dell’esercente la professione sanitaria, sconfessando, di fatto numerosi e variegati orientamenti che, per contro, avevano ritenuto che tale tipo di responsabilità dovesse essere inquadrata in quella aquiliana. Al fine di compiere una trattazione organica ed esaustiva dell’argomento è necessario operare una digressione dando conto delle teorie che l’hanno preceduta.
La prima tesi statuiva come, in ambito medico-sanitario, vigesse un doppio binario in tema di responsabilità. Ed invero, in virtù del contratto stipulato tra paziente ed ente ospedaliero, quest’ultimo in caso di danno arrecato al paziente avrebbe risposto in via contrattuale. Diversamente però, accadeva per il medico. Proprio in virtù della mancanza del contratto, il medico rispondeva dei danni arrecati al paziente durante l’espletamento dell’attività a titolo extracontrattuale, ex art. 2043 cc.
A sostegno di tale tesi venivano addotte sostanzialmente una duplicità di ragioni. In primis, al paziente non era concesso di poter scegliere il professionista al quale affidarsi; in secondo luogo, la prestazione medica veniva eseguita unicamente in virtù del contratto di lavoro dipendente intercorrente tra medico e struttura sanitaria. L’inesatta esecuzione della prestazione medica dava, quindi, origine a due tipi di responsabilità: contrattuale in capo all’ente ospedaliero, ed extracontrattuale in capo al medico. Ne scaturivano conseguenze non marginali in merito al riparto dell’onere della prova.
Numerose furono le critiche mosse a tale orientamento che, di fatto, omettendo di valorizzare il rapporto che si veniva ad instaurare tra medico e paziente nell’esecuzione della prestazione, lo equiparava ad un quisque de populo. Inoltre, ed in modo paradossale, la responsabilità in cui incorreva la struttura per l’errore commesso dal medico si presentava come maggiormente gravosa in ambito processuale. La stessa rispondeva, in virtù della teoria dell’accettazione del rischio (in base alla quale chi si avvale dell’opera di altri accetta la possibilità ed il pericolo che questi possano arrecare danni a terzi), ex art. 1228 cc, per il fatto commesso dagli ausiliari. Era dunque una responsabilità oggettiva per errore da responsabilità soggettiva del medico.
Il medico, invece, rispondendo a titolo extracontrattuale, era sottoposto ad un regime probatorio “alleggerito”, atteso che in capo al paziente gravava tanto la prova della causalità materiale (condotta-evento), quanto quella della causalità giuridica (evento-danno). Ciò significava che, il paziente asseritamente leso avrebbe dovuto dimostrare l’inadempimento, rectius l’inadempimento efficiente, e non uno qualsiasi, ed il nesso di causalità tra lo stesso e il danno lamentato. È evidente come fosse maggiormente gravoso per il paziente fornire tali prove.
Furono, invero, queste critiche a dare la stura alla successiva tesi che sostenne la natura contrattuale della responsabilità tanto della struttura sanitaria quanto del medico. Se la premessa di fondo su cui si basava, sconfessava l’assunto della responsabilità del medico ex art. 2043 cc, diverse erano le giustificazioni a sostegno.
Taluni sostenevano che, il fondamento della responsabilità contrattuale del medico, affondasse le radici nell’art. 28 Cost. secondo cui “ I funzionari e i dipendenti dello Stato degli enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti. In tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici”. Tale teoria, fondata sul principio dell’immedesimazione organica, si scontrava, però, con il dato di fatto per cui, il costituente ha previsto varie tipologie di responsabilità, ed avuto riguardo a quella civile, senza specificare se la stessa debba ritenersi come contrattuale, extracontrattuale, o se debba escludersi il concorso tra le due forme.
Altra parte delle dottrina ha ritenuto che la responsabilità contrattuale del medico traesse linfa dal contratto a favore di terzo. Il contratto stipulato tra struttura sanitaria e medico avrebbe visto come terzo beneficiario il paziente, destinatario della prestazione medica. Tale teoria però incontrava il limite, senza riuscire a superalo, per cui nel momento in cui il paziente agisce non fa valere il contratto tra ente ospedaliero e medico dipendente (contratto in cui sarebbe terzo), ma agisce in virtù del vincolo contrattuale che lo lega alla casa di cura; contratto in cui il paziente non riveste la qualifica di terzo, ma di parte.
