La tormentata interrelazione tra la libertà di espressione ed il diritto all’integrità della reputazione, l’ultimatum della Consulta

di

Francesco Esposito
Costantino Luciano

Il presente contributo involge, tramite l’analisi della ordinanza n. 132 del 2020, pronunciata dalla Corte Costituzionale, la problematica della determinazione del giusto paradigma sanzionatorio, finalisticamente orientato a censurare gli episodi di illecito travalicamento del perimetro del diritto all’integrità della sfera intima della reputazione ad opera del diritto di cronaca, quale inscindibile componente della libertà di manifestazione del pensiero.

L’impulso dei giudici di merito

L’ordinamento giuridico italiano, com’è noto, si colloca all’interno di un più ampio formante legislativo e giurisprudenziale. Questi ultimi, lungi dall’essere meri fattori esogeni solo occasionalmente condizionanti, disegnano un vero e proprio modello integrato di tutela volto ad ampliare la portata di protezione degli individui; e ciò per effetto della interpretazione ed applicazione congiunta della Costituzione nazionale, della CEDU e di ulteriori Convenzioni.

Questa innegabile “porosità” dei modelli di tutela dei diritti sta assumendo, negli ultimi tempi, un carattere sistemico, soprattutto limitatamente al formante giurisprudenziale.

Com’è noto, dal combinato disposto degli artt. 117 Cost. e 32 CEDU, emerge una vera e propria competenza “funzionale” della Corte di Strasburgo nell’ambito della interpretazione ed applicazione delle norme contenute nella Convenzione stessa. Nomofilachia, quest’ultima, evidentemente vincolante per il diritto vivente nazionale.

Ciò premesso, risulta di estremo interesse comprendere come, spesso, a dare la stura ad intricati nodi interpretativi (sovente non risolvibili attraverso statuizioni giurisprudenziali, come nel caso di specie) sia la giurisprudenza di merito, a sua volta stimolata dagli operatori del diritto per antonomasia: gli avvocati.

Orbene, il Tribunale in composizione monocratica di Salerno, con ordinanza del 9 aprile 2019 (G.U. 1° serie, n. 38 del 18 settembre 2019), sollevava q.l.c. nell’ambito di un procedimento penale involgente il reato di diffamazione a mezzo stampa ex artt. 595, comma 3 c.p. e art. 13 legge n. 47/1948, considerando non manifestamente infondata la memoria prodotta dal difensore dell’imputato. Circa il merito della questione, in questa sede è sufficiente anticipare che essa involge la compatibilità della deteriore soluzione sanzionatoria italiana (pecuniario-detentiva) in tema di diffamazione, il cui elemento oggettivo postula, in ogni caso, una genesi astrattamente ascrivibile ad altro principio costituzionale: quello relativo alla libertà di manifestazione del pensiero.

A destare particolare interesse, anche in ossequio delle premesse iniziali, è l’impianto argomentativo con il quale il giudice a quo investiva la Corte Costituzionale, in quando quasi interamente imperniato sulla necessità di una interpretazione dell’art. 595 c.p. “convenzionalmente orientata”. Il giudice monocratico salernitano, infatti, evidenziava che la questione non può non ritenersi infondata in quanto concernente “la necessità di un adeguamento del diritto interno, segnatamente, del diritto penale in materia di diffamazione a mezzo stampa, al generale principio di cui all’art. 10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo così come costantemente interpretato dalla Corte di Strasburgo, anche nei recenti giudizi contro l’Italia”.

Analoghe considerazioni valgano per la coeva q.l.c. – tanto da esser esaminata congiuntamente dalla Consulta – sollevata dal Tribunale ordinario di Bari -sede di Modugno, prima sezione penale, con ordinanza del 16 aprile 2019 (G.U. 1° serie, n. 40 del 2 ottobre 2019).

Peculiarità di siffatta ordinanza di rimessione è, non tanto il contenuto, invero adesivo al ragionamento giuridico del giudice di Salerno – e che tra poco si esporrà poiché in ogni caso ripreso dalla Corte Costituzionale-, bensì la rilevazione officiosa della q.l.c. da parte dell’organo giurisdizionale pugliese. Quest’ultimo attivismo, a ben vedere, costituisce un chiaro riscontro idoneo a corroborare la tendenza evidenziata in premessa: l’interpretazione ed applicazione congiunta della Costituzione e della CEDU da parte del diritto vivente, strumentale al raggiungimento una tutela integrata dei diritti fondamentali della persona.

La decisione della Corte Costituzionale

Con l’ordinanza n. 132 del 09/06/2020, depositata in data 26/06/2020, la Consulta viene investita, per il tramite delle q.l.c. – innanzi analizzate- sollevate dal Tribunale di Salerno e da quello di Bari, in qualità di giudici a quo, dell’arduo compito di pronunciarsi sulla compatibilità, con l’impianto normativo costituzionale, delle disposizioni di cui agli artt. 595 c. 3 c.p. e 13 L. 47/1948.

