1. Il concetto di complessità tra cultura, civilizzazione ed educazione
Scrive Edgar Morin nell’opera “La testa ben fatta” che noi siamo contemporaneamente dentro e fuori la natura, come dire che tutto è centro e tutto è periferia secondo il pensiero di Giordano Bruno, il cantore dell’infinità dei mondi. Siamo dunque esseri sia fisici che biologici, sia culturali che spirituali e cerebrali, ma soprattutto cosmici. Infatti, secondo Morin, la terra è una totalità complessa fisica-biologica-antropologica; l’uomo stesso non può essere disgiunto dalla natura, esso ha infatti origine dalla natura vivente e fisica e, nello stesso tempo, se ne distingue ed emerge attraverso la cultura, il pensiero e la coscienza. Pertanto, ciò che è umano è anche complesso in quanto duplice; l’umanità non si riduce all’animalità, ma senza animalità non c’è umanità. «Complessità» è il termine che si contrappone al concetto di semplicità; è il termine che viene dal verbo latino «complector», ossia cingere, tenere avvinto strettamente, avvolgere come un mantello, unire tutto in sé. Riunire sotto un solo pensiero e una sola denominazione. Morin, che sul versante sociologico è stato tra i più attenti alle conseguenze di tale nuovo paradigma, è giunto ad affermare che: «Se si potesse definire la Complessità in maniera chiara, ne verrebbe evidentemente che il termine non sarebbe più complesso» 2. Inoltre, in tal senso egli prosegue: «v’è complessità quando sono inseparabili le differenti componenti che costituiscono un tutto […] e quando v’è un tessuto interdipendente, interattivo e interretroattivo fra le parti e il tutto e fra il tutto e le parti»3. Pertanto, abbandonata l’idea di un universo perfetto, ordinato ed eterno, la condizione cosmica attuale dell’individuo si colloca in un gigantesco cosmo in espansione, formato da miliardi di galassie e da miliardi di stelle e la terra non è che una piccola trottola in cui disordine e organizzazione coesistono, così come animalità e umanità costituiscono la condizione dell’uomo. Infatti il concetto di uomo è legato sia all’origine biofisica che a quella psico-socio-culturale che si richiamano a vicenda; cioè noi siamo nati dal cosmo, dalla natura e dalla vita ma a causa della nostra cultura, della nostra mente e coscienza siamo diventati estranei a questo universo. L’uomo è, quindi, un essere pienamente biologico e nello stesso tempo un essere del tutto culturale. Morin, alla luce di quanto affermato, ha dedicato gran parte della sua opera ai problemi di una «riforma del pensiero», centrata sulla necessità di una nuova conoscenza che superi la separazione fisica del diciannovesimo e soprattutto del ventesimo secolo e che sia capace di educare gli educatori al pensiero della complessità. Infatti egli sostiene che «la cultura, non solo è frammentata in parti staccate, ma anche spezzata in due blocchi»4. Da una parte si pone la cultura umanistica, dall’altra la cultura scientifica; la prima riflette sui fondamentali problemi umani, la seconda divide i campi della conoscenza, produce scoperte straordinarie, ma non promuove la riflessione sul destino umano e sul divenire della scienza stessa5. La dicotomia tra scienze umane e discipline scientifiche è un vecchio problema e molti autori sostengono che la cultura umanistica alimenta l’intelligenza generale, mentre quella scientifica separa ed è settoriale. Ma la complessità non è una pozione magica, cioè il rimedio a tutti i mali dello spirito, bensì una sfida da raccogliere. La separazione delle discipline non fa cogliere «ciò che è tessuto insieme»,6 il Complexus. L’intelligenza che sa solo separare spezza in frammenti il complesso del mondo, essa si muove soltanto nell’ottica della unidimensionalità, allontanandosi da una visione a lungo termine. Quindi diventa un pensiero che taglia e che isola. Di contro, intelligente è colui che riesce a interpretare la realtà avendo la capacità di mettere insieme le due visioni, quella umanistica e quella scientifica. Inoltre, la mancanza di una percezione globale causa l’indebolimento del senso di responsabilità, poiché ognuno diventa responsabile soltanto di ciò in cui è specializzato. Trasferendo ciò nel contesto sociale, si causa l’indebolimento della solidarietà in quanto ognuno percepisce soltanto il legame con il «locale». Già scriveva Montaigne nei “Saggi”: «Ognuno chiama barbarie quello che non è nei suoi usi; sembra infatti che noi non abbiamo altro punto di riferimento per la verità e la ragione che l’esempio e l’idea delle opinioni e degli usi del paese in cui siamo […]»7. Tutto ciò è ancora più pertinente e attuale se facciamo riferimento alla distinzione tra civilizzazione e cultura. La cultura è l’insieme delle credenze e dei valori caratteristici di una determinata comunità; la civilizzazione è il progresso attraverso il quale si trasmettono da una comunità all’altra le tecniche, i saperi e le scienze.