Ulteriore tesi dottrinaria ha ritenuto che tale tipologia di responsabilità scaturisse dall’inquadramento della fattispecie all’interno del contratto con effetti protettivi a favore di terzo, per cui dal contratto concluso dal medico con l’ente ospedaliero, nasce per il terzo (paziente) il diritto non ad una prestazione principale, ma alla sua esecuzione con diligenza tale da evitargli pregiudizi.
Le tesi citate hanno tutte preceduto, ma sono state assolutamente propedeutiche, la fase in cui a prendere piede sul campo è stata la teoria del c.d. contatto sociale qualificato.
La fattispecie si inserisce nella categoria del rapporti contrattuali c.d. “di fatto”, vale a dire quei rapporti che seguono una fattispecie contrattuale tipica da cui mutuano la disciplina giuridica, ma che, tuttavia, si costituiscono in assenza di una base negoziale, nascendo per effetto del contatto sociale tra le parti.
Tale contatto sociale è stato valorizzato dai fautori della teoria in questione, i quali hanno rilevato come il rapporto in esame darebbe origine ad una responsabilità di “natura contrattuale” (rectius, da inadempimento), atteso il disposto di cui all’art. 1173 cc che, tra le fonti delle obbligazioni annovera – oltre a contratto e fatto illecito – “ogni altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell’ordinamento giuridico”. Tale contatto, idoneo a dar vita ad un rapporto obbligatorio tra medico e paziente, si instaura, dunque, nel momento in cui il paziente viene preso in carico da parte del medico.
Pertanto, in virtù di tale teoria, in capo al medico graverebbe una responsabilità da inadempimento, che troverebbe il suo fondamento, non in un contratto stipulato tra i due soggetti, ma nel contatto sociale che si instaura nel momento di presa in cura del paziente da parte del medico, contatto idoneo a dar vita al rapporto obbligatorio ex art. 1173 cc.
In proposito, si è parlato di obbligazione senza prestazione, posto che l’oggetto della stessa non è rappresentato da una prestazione, ma da un obbligo di protezione che grava in capo al medico, al fine di tutelare la salute del paziente, evitando di arrecargli pregiudizi. Merita di essere rilevato però come, se è vero che l’oggetto dell’obbligazione vada ravvisato in un obbligo di protezione e non in una prestazione, è pur vero che nell’espletamento di tale obbligo, lo stesso, si declina in una serie di prestazioni.
Vari sono i motivi che hanno fatto si che la teoria del contatto sociale qualificato riscuotesse successo sempre maggiore, in dottrina quanto in giurisprudenza.
Viene, dunque, non a torto, valorizzato il rapporto tra medico e paziente, rapporto in cui non vige il principio del “alterum non leadere”, stante il rapporto di non occasionalità e fortuità che intercorre tra i due soggetti, cosi come accade, invece, nelle fattispecie idonee ad essere sussunte sotto l’egida dell’art. 2043 cc.
Ne deriva che, il rapporto che si instaura tra medico e paziente è un rapporto qualificato, come a più riprese sostenuto dalla giurisprudenza.
Varie sono le ragioni del successo di tale teoria. In primis, si è posto fine ad una irragionevole disparità di regime giuridico in tema di responsabilità, che vedeva la genesi in un medesimo ed identico fatto dell’uomo. Inoltre, importanti e non trascurabili sono le conseguenze derivanti dall’applicazione di tale teoria sul piano del riparto dell’onere probatorio.
Attesa la qualificazione della responsabilità in questione come “da inadempimento”, conseguentemente, graverà in capo al creditore (paziente) la prova del titolo (contatto sociale), del danno e la mera allegazione dell’inadempimento. In proposito la giurisprudenza ha rilevato come, non sia sufficiente un inadempimento qualunque, ma in capo al paziente grava l’onere di allegare un inadempimento qualificato, causalmente efficiente, per tale intendendosi come quello astrattamente idoneo a produrre il danno lamentato. Per contro, in capo al debitore (medico) graverà la prova dell’esatto adempimento, ravvisabile nell’espletamento della prestazione medica con la dovuta diligenza. Ne consegue che, il medico dovrà dare la prova positiva della diligenza o dimostrare che l’evento dannoso si è verificato per l’intervento di un fattore estraneo alla sua sfera soggettiva, e non ricollegabile causalmente al suo operato. Dovrà quindi dimostrare la mancanza del nesso di causalità.