In particolare, delle menzionate norme, si censura – come visto- la previsione della pena della reclusione – in via alternativa o cumulativa rispetto alla multa – a carico di chi sia ritenuto responsabile del delitto di diffamazione aggravata dall’uso del mezzo della stampa e consistente nell’attribuzione di un fatto determinato.

Il supremo organo dell’ordine giurisdizionale nazionale, condividendo la narrativa motivazionale fornita dai giudici remittenti, passa in rassegna la corposa giurisprudenza sovranazionale, partorita dalla Corte EDU in materia di libertà di espressione, tutelata ex art. 10 della Convenzione ed asseritamente violata.

La prima sentenza degna di nota, va rintracciata in quella pronunciata dalla Grande Camera il 17 dicembre 2004, Cumpn e Mazre c. Romania. Con essa sentenza la Corte EDU pur reputando legittima l’affermazione della penale responsabilità formulata a carico degli imputati, stima la pena di mesi 7 di reclusione non sospesa, ancorché non concretamente eseguita per l’incidenza di un provvedimento di grazia presidenziale, sproporzionata – e pertanto non necessaria in una società democratica ai sensi dell’art. 10, par. 2 CEDU- con il diritto alla libertà di espressione, tutelata dal paragrafo 1 del medesimo art. 10 CEDU.

Nella sentenza in analisi, la Corte EDU ricorda il consolidato ruolo assolto dagli organi si stampa, definito “cane da guardia della democrazia”, evidenziando che la disciplina afferente all’esercizio della libertà di espressione deve tanto garantire una efficace tutela del diritto alla reputazione delle persone, quanto evitare di dissuadere i media dall’assolvimento del primario ruolo di informatori/comunicatori, scongiurando la produzione del c.d. chilling effect.

I principi di diritto appena analizzati, offerti dalla Corte Europea, hanno assunto le vesti di guida nella risoluzione di casi analoghi. La testimonianza del solco creato dalla giurisprudenza sovra-nazionale, con inevitabili riflessi negli ordinamenti nazionali, può essere rintracciata in successive due sentenze che coinvolgono in prima persona il nostro ordinamento, ovverosia la sentenza del 24 settembre 2013, Belpietro c. Italia e quella del 7 marzo 2019, Sallusti c. Italia.

In tali ultime pronunce viene riproposto il dualismo, innanzi menzionato, tra la legittimità dell’affermazione di responsabilità penale in capo ai ricorrenti da parte dei giudici italiani, stante la non veridicità e la gravità degli addebiti rivolti alle persone offese, in assenza dei doverosi controlli da parte del giornalista e la sproporzionalità dell’inflizione nei confronti dei medesimi di una pena detentiva, condizionalmente sospesa ovvero cancellata da un provvedimento di grazia del Presidente della Repubblica.

Convergono sulla posizione assunta dalla Corte EDU finanche numerosi scritti degli organi politici del Consiglio d’Europa, nei quali vengono esortati gli Stati membri a rinunciare alle sanzioni detentive per il delitto di diffamazione, allo scopo di tutelare più efficacemente la libertà di espressione dei giornalisti e, correlativamente, il diritto dei cittadini ad essere informati.

Tra questi, rilevato l’interessamento dell’ordinamento italiano, va menzionata la risoluzione 24 gennaio 2013, n. 1920, sullo stato della libertà dei media in Europa, con la quale l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa ha nuovamente stigmatizzato l’uso distorto dei procedimenti penali per fatti di diffamazione. In dettaglio, con specifico riferimento all’Italia, l’Assemblea chiede alla Commissione europea per la democrazia attraverso il diritto, la c.d. Commissione di Venezia, di predisporre un parere sulla conformità della normativa italiana all’art. 10 CEDU.

Il risultato, senza stupore alcuno, evidenzia un non completo allineamento della vigente legislazione italiana agli standard del Consiglio d’Europa in materia di libertà di espressione, individuando la problematica di maggior rilievo nella previsione della pena detentiva in relazione alla diffamazione a mezzo stampa (cfr. parere n. 715 del 6-7 dicembre 2013).

Il censuato disallineamento rende, ictu oculi, necessaria ed urgente una rimodulazione, in un’ottica maggiormente garantista, della relazione tra la libertà di manifestazione del pensiero e la tutela della reputazione individuale, ponendo il focus sull’attività giornalistica.

Infatti, la libertà di manifestazione del pensiero, costituzionalmente tutelata e garantita dall’art. 21 cost, costituisce nell’ordinamento italiano un diritto fondamentale, la pietra angolare dell’ordine democratico. Nell’alveo di tale diritto, non può non trovare rifugio, quale sua sfumatura, la libertà di stampa, la quale assolve al primario compito di informare i cittadini, sempre nel rispetto dei criteri guida, originati da una complessa attività di sintesi tra il piano normativo e quello giurisprudenziale.

Orbene, l’importanza assunta, nell’ambito dell’equilibrio democratico, dalla attività giornalistica, estrinsecazione della libertà di stampa, impone una salvaguardia contro ogni minaccia o coartazione, diretta o indiretta che possa frapporre ostacoli al legittimo svolgimento del suo ruolo di informare i consociati e di contribuire alla formazione degli orientamenti della pubblica opinione.