Infatti, se si indebolisce la percezione globale, si indeboliscono anche il senso di responsabilità e di solidarietà, dal momento che ognuno tende ad essere responsabile solo del proprio compito specializzato e percepisce soltanto il legame con la propria città. Anche la civilizzazione occidentale ha bisogno di una riforma e, quindi, di una politica nuova, da attuarsi attraverso l’umanizzazione delle città e la lotta alla desertificazione delle campagne. L’obiettivo è quello di ristabilire la solidarietà e la responsabilità, mirando ad una simbiosi tra le diverse civilizzazioni planetarie, prendendo il meglio di quanto ciascuna offre. Bisogna abbandonare l’idea quantitativa di crescita generalizzata, per adottarne una qualitativa che indichi i siti della crescita e quelli di una decrescita. Riforma del pensiero, riforma dell’educazione e riforma dell’insegnamento: questi sono i presupposti necessari alla valorizzazione della cultura e quindi anche della scuola.
Infatti l’insegnamento-educazione è oggi di fronte a tre sfide:
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la sfida culturale, in cui si confrontano il sapere umanistico che riflette sui principali problemi umani favorendo l’integrazione delle conoscenze e la cultura tecnico-scientifica, la quale opera scoperte straordinarie ma non riflette sul destino degli uomini, né sul divenire della scienza stessa;
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la sfida sociologica, che individua nel pensiero il capitale più importante per l’uomo e per la società, per cui la conoscenza deve integrare e padroneggiare l’informazione, mentre il pensiero deve costantemente rivisitare e rivedere la conoscenza;
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la sfida civica, che di fronte ad un sapere accessibile ai soli specialisti è anonimo, poiché quantitativo e formalizzato, invece deve assolutamente saper fronteggiare e contenere il deficit democratico, nel senso che si può parlare di civilizzazione solo quando le conoscenze diventano patrimonio di tutti e quindi sono condivisibili.
E’ chiaro che raccogliere queste sfide significa procedere ad una riforma dell’insegnamento che deve portare alla riforma del pensiero e viceversa. Si tratta non di una proposta programmatica, bensì paradigmatica. Soltanto in questo modo si potrebbe giungere ad avere consapevolezza della comunità di destino tipica della nostra condizione planetaria. Si tratta di apprendere a vivere, di imparare a trasformare le informazioni in conoscenze e queste in competenze, spendibili sul campo. Maturare e acquisire un vivere consono è anche apprendere a diventare non solo cittadini, ma cittadini del «glo-cale», cioè appartenenti al proprio villaggio e contemporaneamente al mondo intero che in questo si rispecchia.
2. L’influenza della globalizzazione ed una rinnovata visione pedagogica.
La globalizzazione, che inizia negli anni Novanta, è la tappa attuale di un’era planetaria iniziata con la scoperta e successiva conquista delle Americhe e con l’espansione delle potenze europee occidentali nel mondo. Infatti la planetarizzazione si sviluppa nei vari continenti con l’apporto della civiltà europea, delle sue armi e delle sue tecniche.