Merita di essere rilevato però come, a seguito degli interventi legislativi intervenuti in materia ( L. 8 novembre 2012, n. 189 – C.d. Decreto Balduzzi e successivamente L. 8 marzo 2017, 24, c.d. Gelli Bianco) la situazione sia stata ribaltata.
Delle prime avvisaglie erano state indirizzate dal legislatore già con l’art. 3, c.1 del Decreto Balduzzi il quale disponeva che “L’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche della comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l’obbligo di cui all’art. 2043 del codice civile. Il giudice, anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo periodo”.
Ed invero, il riferimento testuale all’art. 2043 cc aveva diviso la dottrina: da una parte coloro i quali ritenevano che il richiamo alla disciplina della responsabilità aquiliana valesse una volta per tutte a qualificare la natura della responsabilità giuridica del medico, e dall’altro coloro i quali ritenevano che il richiamo all’art. 2043 cc fosse un modo per sottointendere che il medico avrebbe risposto a livello civile anche per i casi di c.d. colpa lieve.
Se la teoria del contatto sociale ha iniziato a vacillare con detto intervento legislativo, la stessa è definitivamente tramontata – quantomeno in ambito medico- con l’introduzione della Legge Gelli- Bianco, la quale ha espressamente provveduto a qualificare la responsabilità del medico, in assenza di contratto con il paziente, ai sensi dell’art. 2043 cc.
Ragioni di completezza impongono di dar conto di come sia stato nuovamente duplicato il binario attraversato dalla responsabilità medica. Difatti, la legge Gelli Bianco, oltre ad aver comportato di certo superamento della teoria del contatto sociale, ha di contro affermato come “La struttura sanitaria pubblica o privata che, nell’adempimento della propria obbligazione, si avvalga dell’opera di esercenti la professione sanitaria, anche se scelti dal paziente e ancorché non dipendenti della struttura stessa, risponde, ai sensi degli artt. 1218 e 1228 cc, delle loro condotte dolose o colpose”.
In pratica ha quindi, nuovamente, ribadito la sottoposizione alla disciplina giuridica della responsabilità da inadempimento, ex artt.1218-1228 cc, per la struttura sanitaria. Avuto riguardo alla posizione del medico ha, innovando, distinto a seconda che si verta o meno in un caso regolamentato da contratto: nel primo il medico risponderà ex art. 1218 cc, nel secondo ex art. 2043 cc.
Di talchè, con la nuova disciplina, perdono di significato le ragioni che avevano portato alla nascita e al successo della teoria del contatto sociale, riproponendosi, inevitabilmente, le problematiche legate al criterio del riparto dell’onere della prova, tornato ad essere, di fatto, nuovamente e maggiormente gravoso per il paziente che lamenti la lesione cagionata a seguito di prestazione medica in assenza di fattispecie negoziale di regolazione del rapporto.
Ulteriore campo all’interno del quale la teoria del contatto sociale ha ricevuto applicazione pratica è stato quello scolastico, al fine di individuare la natura giuridica della responsabilità dell’insegnante per le autolesioni dell’allievo.
Il dato normativo da cui partire è rappresentato dall’art. 2048 cc. Il secondo comma della disposizione in esame cosi recita: “I precettori e coloro che insegnano un mestiere o un’arte sono responsabili del danno cagionato dal fatto illecito dei loro allievi e apprendisti nel tempo in cui sono sotto la loro vigilanza”.
Ed invero, ci si è chiesti quale sia il tipo di responsabilità- se da inadempimento o extracontrattuale- in cui incorra l’insegnante per le lesioni che l’allievo sottoposto alla sua vigilanza si sia auto inferto.