Ex adverso, essa attività, oltre che legittimamente esercitata, deve inevitabilmente conciliarsi, in un’ottica di leale contemperamento, con altrettanti interessi e diritti, di pari rango costituzionale, che ne segnano i possibili limiti.

Fra questi, per quanto concerne la presente analisi, riveste primaria importanza la reputazione della persona, qualificabile, al tempo stesso, come diritto inviolabile della persona ex art. 2 Cost. e componente essenziale del diritto alla vita privata di cui all’art. 8 CEDU, la quale è suscettibile di essere lesa dalla diffusione illecita di addebiti non veritieri o di rilievo esclusivamente privato.

Ciò impone, pertanto, il raggiungimento di un equilibro tra la libertà di “informare” e di “formare” la pubblica opinione svolto dalla stampa e dai media, da un lato, e la tutela della reputazione individuale, dall’altro,

L’ostica funzione di garantire l’equilibrio testé descritto viene affidata agli artt. 595 c.p. e 13 della legge n. 47 del 1948 – oggetto di censura- mediante la previsione, in via rispettivamente alternativa e cumulativa, di pene detentive e pecuniarie, laddove il giornalista offenda la reputazione altrui, travalicando i limiti del legittimo esercizio del diritto di cronaca o di critica di cui all’art. 21 Cost.

Combinato normativo che, malgrado gli sforzi interpretatiti, si è rivelato inadeguato ad assolvere la funzione ad esso affidata, anche e soprattutto alla luce della copiosa giurisprudenza della Corte EDU, innanzi citata, la quale conduce alla cristallizzazione dell’assunto secondo cui la previsione di un regime sanzionatorio, contemplante una pena detentiva, in via esclusiva o cumulativa, con una pena pecuniaria, previsto per un reato commesso a mezzo stampa, quale il delitto di diffamazione, si mostra compatibile con la libertà di espressione dei giornalisti ex art. 10 CEDU, soltanto in circostanze eccezionali, offensive di diritti parimenti fondamentali, individuate nella diffusione di hate speech or incitement to violence.

La denunciata inadeguatezza rende, giocoforza, irrinunciabile ed indifferibile una rivisitazione, in ottica maggiormente garantista e confacente ai parametri costituzionali, del tormentato legame che inevitabilmente interconnette la libertà di espressione con la tutela della reputazione individuale, per di più costantemente messa in pericolo dalle nuove species di mezzi di comunicazione di massa nonché dall’uso distorto dei social netwoork.

Presa contezza del deficiente quadro di tutela, la Consulta individua nel Legislatore l’organo  meglio in grado di disegnare un equilibrato sistema di tutela dei diritti in gioco, che contempli non solo il ricorso – nei limiti della proporzionalità rispetto alla gravità oggettiva e soggettiva dell’illecito – a sanzioni penali non detentive nonché a rimedi civilistici e in generale riparatori adeguati (come, in primis, l’obbligo di rettifica), ma anche a efficaci misure di carattere disciplinare, rispondendo allo stesso interesse degli ordini giornalistici pretendere, da parte dei propri membri, il rigoroso rispetto degli standard etici che ne garantiscono l’autorevolezza e il prestigio, quali essenziali attori del sistema democratico.

Di conseguenza l’organo giurisdizionale, limitandosi ad assolvere il suo primario ruolo di vagliare la compatibilità, con l’assetto Costituzionale e sovranazionale, dell’impianto normativo sotto-ordinato, “passa la palla” al Legislatore, sospendendo i giudizi e riponendo piena fiducia nei progetti di revisione della disciplina della diffamazione a mezzo stampa, già al vaglio delle Camere.

Emerge, da tale modus operandi, uno spirito di leale collaborazione istituzionale tra organi apicali dell’ordinamento giuridico italiano, nonché il rispetto delle attribuzioni di ciascuno. In altri termini, si profilano per la Corte Costituzionale nuove linee di indirizzo, in distonia rispetto a qualche anno fa, in quanto l’organo giurisdizionale rilevato il vulnus di costituzionalità, ma conscia della mancanza di legittimazione ad assurgere al ruolo di creatore del diritto positivo, sempre più di frequente schiva il “comodo” rimedio della dichiarazione di inammissibilità, decidendo nel merito.

Viene, quindi, mitigata la necessità di dissolvere vizi di legittimità costituzionale, da un lato, e di non straripare nella sfera del potere legislativo, dall’altro lato. Ergo, si appalesa, la volontà di aderire ad una prassi, in via di consolidamento in ambito europeo, funzionale ad una costruttiva sinergia tra Corte Costituzionale e Legislatori, onde assicurare il rispetto e lo sviluppo dei principi costituzionali.

La ratio della convergenza su tale linea di indirizzo non può non essere rintracciata nella efficace tutela della persona umana, quale preminente centro di interessi all’interno dell’intero ordinamento giuridico, evitando che sulla stessa possano gravare vulnus generati da una nefasta conduzione dei rapporti istituzionali e funzionali, tra l’organo giurisdizionale e quello legislativo.

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