Il nuovo scenario si presenta come un processo lungo secoli, sviluppatosi insieme al fenomeno di espansione della popolazione umana e al progresso delle civilizzazioni; inoltre, si è manifestato sempre più velocemente, soprattutto negli ultimi cinquant’anni. Le prime forme di società globalizzata esistevano già durante l’Impero Romano, l’espansione araba e l’Età d’Oro dell’Islam, quando i commercianti arabi, gli esploratori, i conquistatori e i colonizzatori stabilirono una primordiale forma di economia globale nel Vecchio Mondo e poi tra il Vecchio e Nuovo Mondo. L’integrazione mondiale continuò nei secoli XVI e XVII, quando l’Impero Spagnolo e quello Portoghese, seguiti dall’Impero Britannico, Olandese e poi Francese raggiunsero l’intero pianeta dopo la conquista dell’America. Tale processo cambiò le mentalità e il modo di vivere, divenne un fenomeno economico soprattutto nel XVII secolo, quando con la nascita della Compagnia Olandese delle Indie Orientali, si può parlare di una prima Corporation multinazionale. La liberalizzazione del XIX secolo segna la prima era della globalizzazione, un periodo caratterizzato dalla crescita rapida del commercio internazionale, dagli investimenti tra le potenze imperiali europee, le loro colonie e gli USA. Questa prima era cominciò a sfaldarsi allo scoppio della Prima Guerra Mondiale e si modificò durante il secondo conflitto mondiale, per riprendere in tempi successivi grazie anche all’incremento dello sviluppo tecnologico. L’economia mondiale è un tutto interdipendente, in quanto ogni sua parte diventa dipendente dal tutto e il tutto, a sua volta, risente delle parti.
Il mondo è diventato un tutto, ogni sua parte fa parte del mondo e questo, a sua volta, è sempre più presente in ciascuna delle sue parti.
Come afferma ancora Morin: «la mondializzazione è nel contempo evidente, subcosciente, onnipresente»8. In particolare per il terzo millennio, si può intravedere la possibilità di una nuova creazione, ossia quella di una cittadinanza terrestre.
Il nucleo, il centro di tale processo è senza dubbio l’educazione, la quale è contemporaneamente trasmissione del passato e apertura al nuovo. Tale visione dei tempi implica un programma al servizio dell’essere umano, inseparabile da una politica di civiltà che possa civilizzare la Terra, intesa come «casa e giardino comune dell’umanità»9.
L’unione planetaria ha bisogno soprattutto di un sentimento di reciproca appartenenza che ci leghi alla nostra terra intesa come prima e ultima patria. Infatti, secondo il concetto Terra-Patria, noi con consapevolezza impariamo ad esserci, cioè a condividere e comunicare. Non apparteniamo più ad una sola cultura, non dominiamo, ma operiamo finalizzando al miglioramento e alla comprensione.
Più precisamente, bisogna inscrivere in noi:
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la coscienza antropologica, che riconosce la nostra unità nella nostra diversità;
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la coscienza ecologica, ossia coabitare la terra insieme agli altri;
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la coscienza civica, fondata sulla solidarietà e sulla responsabilità;
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la coscienza dialogica, cioè maturare un pensiero che permetta la critica ma anche l’autocritica.
In tal modo tutte le patrie potranno essere legate tra loro e integrate nella patria terrestre; lo stesso per le culture, con le loro saggezze e le loro carenze. La riforma del pensiero auspicata da Morin è strettamente legata all’educazione e quindi alla necessità di riformare anche l’insegnamento. Educazione e insegnamento, due termini che coincidono e nello stesso tempo si differenziano. Infatti attualizzare i percorsi educativo -didattici, come proposto dall’autore, significa rinnovare il soggetto che insegna e il soggetto che apprende; mentre riforma del pensiero significa cambiamento del soggetto che pensa e del pensiero rivolto ad un oggetto pensato. La metafora della «testa ben fatta» è lo specchio nel quale si riflette la risposta a queste trasformazioni, infatti è più importante formare che in-formare.
E la prima finalità dell’insegnamento è stata chiarita dal filosofo Montaigne, secondo cui «è meglio una testa ben fatta che una testa ben piena»10. Montaigne è definito il filosofo della modernità anche perché ha elaborato il concetto di relativismo culturale, ispirato dal «Mito del buon selvaggio»11; grazie al quale coglie nuovi e più ampi orizzonti culturali, interpreta in senso positivo la diversità delle popolazioni precolombiane e la considera una risorsa, di contro all’atteggiamento superbo degli esploratori europei che conquistavano il nuovo continente distruggendo crudelmente le civiltà indigene. Il mondo continua ad essere in rapida trasformazione e le conoscenze sono destinate ad essere consumate, anche per questo è indispensabile formare le menti che possono disporre di un’ attitudine generale e di principi organizzatori che permettono di collegare i saperi e di dare loro un senso. Non può aversi una riforma dell’insegnamento senza una riforma del pensiero e viceversa, quindi riformare l’insegnamento e il pensiero è la condizione necessaria per una «testa ben fatta».