Prima dell’intervento risolutore delle SSUU della Cassazione, che ha escluso l’operatività della responsabilità extracontrattuale alla fattispecie in rilievo (con conseguente inquadramento della stessa in chiave contrattuale), va dato atto di come si fronteggiassero sul tema due orientamenti, evidentemente contrastanti.
Il primo, quello maggioritario, negava l’applicabilità dell’art. 2048 cc all’ipotesi in questione, partendo dall’assunto per cui il testo della norma, e la collocazione sistematica della stessa, facessero intendere che non ogni tipologia di lesione dovesse rientrare nel campo applicativo dell’art.2048 cc. Ne conseguiva che, le lesioni prese in considerazione dalla disposizione testé indicata, erano unicamente quelle che l’allievo sottoposto al potere di vigilanza dell’insegnante avesse inferto a terzi, cagionando un danno ingiusto, e non a se stesso.
Inoltre, a sostegno di tale tesi si invocava il comma 3, il quale richiede una prova liberatoria che il precettore deve opporre al terzo danneggiato, e non all’allievo il quale si sia auto inferto delle lesioni.
Al fine di ottenere il risarcimento, pertanto, i genitori del minore avrebbero dovuto provare il dolo o la colpa dell’insegnante, ex art. 2043, i quali non potevano darsi ex lege per presunti. Inoltre, i sostenitori di tale orientamento sottolineavano l’impossibilità di estensione analogica dell’art. 2048 cc alle autolesioni dell’alunno in virtù della natura eccezionale della norma, la quale, aggravando la responsabilità dell’insegnante operava una sostanziale inversione degli oneri probatori.
Il secondo orientamento, al contrario, riteneva che il caso di specie in cui il minore si fosse auto lesionato potesse rientrare nella portata della norma di cui all’art. 2048 cc. Conseguentemente, i genitori dello stesso avrebbero dovuto unicamente dimostrare la contestualità tra le lesioni e la sottoposizione a vigilanza dell’insegnante del proprio figlio, operando una presunzione circa la mancata diligenza da parte dell’insegnante in considerazione delle lesioni auto cagionatesi dall’allievo. Restava, dunque, in capo al convenuto l’onere di dimostrare di aver diligentemente vigilato. L’obbligo di vigilanza dell’insegnante andava letto sotto una duplice luce: da una parte come dovere imposto a tutela dei terzi, e dall’altro a tutela degli stessi alunni affidati alla sua custodia.
Le SS UU intervenute a dirimere i contrasti sul tema hanno ritenuto di dover aderire al primo degli orientamenti prospettati, limitando il campo di applicazione dell’art. 2048 cc al solo caso in cui l’allievo provochi un danno a terzi, escludendo l’ipotesi di responsabilità nel caso di autolesioni del minore. Facendo leva sul criterio della c.d. “propagazione della responsabilità” le SS UU hanno posto in rilievo come l’art. 2048 cc nasca al fine di consentire una traslazione di responsabilità (la quale si estende a soggetti diversi dall’autore dell’illecito) dal minore all’insegnante, per effetto della norma stessa.
I giudici di legittimità, inoltre, si sono interrogati circa la configurabilità di una responsabilità di tipo contrattuale a carico tanto della scuola, che dell’insegnante nei confronti del minore.
Per effetto della domanda di ammissione, seguita dall’iscrizione, il rapporto di tipo contrattuale tra scuola e minore verrebbe a concretizzarsi; di talchè graverebbero in capo all’istituto scolastico, tra l’altro, anche l’obbligo di protezione sul minore, pure al fine di evitare che lo stesso si autolesioni.
La fonte idonea a dar vita ad un rapporto obbligatorio tra insegnante ed alunno è stata, invece, ravvisata nel contatto sociale che si viene ad instaurare tra i due soggetti. Tale teoria, cosi come già detto in proposito della responsabilità del medico, attua quei principi di vicinanza della prova e del regime probatorio che si intende assicurare al danneggiato.