Mentre una «testa ben piena» è caratterizzata da un sapere accumulato e non dispone di un principio di selezione e di organizzazione che gli dia senso, una «testa ben fatta» non accumula il sapere ma sviluppa un’ attitudine a trattare i problemi e una organizzazione che permette di collegare i saperi dandogli un senso. Questo è certamente il passo da compiere verso il pensiero complesso.
Infatti quest’ultimo è sempre più rivolto alle problematiche caratterizzanti il contesto storico-sociale ed economico attuale, non concordante con un insegnamento frazionato e disciplinare che ignora sia la dimensione globale, frammentandola, sia quella essenziale, dissolvendola.
Pertanto, bisogna tener conto della globalità, perché essa rappresenta la sfida alla complessità, la quale non si traduce in difficoltà, bensì costituisce il tessuto interdipendente, interattivo e inter-retroattivo della realtà e delle sue parti. L’intelligenza deve, allora, adeguarsi alla multidimensionalità considerando i problemi e le grandi tematiche nel contesto e nel complesso planetario. La scuola, invece, isola ancora gli oggetti di studio, separa le discipline, distingue i problemi, riduce il complesso al semplice ed i giovani, in un tale contesto, perdono le loro attitudini naturali a contestualizzare i saperi, principio basilare della conoscenza permanente.
3. Interrogare il rapporto società-educazione in un mondo globalizzato
Nell’ottica della sociologia positiva, è un fatto pienamente riconosciuto il rapporto diretto tra società ed educazione; la teoria più recente a riguardo è quella durkheimiana dell’educazione come socializzazione.
Secondo questa teoria il sistema sociale è depositario di valori indiscutibili, quindi l’educazione è funzionale alla loro difesa, trasmissione e riproduzione.
Ci sono poi altre teorie che pur riconoscendo l’influenza dei condizionamenti sociali, danno all’educazione il compito di e-ducere, cioè di estrapolare le potenzialità tipiche della giovane età. In questo caso non c’è l’azione totalizzante della società e il soggetto viene considerato nella sua autonomia; la quale negli ultimi secoli si è identificata con l’affermarsi delle società democratiche in cui coesistono la dimensione individuale, collettiva e sociale.
Pertanto, bisogna parlare di complementarietà tra l’organizzazione e l’agire sociale e l’organizzazione e l’agire educativo.
In particolare, la planetarizzazione dei contesti induce a rivedere la dinamica degli attuali processi di socializzazione e il loro rapporto tra questi e i processi di educazione12. Questo rapporto cambia parallelamente al cambiare del panorama socio-educativo e modifica la stessa educazione.
Infatti nel modello autoritario di società la conoscenza è al servizio di uno solo o di pochi; nelle organizzazioni che si basano sul principio di autorità del popolo e quindi sui diritti dei cittadini e sulla loro libertà di pensiero, le conoscenze anche grazie all’evolversi dei modelli democratici e del pensiero scientifico sono al servizio di tutti i cittadini e la socializzazione richiede un’istruzione disciplinare di base che gradatamente si estende a tutti affinchè se ne possa beneficiare.
Attualmente la conoscenza è planetaria, oltre i confini delle società nazionali. Pertanto si pone il problema di una dinamica della socializzazione dell’intero genere umano e, di conseguenza, dell’educazione e della formazione di oltre sei miliardi di persone che abitano il pianeta e condividono il comune progetto di «formazione di specie»13.
La mondializzazione dei saperi intesa come consapevolezza dei sistemi di sapere dei diversi popoli, società e culture della Terra, implica la critica alla razionalità occidentale e richiede una razionalità nuova capace di misurarsi e di rispondere alle sfide del Villaggio globale. Questa è una via obbligata perché possa esserci l’affermazione di un «Umanesimo planetario»14.
Quindi non può esserci la razionalità separata, né il pensiero della singola disciplina accessibile settorialmente soltanto agli addetti ai lavori, tantomeno si può pensare ciò dopo l’irruzione della Complessità e il riconoscimento dell’interazione micro e macro degli eventi15. Infatti la ricerca innovativa ha imposto un lavoro intrecciato tra gli studiosi dei diversi ambiti disciplinari in modo da confrontarsi e rivedere le proprie conoscenze nell’ottica della rete delle conoscenze scientifiche e della «razionalità correlata»16.
Gli approcci interdisciplinari cambiano il concetto di conoscenza oggettiva e l’attendibilità razionale non sta più nel singolo contributo disciplinare, il quale offrirebbe uno spaccato di verità insufficiente e incompleto rispetto al problema complesso. Viceversa, nel loro insieme i contributi disciplinari considerano i diversi punti di vista e l’attendibilità è garantita dalla compresenza dei saperi.
Inoltre, la mondializzazione dei saperi conduce oltre le verità a cui si è giunti nei paesi occidentali più ricchi, verità sulle quali essi hanno costruito la loro crescita e i loro abusi. Il Villaggio globale pone il problema della razionalità globale che a sua volta deve continuare a promuovere la libertà e il governo del popolo, inteso come l’intera popolazione della specie umana. Questa è la sfida della socializzazione e dell’educazione per tutti che attraverso l’accettazione dei modi e delle forme di conoscenza supera l’incomunicabilità dei saperi diversi e si proietta invece verso la mondializzazione della conoscenza solidale17.
4. Brevi considerazioni finali
La riflessione sul valore della teoria della complessità elaborata in queste brevi riflessioni, scaturisce dalla consapevolezza del nuovo già in atto, dalla coesistenza di unità e di molteplicità, dell’affermarsi del glocale come coabitazione del locale e del planetario insieme. La trasformazione delle culture e delle identità, la complessità sociale e cognitiva, i nuovi modelli di intelligenza e di comunicazione diventano la sfida della complessità che, a sua volta, diventa anche sfida all’educazione e alla scuola, le quali vanno necessariamente ripensate. Queste ultime, infatti, devono aprirsi al patrimonio mondiale delle conoscenze, devono saperle ricercare e riconoscere, insegnarle e renderle spendibili come competenze formative maturate. In tal senso, perché possa affermarsi un “Umanesimo planetario”, bisogna superare la razionalità separata e il pensiero della singola disciplina, procedendo invece secondo un lavoro di intreccio tra gli studiosi dei diversi ambiti disciplinari e di confronto.
Bibliografia consultata
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Orefice P., La formazione di specie. Per la liberazione del potenziale di conoscenza del sentire e del pensare. Guerini Studio, Milano, 2003.
Rorty R., Science e Solidarité. La verité sans le pouvoir, Editions de l’Eclat, Comas, 1990.
2 Morin E., Le vie della complessità, in Bocchi G., Ceruti M. (a cura di), La sfida della complessità, Feltrinelli, Milano, 1994, p. 49.
3 Morin E., La testa ben fatta. Riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero, Editore Cortina Raffaello, Milano,1999, p. 6.
4 Morin E., La testa ben fatta. Riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero, cit., pp. 89-90.
5Cfr: Morin E., La testa ben fatta, cit.
6 Cfr: Ibidem.
7 De Montaigne M., Saggi, libro I, cap. XXXI, Edizione Adelphi, Milano, 2005, p. 272.
8 Morin E., I sette saperi necessari all’educazione del futuro, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2001, p. 45.
9 Morin E., I sette saperi necessari all’educazione del futuro, cit., p. 63
10 Morin E., La testa ben fatta, cit., p. 15.
11 De Montaigne M., Saggi, a cura di Garavini F., Adelphi, Milano, 1996, pp. 272-274.
12 Le Thanh-Khoi, Education e Civilisations. Genèse du monde contemporain, Le prince Editeur/Unesco, Paris, 2001.
13 Orefice P., La formazione di specie. Per la liberazione del potenziale di conoscenza del sentire e del pensare, Guerini Studio, Milano, 2003, p. 231.
14 Mc Luhan M., Powers B. R., Il villaggio globale. XXI secolo: trasformazione nella vita e nei media, Milano, Sugarco, 1998, p. 86.
15Cfr: Horgan J., La fine della scienza, Adelphi, Milano, 1998.
16 A.A.V.V., Relier les connaissances, Seuil, Paris, 1999, p. 102.
17Cfr: Rorty R., Science e solidarité. La verité sans le pouvoir, Editions de l’Eclat, Comas, 1990.
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