Dall’applicazione della stessa – che prevede che esistano rapporti giuridici che pur non vedendo la loro genesi in un contratto hanno contenuto del tutto analogo a quello di un rapporto contrattuale – deriva, in ordine al riparto dell’onere probatorio, l’applicazione della disciplina di cui all’art. 1218 cc. Pertanto, sarà il debitore (insegnante) a dover provare, stante la presunzione di colpa in vigilando che incombe in capo ad esso, che l’inadempimento non c’è stato, o la mancanza di colpa.
Da ultimo, va dato atto di come, anche in ambito bancario, la teoria del contatto sociale abbia ricevuto applicazione. Per vero, ci si riferisce all’interrogativo circa il tipo di responsabilità che si radica in capo all’istituto bancario a fronte del pagamento di assegno bancario nominativo, munito di clausola di non trasferibilità, effettuato a soggetto non legittimato.
In merito si sono registrate delle pronunce di segno opposto, atteso il problema dell’individuazione della funzione svolta dalla banca negoziatrice in rapporto alla posizione del prenditore e della banca creditrice cartolare.
Ed invero, il Regio Decreto del 21 dicembre 1933, n.1736, all’art. 43 detta una compiuta regolamentazione della materia statuendo come, l’assegno bancario emesso con la clausola “non trasferibile” non possa essere pagato se non al prenditore o, a richiesta di costui, accreditato sul suo conto corrente. Questi, non può girare l’assegno se non ad un banchiere, per l’incasso, al quale è fatto divieto di ulteriore girata. E difatti, le girate apposte contravvenendo al divieto si hanno per non scritte, cosi come la cancellazione della clausola “non trasferibile” si ha per non avvenuta. Colui il quale paghi un assegno non trasferibile ad una persona diversa da quella del prenditore o anche dal giratario per l’incasso è tenuta a rispondere del pagamento.
È proprio questa ultima statuizione a porre dei problemi interpretativi. Difatti, la norma stabilendo la responsabilità del soggetto che paghi un assegno non trasferibile ad una persona diversa dal prenditore non aggiunge altro, non specifica in quale tipologia di responsabilità incorra.
E bene, le SS UU hanno ritenuto che in tali casi venga in rilievo un’obbligazione ex lege, nascente dal contatto sociale, che rinviene la propria fonte nell’art. 1173 cc, in “ogni altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità all’ordinamento giuridico”. La responsabilità che viene in rilievo, dunque, è da inadempimento di un’obbligazione preesistente.
Anche in tale circostanza l’oggetto dell’obbligazione è da ravvisarsi in un obbligo di protezione di tutti i soggetti i quali confidano nella regolare circolazione del titolo e nel buon fine della sottostante operazione.
Obbligo che può definirsi preesistente, specifico e volontariamente assunto.
Il banchiere, difatti, è il soggetto materialmente preposto al pagamento di detti assegni e quindi destinatario delle statuizioni in materia.
Ne deriva come, scopo delle regole dettate dalla normativa di parte speciale e del codice in generale sul tema, sia quello di rafforzare l’interesse generale alla regolare circolazione dei titoli di credito. Ma non solo. Scopo ulteriore è quello di tutelare i diritti di coloro i quali siano interessati e ne vantino rispetto alla circolazione di quel titolo.
Conclusivamente, alla luce di tale orientamento delle SSUU della Cassazione si ricava la natura contrattuale della responsabilità dello stesso, il quale abbia pagato detti assegni a soggetti non autorizzati, in violazione delle regole poste dall’art. 43 del R.D. del 21 dicembre 1933, n.1736, nei confronti di coloro i quali abbiano sofferto un danno dalla violazione delle stesse. Dalla qualificazione di tale responsabilità come contrattuale derivano non trascurabili conseguenze sul piano della prescrizione e dell’onere probatorio.
Relativamente al primo punto, la disciplina che trova applicazione è quella di cui all’art. 2946cc, in luogo di quanto previsto dalla disposizione di cui all’art. 2947 cc . Ne deriva che il termine di prescrizione sarà di dieci anni.
Avuto riguardo al riparto dell’onere probatorio, seguendo lo schema della responsabilità latu sensu contrattuale, il creditore dovrà provare il titolo (contatto sociale), il danno, e limitarsi ad allegare l’inadempimento. Sarà onere del debitore, al contrario, dare prova della diligenza tenuta.
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